Droga e relazioni viste dall’altro

Droga e relazioni viste dall’altro
Jessica Piccinali

E’ da circa un anno che frequento il gruppo della trasgressione, esperienza che ritengo arricchente ed emotivamente forte. La sua bellezza sta nella possibilità di creare discussioni e confronti costruttivi tra persone che hanno storie di vita diverse, ma che in questa sede hanno la libertà di esprimersi secondo il loro essere, indipendentemente da ciò che hanno fatto. Sono parecchie settimane che, guidando verso casa dopo il gruppo e riflettendo su cosa “porto a casa” dai contributi di ognuno, forniti attraverso gli scritti condivisi, penso a ciò che è stata la mia esperienza e alla curiosità che, da sempre, mi contraddistingue.

Non ho mai fatto uso di sostanze stupefacenti, ma la mia troppa curiosità, forse insieme a un’inconsapevole ingenuità di qualche anno fa, mi hanno indirettamente portata ad un contatto con queste sostanze. Ripercorrere quegli anni non è facile per me, non con la consapevolezza di oggi, ma a volte risulta fondamentale perché riconosco di essere diventata ciò che sono, anche grazie a quelle esperienze.

Era un venerdì sera. Avevo 18 anni e, fresca di patente, andai a prendere un’amica per quattro chiacchiere insieme e, una volta finite le chiacchiere, mi accorsi che era ancora presto per tornare a casa, anche se il giorno dopo sarei dovuta andare al liceo. Perciò pensai di fare una sorpresa a quello che all’epoca era il mio fidanzato e, avendo le chiavi di casa sua, decisi di andare a trovarlo.

Ricordo come fosse ieri, io che infilo le chiavi nella toppa della porta e la apro. La scena che mi si prospettò davanti cambiò ogni cosa. Lui era lì, chinato sul tavolo, con qualche striscia di cocaina a tenergli compagnia. Non si accorse nemmeno della mia presenza, se non quando mi misi di fianco a lui e lo guardai incredula. Sento ancora i miei occhi pulsanti di rabbia e probabilmente lo gelai con lo sguardo, lessi nei suoi occhi terrore, misto a senso di colpa, insieme alla vergogna. Io provavo delusione, senso d’impotenza e ancora rabbia, tanta rabbia. Rabbia perché non sapevo nulla, perché lui giustificava la mancanza di soldi dicendo che la vita costa cara, che doveva pagare l’affitto e la spesa. Rabbia perché a 18 anni mi ritrovavo a passare i weekend a casa perché lui non poteva nemmeno pagarsi il biglietto del cinema, e mi confrontavo con le mie compagne di classe che invece cominciavano ad andare in discoteca per la prima volta. Rabbia perché mi ero sentita stupida di fronte alle sue menzogne e ingenua per non essermi mai accorta di nulla.

Era da tempo che lui mi faceva sentire inadeguata, brutta, aveva ridotto a zero la mia autostima, facendo anche crollare la mia voglia di fare ciò che le coppie normalmente fanno, tanto che i nostri weekend significavano solo una cosa per me: mangiare per tutto il fine settimana. A un certo punto avevo talmente vergogna di me stessa, da evitare persino di guardarmi allo specchio.

Aveva capito la fragilità che mi apparteneva da qualche anno, da quando i miei genitori si separarono e mio padre perse la testa per una “signora” che lo voleva tutto per sé, che aveva priorità sulle sue figlie, quel padre che chiamavo l’”uomo bancomat” solo perché, in quel momento, era totalmente anaffettivo e l’unica sua funzione di padre era quella di mantenermi economicamente.

Lo guardai di nuovo, mi voltai, e me ne andai. Nei giorni successivi lui cercò di giustificarsi, ma continuavo solo a chiedergli “Perché?”. E proprio la ricerca della risposta a quell’unica domanda che gli feci, mi spinse ad andare oltre. Mi raccontò di essere figlio di una donna eroinomane che, fin da quando lui nacque, si prostituiva per mantenere la sua dipendenza. Mi raccontò che per questo, un giorno, sua madre venne uccisa e lui venne affidato alla zia. Aveva 6 anni. Tutto ciò lo travolse, crebbe con il desiderio di vendicare sua madre, questo era l’unico pensiero che lo faceva sentire vivo. Questo causò in lui, però, un senso di protezione assoluta nei confronti delle donne in generale, che diventava possessione verso la fidanzata, che in quel caso ero io. Possessione che veniva gestita in modo subdolo. All’inizio sembrava quasi normale gelosia, “chi è quello che hai salutato?”, “chi è che ti manda i messaggi?”, eccetera, trasformatasi poi quasi in perversione: ad oggi ho capito che lui, screditandomi ai suoi occhi, ha causato il mio non sentirmi adeguata agli occhi del mondo.

