La chiamata a San Vittore

San Vittore, 3 novembre 2022

Dopo gli incontri incentrati sul progetto Caravaggio in città svolto nel carcere di Opera insieme al professor Zuffi, il prof Aparo ha deciso di portare anche a San Vittore il quadro della Vocazione di San Matteo.

A differenza di ciò che è stato fatto ad Opera, il quadro è stato mostrato ai ragazzi detenuti a San Vittore senza nessun tipo di spiegazione o premessa; è stato chiesto loro di provare a descrivere semplicemente ciò che vedevano raffigurato nel dipinto. Durante questo incontro erano presenti in incognito anche tre future vicedirettrici di carcere, che insieme ai ragazzi hanno descritto il quadro facendo riferimento solo a ciò che stavano guardando e che stavano provando in quel momento.

Il risultato di questa interessante e piacevole interazione è stato un incontro molto toccante. Sono emersi pensieri e sensazioni da entrambe le parti che mi hanno emozionata e che mi hanno fatto pensare.

Dopo che tutti i presenti avevano parlato a lungo del dipinto e di ciò che ognuno riusciva a leggere nelle diverse figure, il professore ha chiesto a tutti i presenti una rilettura del quadro: “Se il quadro fosse una fotografia di quello che tu desideri possa accadere oggi nella tua vita, come descriveresti i diversi personaggi e ciò che stanno facendo?

Sono emerse diverse risposte, tra le quali sicuramente quella dove le persone desideravano essere chiamate a fare qualcosa di bello, qualcosa di importante per se stessi o per gli altri.

Quando ho provato a darmi una risposta a questa domanda, ho pensato subito anche io alla chiamata: ho pensato al desiderio di essere chiamata, proprio come Gesù chiama San Matteo. Ho pensato al desiderio di essere presa per mano e accompagnata nel mio cammino da una guida in grado di riconoscermi e scegliermi per la persona che sono.

Verso la fine dell’incontro il prof ha chiesto poi ad Hamadi cosa avrebbe voluto che le tre future vicedirettrici facessero nei suoi confronti durante la sua detenzione.

Hamadi non ha risposto con molte parole, ma quello che detto mi è arrivato dritto al cuore: “Vorrei essere capito e visto per ciò che sono davvero”.

In queste parole io ho sentito una forte richiesta di aiuto, e ripensandoci, la mia risposta alla domanda di prima ora cambia. Senza la pretesa di salvare il mondo, in futuro vorrei poter essere quel fascio di luce che illumina San Matteo, quella mano che dolcemente indica alla vita.

Vorrei chiamare, vorrei poter riconoscere e dare la possibilità di dimostrare il proprio essere a tutti gli Hamadi che incontrerò. Vorrei invecchiare, guardarmi indietro e riconoscere di essere fiera di ciò che sono stata, di essere stata magari d’aiuto a qualcuno e di aver forse fatto del bene.

Questo, quindi, è il mio ideale di vita: poter essere chiamata oggi, per potere un domani essere in grado di chiamare a mia volta.

Camilla Bruno

La Chiamata  – Reparto LA CHIAMATA

Progetto “La Chiamata”

Mi è stato chiesto dal dott. Aparo di scrivere qualcosa di mio su un progetto per un reparto, qui a San Vittore, dove accompagnare le persone molto giovani nella propria crescita personale.

San Vittore è una Casa Circondariale, un posto di passaggio dove la persona accusata è solo in attesa di una condanna. Ed è questo il luogo nel quale si vuole intervenire, quando la persona è ancora “acerba” e ancora influenzabile.

Per riuscire è necessario che il reparto sia abitato da persone che abbiano l’interesse a mettersi in gioco, dove i detenuti che scelgono di andarci possano darsi un aiuto reciproco per confrontare i propri vissuti e dove chi vive nel reparto, in collaborazione con professionisti che vengono dall’esterno, possa individuare e alimentare iniziative utili a migliorare la qualità dell’ambiente.

Il detenuto nel reparto non dovrebbe mai avere la sensazione di essere abbandonato a se stesso, è importante che si senta accompagnato durante il cammino. Non sono da tralasciare le attività formative, come sport, scuola, incontri, eventi formativi, laboratori creativi e tutte quelle attività che portano la persona a prendersi cura di se stessa.

Il carcere è uno di quei luoghi nei quali si può incontrare il male nelle sue forme più drammatiche e dove molte volte ci si imbatte in giovani che sembrano normali e tranquilli, ma che invece hanno compiuto azioni violente e devastanti.

