A come Acqua, A come Andrea

Esco dal carcere quasi di corsa, ho bisogno di una boccata d’aria. Ho fretta e la strada che mi separa da casa mi parrà interminabile.

Il punto è che lì, in quegli spazi finiti, opprimenti, ovattati, mi sono sentita soffocare; dentro quelle mura che violentano la libertà, nulla sembra esistere se non il presente e un pesante passato che ha segnato tutte quelle vite.

Prima di uscire mi sono fermata due minuti a chiacchierare con un agente. Non avevo mai visto corridoi sbarrati che portano alle celle. È la mia prima volta in carcere. Sbarre e mani e occhi che mi cercano. Ho voglia di scappare perché quella visione mi fa male e dentro ho solo spazio per il dolore perenne che provo per la morte di Andrea, mio figlio.

Sento la mia corazza farsi di cartapesta e non riesco più a celarmi dietro la coltre di rancore e odio che mi ha avvolta per 4 interminabili anni. Sono una vittima, una mamma monca, spezzata, entrata in carcere per urlare agli autori di reato il mio dolore e per nessun’altra ragione che puntare il dito. Da giudice! Da inquisitore!

Sono arrabbiata, legittimamente arrabbiata. Sono Vittima per sempre, ma ora, nell’uscire da quel luogo di espiazione, mi sento meno calata nel mio ruolo totalizzante. Ogni certezza si sgretola e provo una salvifica compassione per gli autori di reato e non comprendo come un essere umano possa sopportare una vita dietro quelle mura. Proprio io che dietro quelle sbarre ce li avrei mandati tutti i delinquenti e senza neanche un giusto processo e tre gradi di giudizio, che mi parevano un’enorme perdita di tempo e un grande spreco di denaro pubblico.

Calata in questa nuova dimensione inaspettata, nessuno, nemmeno il più spietato assassino mi provoca sentimenti negativi; eppure la clemenza non rientrava proprio nei miei progetti di mamma orfana. Arrogante e chiusa nella mia bolla, mi atteggiavo a giudice senza averne alcun titolo. Ma arretra ogni difesa e perdo questa sterile lotta contro la mia gabbia fatta di odio e rancore.

Da allora li incontro sempre. Racconto loro il mio vissuto e trovo occhi pieni di lacrime e solidarietà. Siamo facce della stessa medaglia: il dolore, quello subìto, quello provocato. Quegli occhi, quelle storie entrano dentro di me e agiscono come il ferro operatorio di un abile chirurgo. Arriva in profondità e va a cercare il male per sradicarlo. Brucia ma cauterizza.

Ora so. Ne ho le prove! Il male si può sconfiggere, si può anche fermare ma il bene no! Una volta innescato, il bene dilaga e invade, inarrestabile, travolge tutto ciò che c’è intorno.

Mi sento una donna migliore. Sento che possiamo fare un pezzo di strada insieme, senza fretta, curandoci le ferite con un sorriso o un abbraccio, senza troppe parole, fusi nei nostri ruoli e nei nostri dolori.

Fuori piove, ma noi abbiamo il sole dentro. Si chiama Ascolto, Accoglienza, Amicizia, Affetto, Amore, Acqua, Andrea, un pozzo per Andrea

Elisabetta Cipollone

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Il canto dell’acqua nell’arsura

Cara Elisabetta,

eccomi a te, con la responsabilità di chi ha offeso la vita, per cercare di restituirti parte della bellezza che tu ci regali. Ci ascoltiamo e ci sosteniamo ogni giorno per rispondere alle nostre fragilità e al tormento che regna nella solitudine dove tante volte ci rifugiamo. Donna senza risparmio d’amore, senza tregua nel portare il bene dove ha prevalso sempre il male. Combatti come un guerriero e ti fermi solamente quando ci porti le tue cure. La vita è un mistero. Anche tu, come tutti, spingi verso l’infinito ma, a differenza di tanti, punti a un infinito ben definito: la fusione con Andrea, tuo figlio, che vive dentro di te e ti spinge in direzione del bene. Un bene che riconosco e di cui ti sono grato; un bene che ti restituisce, ogni qualvolta scatta la magia, un battito del cuore di Andrea.

Ricordo, e spesse volte lo dici nelle tue testimonianze, quanta rabbia, rancore e voglia di vendetta albergavano in te. Non vivevi se non per cercare giustizia del tribunale contro chi commette reati e contro le  istituzioni che non riconoscevano, fino a prima dell’inizio delle tue battaglie, l’omicidio di strada. Poi, come per incanto, hai conosciuto il Progetto Sicomoro.  Progetto basato su incontri tra parenti di vittime o vittime e responsabili di reato. All’inizio è stata una lotta senza esclusioni di colpi, ma dopo i primi incontri, ascoltando e toccando con mano le fragilità di quegli autori di reato, ha prevalso in te la tua vera identità, il tuo senso materno. E così hai colto che dietro quelle maschere ci sono uomini che hanno bisogno di essere nutriti per potere essere restituiti alla società.