E perché stavo con lui? Perché pensavo di non meritarmi nulla, pensavo che solo lui potesse volermi bene, vista la mia inadeguatezza. Passò qualche mese e mia mamma, preoccupata per la mia salute, decise di portarmi da un nutrizionista. Cominciai a perdere peso, ed il mio perdere peso creò in lui agitazione. Era come se stesse perdendo il controllo della situazione. Era come se il mio volermi bene, non gli permettesse di avermi in pugno. Stavo lentamente tornando a guardarmi allo specchio, piacendomi. A quel punto venne fuori la sua vera indole di manipolatore, non voleva che io uscissi con le mie amiche, non voleva nemmeno che andassi in gita con la scuola, mi ricattò più volte affinché io facessi ciò che lui voleva. Io mi ribellai, trovai la forza per farlo: aveva usato la mia fragilità per esercitare una forma di controllo e di potere su di me. Chiusi la relazione senza alcun tipo di rimorso. Lui impazzì. Mi chiamò per giorni interi, all’inizio risposi anche, sentendomi miriadi di insulti gratuiti. Smisi di rispondere, mi si presentò totalmente fatto davanti a casa. Ho ancora impressa quell’immagine. Svenne davanti a me, io chiamai sua zia, nonché madre adottiva, che lo venne a prendere. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.

C’è voluto molto tempo per poter affrontare le ferite lasciatemi da quella relazione, ferite che erano sia fisiche a causa del mio ingente aumento di peso, sia psicologiche a causa della mia autostima distrutta. C’è voluto molto tempo anche per tornare a fidarmi di qualcuno.

Passarono diversi anni da quella relazione, anni in cui ho fatto la mia “rivoluzione” ed ho scoperto di avere una forza interiore prima sconosciuta. Mi sentivo piuttosto bene: avevo cominciato l’università, avevo nuovi amici, quelli vecchi erano sempre presenti, il mio percorso dal nutrizionista stava sortendo i suoi effetti positivi, avevo recuperato la mia autostima, insomma ero fiera di me stessa.

Frequentando il locale in cui lavorava la mia amica storica, sono entrata in contatto con una realtà che ho sempre e solo visto da lontano: vedevo strani giri, persone che andavano e venivano, continue strette di mano, gente che faceva la fila per andare in bagno… ma ben presto ho capito cosa succedeva in quel locale. Ero però sicura del mio totale disinteresse e della mia non tolleranza rispetto all’uso di sostanze, vista la mia esperienza precedente.

Una sera, stavo tranquillamente parlando con quella mia amica, quando è entrato nel locale un ragazzotto dalla faccia simpatica che, incuriosito dal discorso, si è avvicinato per chiacchierare. Fondamentalmente sapevo benissimo cosa faceva lui, ma la mia curiosità non mi ha permesso di fuggire, in un certo senso. Lui diceva di non fare più uso di cocaina da qualche mese e diceva anche che era sulla buona strada per smettere totalmente con la sostanza; io, che di cocaina nemmeno ne volevo sentire parlare, ero quindi perfetta per accompagnarlo nel tempo futuro, perché con me non avrebbe avuto la tentazione di fare QUEL passo indietro.

Così diceva. MA… a questo punto c’erano due problemi abbastanza ingombranti: il primo era che lui, oltre ad un onesto lavoro, ne aveva anche un altro, faceva soldi vendendo cocaina. Il secondo era che tutte le persone che lo circondavano avevano in qualche modo a che fare con la sostanza, soprattutto il suo migliore amico e sua sorella che avevano un livello di dipendenza decisamente grave. Inizialmente la relazione andava piuttosto bene, lui non usava la sostanza, non la aveva mai con sé in mia presenza ed era davvero convinto di voler smettere perché troppe persone a lui care si erano rovinate la vita a causa della droga.