Il male si mostra sempre nei momenti in cui siamo più deboli. A volte è visibile nei suoi effetti solo dopo essersi piano piano fatto spazio dentro di noi. Spesso il colpevole è identificabile, ma a volte si scopre essere contemporaneamente artefice e vittima. L’origine di questo male va cercata dentro perché è intrinseco nell’essere umano e tante volte si può sprigionare all’improvviso, senza una comprensibile ragione.

Nella mia breve esperienza in carcere, ho notato che San Vittore è un gran via vai di figure portatrici di sapere, come psicologi, avvocati, educatori, volontari, etc… Il confronto con questi personaggi è diverso per ogni persona, ma c’è la speranza che questi dialoghi possano essere una svolta per la crescita della persona smarrita.

Le persone che sono bloccate nella propria storia passata, negli errori propri e altrui, nelle esperienze di violenze agite e subite, credono di non aver più il diritto di parola, sentono di non avere più un’identità (la maggior parte delle volte non ce l’avevano neanche prima, oppure era meramente illusoria). Mi riferisco in particolare a ragazzi giovani che, messi in carcere per la prima volta, sono paralizzati e non hanno parole per raccontare ciò che stanno vivendo e che hanno vissuto. Sono convinto, però, che le persone che vengono da fuori possano aiutare a dare voce ad un vissuto sofferto (agito, subito o entrambi).

Credo che si dovrebbe cercare di accompagnare i detenuti nel loro percorso, aiutarli a sviluppare la capacità di pensare in maniera costruttiva, ad elaborare e contenere quelle forti emozioni di rabbia, desolazione, ansia e tristezza, che spesso ci ingannano e ci tengono prigionieri, più del carcere stesso. Persone come me, che vivono nella profonda disperazione per aver commesso azioni tremende… pur non riconoscendosi in esse.

Hamadi El Makkaoui

Caravaggio in città – Reparto LA CHIAMATA

Il testo originale

Aula Dostoevskij – Rossoni

Avendo partecipato al progetto Delitto e Castigo, cosa mi porto a casa? Sicuramente la consapevolezza di com’è la vita in carcere, di come un detenuto abbia bisogno di figure che lo accompagnino nel proprio percorso, più o meno lungo, a ritrovare la propria coscienza, attraverso il dialogo e attraverso il supporto morale; solo in questo modo queste persone possono essere reinserite nella società e possono procedere nella rieducazione menzionata nella nostra cara Costituzione.

Questa è stata la mia prima esperienza in un carcere e ora, più che mai, mi rendo conto di come sia necessario che questi tipi di progetti vengano diffusi, affinché ci possa essere in tutte le carceri una possibilità di cambiamento concreta. Soprattutto, resto con la speranza che un giorno, una figura come quella del dottore Aparo diventi istituzionalizzata e riconosciuta professionalmente, come qualcuno diceva nei nostri incontri.

Poi mi porto a casa gli insegnamenti ricevuti.
Da Paolo e Marisa, innanzitutto, che con la loro forza di affrontare il dolore si sono avvicinati a questo mondo, completamente opposto e antitetico alla loro esperienza di vita.
Poi dal professore Fausto Malcovati su Dostoevskij, da cui ho imparato molto sulla letteratura russa.
Dal dottore Alberto Nobili, che ci ha dato dei preziosissimi consigli su come svolgere il nostro futuro lavoro, soprattutto per chi, come me, ha il sogno di diventare un pubblico ministero.
E infine gli insegnamenti del dottore Francesco Cajani e del professore Angelo Aparo, che hanno reso possibile questo progetto assieme al Gruppo della Trasgressione.

Grazie a tutte queste figure, questa esperienza mi ha cambiato in positivo, mi ha convinto che oltre allo studio sui libri è importante vedere la realtà delle carceri italiane e fare qualcosa di concreto affinché si realizzi per tutti noi, detenuti e civili appartenenti alla società, una condizione migliore di convivenza.

Mi impegno a fare tesoro di tutto ciò che ho imparato per il mio futuro professionale, ma anche personale. Se un giorno avrò il privilegio di essere magistrato, sono sicura che svolgerò la mia professione ricordando ognuna delle persone presenti nell’aula Dostoevskij ed i loro insegnamenti.

Aurora Rossoni – Studentessa Giurisprudenza

Delitto e Castigo