Lo sguardo vuoto

Non sparate! Non sparate, ho detto! Calma, manteniamo la calma. Niente armi avevamo detto. Sta andando tutto liscio.
Sta premendo l’allarme! Quello lì a destra!
Nooooo!
Tutto avviene come in un film cui hanno tolto il sonoro. La donna si accascia a terra e con lei il bambino che tiene in braccio. E’ piccolino. Di sicuro non cammina ancora. Cade anche lui. Non piange. Non si muove. Come mai?

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Si sveglia di soprassalto, madido di sudore. L’incubo si è ripresentato. Quante volte ancora succederà?

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Nicola sa bene che non cesserà mai, perché non è propriamente un incubo. E’ un ricordo che non lo lascerà.
Questa è la vera condanna, non la galera dove sta ormai da quindici anni. La vera galera è rivedere il faccino del bimbo, i suoi occhi sgranati, la piccola bocca spalancata. Sorpresa e paura. E poi i suoi occhi immobili, lo sguardo vuoto. Lo stesso vuoto pneumatico da cui con la rapina avrebbe voluto scappare. Lo stesso vuoto in cui era precipitato dopo quel giorno. L’arresto, la condanna, la galera erano tutto e non erano niente. Il vuoto ti toglie la vita e la libertà ben prima che ti mettano dentro. Qualsiasi cosa è meglio del vuoto.

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L’ha capito bene Nicola. Sono anni che sta lavorando per riempirlo. Ogni tanto è contento, perché gli sembra di avercela fatta a cominciare a riempirlo. Ripensa alla sua vita, alle relazioni coi suoi genitori (o dovrebbe dire alla mancanza di relazioni coi suoi genitori?), alla sua adolescenza sballata, al senso di solitudine e al vuoto.
Poi l’incontro con quello psicologo. Dio come non lo sopportava! Era una provocazione continua. Diceva fesserie e pretendeva di avere ragione. Faceva discorsi che a lui parevano sconclusionati, anche se affascinanti.
Poi, un giorno, un lampo. Il ricordo del disprezzo che suo padre manifestava per lui. Era zelante nel manifestarlo, suo padre. Non perdeva occasione. Non passava giorno che Nicola non si sentisse addosso il suo sguardo sprezzante. Il ricordo che fu per sfuggire a quel disprezzo che aveva cominciato a vendere la roba. Sperava che lo prendessero, così gli avrebbe dimostrato che il suo disprezzo era ben indirizzato. E invece non l’avevano preso. Anzi, aveva fatto carriera. Era sempre più all’altezza del disprezzo di suo padre. E aveva poi capito che forse, dopo tutto, lo psicologo non diceva fesserie. Soprattutto aveva capito che non c’era disprezzo nei suoi sguardi e nei suoi modi.
Niente disprezzo, solo un inatteso, sorprendente, balsamico rispetto. E con lui aveva accettato e poi lavorato per riempire il vuoto. E ora si trovava, lui che era in carcere, a far parte di un gruppo di sostegno per la prevenzione al suicidio. Si trovava ad esercitarsi a provare rispetto per gli altri invece che disprezzo. E aveva scoperto che il rispetto, con cui si accostava agli altri, gli dava gusto. Era un rispetto che riservava soprattutto ai più deboli o ai meno meritevoli, ma c’era poi differenza? Non appartenevano in fondo alla stessa categoria? In fondo le definizioni sono solo punti di vista, ma l’essenza è l’essere umano. O no?
Non solo ci provava gusto, riempiva anche il vuoto.

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Nicola sta per uscire in prova. Ha paura. La gola gli si stringe quando ci pensa. Sa che è arrivato il momento per dimostrare che sarà capace di rispetto sempre e comunque, qualunque cosa accada, perché non vuole più vedere gli occhi vuoti del bambino.

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Nicola è contento. Mai avrebbe immaginato che il lavoro per farlo uscire in art.21 sarebbe stato in una scuola materna. Lui, in mezzo ai bambini! Ogni giorno li sorveglia, gioca con loro, parla con loro, li aiuta. Sta attento soprattutto a quelli che giocano da soli. Si avvicina, li osserva e quando lo guardano li guarda bene a sua volta. Vuole accertarsi che nei loro occhi non ci sia il vuoto, ma tutte le emozioni che un bambino dovrebbe provare. Gioia, sorpresa, timore, meraviglia, timidezza, allegria, paura. A seconda di quel che vede ride con loro, gioca con loro, spiega loro cose, li aiuta, li prende per mano. Oggi un bambino che ha paura ad andare in altalena gli ha detto che, se lo spinge lui, ci prova.
Nicola non sa dire che cosa ha provato nel sentire quelle parole, nello spingere l’altalena, nel prendere il bambino in braccio quando è stato il momento di scendere. Quello che sa è che è molto simile alla felicità.

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Nicola si sveglia sorridendo.