Quando era adolescente, suo padre e suo zio vennero processati per traffico di stupefacenti e sua madre, per questo, scappò di casa con un altro uomo. A quel punto il padre divenne un eroe agli occhi dei suoi figli, tanto che gli capitava di fare festini di cocaina con loro. Di fronte ai suoi racconti, io rimanevo sempre più perplessa del modo in cui questo padre veniva giudicato come il padre migliore del mondo, questo padre che morì di infarto proprio a causa dell’uso ingente di sostanze. Cercavo di capire quale fosse il motivo per cui una persona può farsi così condizionare la vita dalla droga, capire perché quella persona non è in grado di smettere con la sostanza nel momento in cui tutto ciò che ha crolla come conseguenza della stessa. Il suo amico non si alzava dal letto, se non grazie ad una riga di prima mattina, la sorella gli rubava una busta ogni sera per chiudersi in camera a fumare e non usciva mai e di lavorare nemmeno ne parliamo! Chiaramente le relazioni familiari erano disfunzionali, sua madre sapeva tutto, ma non era in grado di aiutare i figli, o forse, e sarò cattiva, le faceva anche comodo che lui provvedesse a pagare il mutuo della casa.

Ed io ero assorbita da questa situazione, ero assorbita dalle stesse relazioni disfunzionali che erano per me così bizzarre: ero diventata una sorta di spugna a cui raccontare ogni singola cosa perché sapevano che non avrei giudicato, anzi, avrei cercato un modo per poterli aiutare. Mi sentivo la crocerossina del momento, tentavo di far in modo che le cose migliorassero (soprattutto per sua sorella a cui facevo quasi da baby-sitter nonostante i suoi 30 anni), tentavo anche di difendere la mia opinione contro tutte quelle persone affamate di cocaina che tentavano di convincermi che quello fosse l’unico modo per divertirsi davvero, proprio loro che per una busta erano disposti a fare qualsiasi cosa.

Dopo qualche mese, per motivi di studio, ho deciso di prendere casa a Milano con una mia compagna di università, perciò durante la settimana ero sempre via, tornavo solo per il weekend.. e questo divenne un problema per me, una scappatoia per lui.

A volte le telefonate erano strane, cambiava atteggiamento, modo di parlare, evitava le domande scomode ed io avevo subito capito cosa stava succedendo: quando il gatto non c’è, i topi ballano. Quando tornavo chiedevo sempre spiegazioni, ma venivo rassicurata dalle sue promesse a cui, però, non credevo fino in fondo. E le bugie, di nuovo bugie, hanno aperto nuovamente quelle ferite da cui pensavo di essere guarita.

Nel momento in cui viene meno la fiducia, si sa, le cose non vanno per il giusto verso ed era proprio così che stava andando e con la fiducia se ne andavano anche la mia comprensione e la mia sensibilità: ero diventata intollerante a qualsiasi tentativo di fingersi vittime della sostanza, ero diventata scontrosa e mal disposta nei confronti di chi cercava di farmi pena.

Un giorno eravamo ad un pranzo a casa di amici a cui hanno partecipato anche QUEGLI amici, dopo pranzo ricordo che si è alzato per andare in bagno e mi ha rivolto uno sguardo strano, come se volesse controllare che io non stessi pensando a nulla, ma io ormai conoscevo il pollo. Infatti, appena uscito dal bagno, ho notato quel famoso tic che gli veniva ogni volta che sniffava anche solo una riga. È calato il silenzio. L’ho guardato e me ne sono andata. Non avevo intenzione di fare alcuna scenata davanti a quegli ipocriti.

Lui non stava tentando di smettere perché davvero non voleva fare la fine di quelli che conosceva, lui non voleva smettere, pensava che mentirmi sarebbe stata la scelta giusta, per tenermi buona. Come se gli avessi chiesto io di non farne più uso, stava fingendo di rigare dritto per non farmi arrabbiare, come se stesse facendo un favore a me. Forse gli facevo anche un po’ comodo perché, non avendo alcun tipo di interesse nei confronti della cocaina, non avrebbe dovuto finanziare la mia dipendenza come aveva fatto con la sua ex e come stava facendo con sua sorella.

