Una mappa per la pena

Come membro del Gruppo della Trasgressione e laureanda in Psicologia Clinica, vorrei condividere la mia esperienza all’interno del Gruppo.

Spesso, le domande che ci vengono poste da chi non conosce il gruppo o da chi si sta approcciando per le prime volte sono:

  • “Ma cosa si fa all’interno di questo gruppo?”
  • “in che modo cercate di rieducare un detenuto che ha commesso dei crimini efferati?”

Domande comprensibili, le stesse che mi ponevo i primi giorni in cui sono approdata al gruppo. Un gruppo “trasgressivo” composto da detenuti, ex-detenuti, studenti, familiari di vittime di reato e comuni cittadini.

La presenza del Gruppo della Trasgressione, all’interno delle tre carceri milanesi di Opera, Bollate e San Vittore, è un “Centro-Studi”, un laboratorio sperimentale. Siamo tutti intorno ad un tavolo e attraverso il confronto, la partecipazione attiva di ognuno, ci si chiede come si diventa un criminale e quali sono i meccanismi che agiscono nella mente del soggetto che delinque. Quindi non si analizzano soltanto i fattori socio-culturali ma, come e in che modo micro e macro scelte personali contribuiscono al divenire dell’identità deviante e della rete di relazioni e modelli di comportamento che la consolidano.

Il lavoro che viene effettuato è costituito dal “materiale emotivo” che scaturisce dalle riflessioni e dal ripescaggio di ricordi antichi; si torna indietro nel passato, ai dolori, ai conflitti, alle fantasie, per raggiungere certe emozioni, risentirle, riviverle, per poi rivalutarle, dopo il confronto e lo scambio con gli studenti e soprattutto con le vittime di reato, attraverso dei percorsi di giustizia riparativa.

Grazie a questo lavoro sistematico i detenuti possono comprendere e riconoscere il male e l’abuso che hanno fatto all’altro; diversamente è come se non ne avessero consapevolezza. Infatti, ciò che emerge, nella maggior parte dei loro racconti, è un progressivo allontanamento dall’altro e un congelamento della relazione con la vittima durante l’atto criminale, un intorpidimento mentale, un graduale ottundimento della coscienza e una assuefazione al male (vedi Hanna Arendt) che è difficile possano essere superati con l’isolamento. Riteniamo sia invece necessario sviscerare le esperienze personali e farle diventare motivo di confronto per una crescita bilaterale di autori di reato e vittime.

All’interno del nostro “centro-studi” al detenuto non viene chiesto il pentimento ma un percorso per raggiungere strati sempre più profondi di coscienza di sé e di comunicazione con l’altro. Questo, secondo noi, è il meccanismo fondamentale che permette di coltivare l’evoluzione del detenuto, l’emancipazione dai sentimenti che avevano costituito l’humus delle sue scelte d’abuso e di disconoscimento dell’altro.

Comprendere l’errore commesso, attraverso questo processo di immersione nelle emozioni previene la recidiva del reato e fa sì che il soggetto diventi una risorsa per la società e non più un problema.

Il detenuto che ha recuperato parte di sé e della materia problematica che lo ha indotto a commettere reati, diventando proprietario dei suoi sentimenti e del lavoro di evoluzione svolto, viene coinvolto attivamente in progetti per combattere e prevenire la devianza e in progetti di peer-support per la prevenzione al suicidio  e per contrastare il mito del potere all’interno delle carceri.

Tra gli altri progetti ed iniziative, oltre agli spettacoli teatrali, concerti e convegni, sono di fondamentale importanza:

  • gli incontri svolti all’interno delle scuole o nei contesti più a rischio, durante i quali i detenuti condividono le loro esperienze ed emozioni in un’ottica di prevenzione al bullismo e alla tossicodipendenza.
  • gli incontri sulla genitorialità, che hanno una doppia funzione: permettono di analizzare le difficoltà riscontrate nel rapporto genitori-figli durante il periodo detentivo, ma soprattutto rendono tangibile ai figli il percorso evolutivo dei genitori. Durante tali incontri si cerca di sanare le ferite e di ridurre la distanza che nel tempo si è creata tra genitori e figli, in un’ottica di prevenzione della devianza di seconda generazione.

Gli obiettivi analizzati fin ora sono stati raggiunti nel corso degli anni grazie al costante impegno, alla professionalità e all’esperienza del Dott. Aparo, coordinatore del Gruppo della Trasgressione, e grazie alla collaborazione di numerosi volontari. Ma tutto ciò è prerogativa è limitato solo alle carceri milanesi.

La rieducazione del condannato, come previsto dall’art. 27 della Costituzione Italiana, NON è un percorso che si possa fare in autonomia o in breve tempo e, soprattutto, è un percorso che richiede strumenti adeguati.

Riteniamo necessario all’interno di ogni carcere la presenza di un “laboratorio permanente”, che possa guidare il condannato verso la responsabilità e un nuovo modo di interpretare la libertà. D’altra parte, “Come si fa a liberare il corpo se la mente è in gabbia?”

Katia Mazzotta                           Una mappa per la pena