Con noi e per noi, oggi conduci le tue battaglie contro il degrado. Oggi ti sei fatta alleata con chi prima combattevi (noi), nonostante l’offesa più grande che una madre possa subire: la morte di un figlio, per guida spericolata, da parte di uno scellerato senza senso di responsabilità.

Oggi hai sposato anche le idee e iniziative del Gruppo della Trasgressione. Ne sono orgoglioso! Ciò che fai è una fortuna per me e per noi tutti e penso sia motivo di speranza per chi, dopo aver subito atrocità simili alle tue, vive ancora soffocato dal rancore.

Due occhi tra le canne di bambù ascoltano il silenzio della notte. Gocce che cadono, diamanti senza luce, frecce di dolore piantate nel cuore. Un’eco di passi severi e il cuore intona il canto dell’acqua nell’arsura.

Con immensa gratitudine,
Roberto Cannavò

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Riconoscersi

C’è stato un tempo in cui per sentirmi vivo avevo bisogno di morire un po’ ogni giorno…

Quando ho conosciuto Elisabetta stavo camminando da oltre venti anni tra le piaghe del mio passato criminale. Un viaggio profondo iniziato in solitaria, tra le mura della mia cella. L’unico feed-back che mi tornava era un enorme disagio, una sensazione di pesantezza che mi rendeva difficoltoso respirare. Ma non demordevo: volevo iniziare a vivere.

Sono andato avanti così per molti anni, finché un giorno ho deciso di comunicare il mio dolore. Grazie al confronto con gli altri, soprattutto al tavolo del Gruppo della Trasgressione, sono riuscito a ricomporre il mosaico della mia storia, illudendomi, però, di aver raggiunto le profondità del dolore che ancora mi porto dentro. Ma mi sbagliavo: quella era la punta dell’iceberg. L’ho capito quando ho iniziato ad avere contatti con i familiari delle vittime: madri, padri, fratelli e sorelle i cui cari erano stati brutalmente ammazzati da persone come me.

Nei miei interminabili viaggi introspettivi avevo cercato di immedesimarmi in queste persone, ma quando ho visto i loro visi straziati dal dolore il senso di colpa è riemerso prepotentemente schiacciandomi alle mie responsabilità. Ci sono voluti anni per riprendermi ed Elisabetta ha avuto un ruolo importante nella mia risalita dagli abissi.

Elisabetta è entrata nella mia vita qualche anno fa; lei è una mamma a cui un folle alla guida di un’auto ha brutalmente ucciso il suo adorato figlio, Andrea, che aveva solo quindici anni. Elisabetta e io ci siamo “riconosciuti” immediatamente; due vite così agli antipodi ma intrecciate a filo doppio da un denominatore comune: il dolore. Il dolore è uguale per tutti, ma c’è un’importantissima distinzione da tenere sempre presente: io il dolore l’ho causato mentre persone come Elisabetta l’hanno subìto.

Grazie a lei ho fatto un ulteriore passo avanti verso la vita. Come una sorella mi sostiene nelle difficoltà quotidiane e mi stimola a non farmi schiacciare dai sensi di colpa. Io cerco di starle vicino quando la mancanza di Andrea le toglie il respiro, ma di fronte a quest’immane dolore mi sento impotente… Non so cosa darei per aiutarla a portare il suo fardello…

Non potrò mai dimenticare il giorno in cui mi ha chiamato “fratello”… In quel momento ho sentito qualcosa dentro di me sciogliersi, come quando si toglie un ostacolo e il cammino ritorna ad essere fluido. Io, un ex assassino, che vengo chiamato fratello da una mamma cui hanno ucciso un figlio.

Se non è un miracolo questo!

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Quale Alessandro

Fratello,

ho letto la lettera e mi sono emozionata. È bellissima davvero. Resta un mistero grande per il mio cervello troppo piccolo capire, anzi, immaginare un giorno in cui il tuo cuore è stato cattivo e le tue mani crudeli. Ecco non ce la faccio neanche se mi sforzo. Però tu dici questo, le sentenze dicono questo e devo arrendermi.

Un tempo, un Alessandro che non conosco ha compiuto il male. Quell’Alessandro è esistito, ma ora non esiste, quell’Alessandro ha premuto un grilletto e ora ripudia ogni violenza, fosse anche solo quella di una parola fuori luogo. Lui, ne sono più che convinta, ora non si ciba neanche di carne per sublimare la sua dedizione al bene. L’altro Alessandro è morto e sepolto eppure respira, vive e ama.

Se non è un miracolo questo!

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Buon Natale col Coro Zenzero

Il Coro Zenzero ospita il
Gruppo della Trasgressione

Giovedì, 20 dicembre, alle ore 21:00
Scuola Media Carmelita Manara
Via Bezzecca, angolo Via Cadore

Ingresso libero