Da quel giorno lui non è più stato lo stesso ai miei occhi, era la prima volta che concretamente vedevo la sua vera natura: chi nasce rotondo non può morire quadrato, mi diceva per giustificare il suo stile di vita. Io a quel punto ha capito di essermi illusa di aver visto in lui una persona che nessun altro aveva mai visto e mi sono totalmente distaccata da quella realtà. Tutte le amicizie che aveva erano false, erano suoi amici solo perché lui era generoso, ma se avesse avuto davvero bisogno loro non sarebbero mai corsi in suo aiuto.

Ho capito che il mio desiderio di stargli accanto era vanificato ogni volta dalla cocaina, veniva prima quella roba. Prima di me, prima di tutto il resto, anche prima di lui: la droga gli ha provocato anche danni fisici, ma a lui questo non importava. Tutta la sua vita girava intorno a quello, per soldi, per dipendenza, ma anche per essere importante per qualcuno, per sentirsi voluto bene, per imitare quel padre tanto amato, per l’incapacità di tirare fuori le palle e di affrontare la vita, con i suoi pro e i suoi contro. Era più semplice rifugiarsi in quel mondo, nella disfunzionalità delle sue relazioni, nell’illusione di essere davvero una persona che conta qualcosa per gli altri solo perché hai “ciò che li fa felici”, piuttosto che rinunciare ai soldi facili e a quell’identità fasulla che si era costruito.

Da tutto questo ho preso le distanze quando ho capito che non avrei potuto fare nulla perché ero solo un ostacolo per lui, in quel momento, qualcosa che gli creava problemi nel raggiungimento immediato del suo desiderio e mi sentivo totalmente svuotata. Svuotata perché avevo impiegato tutte le mie forze per sostenerlo nella sua scelta di smettere, per poi essere presa in giro. Svuotata perché supportavo sua madre disperata per la sorella, tanto da portarmela ovunque pur di non farla stare a casa da sola altrimenti faceva ciò che non doveva fare, per poi sminuirmi dicendo che lui aveva ragione perché io volevo cambiarlo ingiustamente. Svuotata perché avevo capito di non contare poi così tanto per lui, dopo tutto quel tempo speso.

Ci siamo lasciati. Successivamente è stato arrestato per spaccio.

E quando qui al gruppo sento dire che il tossicodipendente non riconosce l’altro se non come oggetto, mi sento tirata in causa. Quando sento dire che il tossicodipendente non è in grado di mantenere relazioni sane, avverto ancora quel senso di svuotamento.

I momenti di debolezza li ho avuti anche io, momenti in cui mi sentivo inadeguata, momenti in cui la mia fragilità era talmente forte che evitavo di guardarmi per non riconoscerla, nemmeno quando mi sono sentita inutile per qualcuno, nemmeno quando ho capito che una sostanza potesse avere più importanza di me, ma il pensiero della droga non mi ha mai sfiorata e questo non perché sono wonder woman.

La forza di rialzarmi, la forza di riconoscere di avere un problema, la forza di perseverare, di aspettare prima di ricevere una gratificazione, l’ho sempre trovata nelle persone che avevo accanto e negli obiettivi che volevo raggiungere nella mia vita. E l’ho trovata anche in me stessa, perché è quando il tuo impegno viene ripagato attraverso evidenti risultati, e questi risultati sono solo frutto della tua perseveranza, che ti senti piena di orgoglio per te stessa.

È vero che cambiare i modelli disfunzionali con cui una persona è cresciuta credendoli giusti, non è facile, ma è soprattutto doloroso. È anche vero che il contesto gioca un ruolo fondamentale nelle decisioni che il soggetto compie e nelle scelte che compie nei confronti della guida. Bisognerebbe fare in modo di riconoscere l’altro che ci sta di fronte non come oggetto, l’altro su cui possiamo investire per costruire quella guida positiva che, comprendendo le nostre fragilità, ci aiuti a costituire quel senso d’identità smarrito o mai trovato. Quell’identità che ci permette di riconoscerci tra gli altri, dando a ciascuno la consapevolezza che è la relazione con l’altro che rende l’essere umano straordinario.

 

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