
Sono grato.
Stride molto questo sentimento con questo giugno pieno di fatica e disillusione.
Eppure sono grato, non c’è più alcun dubbio.
Durante l’ultimo nostro incontro in carcere, il 10 maggio scorso, seduto – come nel primo nostro ingresso a San Vittore del 12 aprile – tra Luca e Francesco, a un certo punto mi sono ritrovato gli occhi pieni di lacrime ma non riuscivo a capire bene perché.
Mi ero riproposto che dovevo pensarci bene, lasciando che quelle emozioni inattese continuassero a trafiggermi senza però consentire che l’effetto benefico si esaurisse al risveglio, l’indomani mattina.
La fretta di dover cambiare argomento o tonalità, ritornando ai ritmi frenetici appena usciti dal sottosuolo di San Vittore, doveva arrendersi – per una volta – alla necessità di trovare quella risposta: perché?
Ci voleva del tempo, certo. Come tutte le cose.
Ma poi questa ultima settimana, segnata dai riti di passaggio tipici della fine della quinta elementare e della terza media (una congiunzione astrale difficile da gestire all’interno di un’unica famiglia), mi ha regalato il tesoro nascosto.
Sono grato alla maestra di mia figlia che, dopo un anno di relazioni sempre più difficili all’interno della sua classe, è riuscita a trasformare quelle difficoltà in opportunità di crescita. La fine della cerimonia di graduation restituiva plasticamente l’obiettivo educativo (prima che scolastico), io – con la mia rigidità nel rapporto genitore/insegnante – non trovavo le parole adatte neppure per un semplice “grazie” e lei mi ha colto di sorpresa con un “beh, ora possiamo abbracciarci anche noi?”.
Sono grato a quei capi scout che neppure io conoscevo e che hanno custodito mia figlia lo scorso weekend accompagnandola per mano dentro un territorio che lei neppure voleva conoscere. Di ritorno a casa la domenica, ho ritrovato nel suo entusiasmo un tratto che abitava un tempo anche in me, perché a volte la timidezza del carattere non riesce a farti indirizzare lo sguardo verso l’impensabile e l’inimmaginabile.
Sono grato alle insegnanti e agli insegnanti di mio figlio che – dopo essersi presi cura per oltre due anni e mezzo non solo del suo sapere ma anche della sua adolescenza inquieta, con un entusiasmo e una dedizione che più volte mi ha intimamente commosso- lo accoglieranno oggi alle 8.00 per l’esame orale di terza media, nonostante tutto questo non gli abbia fatto prendere sonno questa sera dopo aver preparato uno zaino con 12,5 kg di libri dentro. E io, con lui, a sperare che arrivasse finalmente Morfeo a dare forma ai suoi sogni. E in quella attesa durata due ore, disteso accanto a lui sullo stesso letto, non mi preoccupavo tanto di non avere ricordi nitidi né della fine della quinta elementare né della fine della terza media. Perché a me basta il ricordo della maturità, come se fosse stato ieri, quando sono uscito da quell’aula dopo l’esame orale. Mi sono guardato indietro per rendere indelebile quello che finora così è rimasto in me: quella sensazione del me-che-chiudo-quella-porta, lentamente. Un misto di rimpianto e soddisfazione.
Un qualcosa che – quando sei giovane – è in parte differente da quello stare, come magnificamente indica Nicolò Fabi, “nella pausa che c’è tra capire e cambiare” tipica dell’età che ci ostiniamo a chiamare adulta.
Capivo (ma forse solo intuivo) che era finito un ciclo della mia vita ma quella mia stessa vita non mi aveva ancora fornito gli strumenti di consapevolezza per comprendere che quella porta, così consapevolmente chiusa, avrebbe aperto realmente ad un cambiamento.
Eppure quel momento è stato forse la mia prima alba, attesa per tanto tempo anche se non sapevo, appunto, quale territorio nuovo avrebbe illuminato.
Un qualcosa dunque che, come spiega invece Andrea Parodi, assomiglia forse più all’abacada: “nella lingua sarda …. significa momento di contrapposizione paritetica di forze, caratterizzato dalla serena calma che precede il cambiamento e la svolta esattamente come quei brevi, intensi istanti che non sono ancora giorno e non sono più notte”. E proprio a questo pensavo, ricordo ugualmente indelebile, nell’agosto 2019 quando per la prima volta ho portato mio figlio a fare il bagno in quella precisa scansione temporale, nel mare di Cardedu.
Ed è accaduto nelle vacanze natalizie di quello stesso anno, volendo invece mettere meglio a fuoco il rapporto di padre con mia figlia più piccola, che mi sono ritrovato tra le mani il libro di Alberto Pellai “Da uomo a padre”. Anche di questo sono grato, a lui che lo ha scritto quanto all’insieme di circostanze – che non riesco a ricostruire perché da me neppure lontanamente immaginate – che me lo ha fatto, appunto, trovare e mettere in valigia.
E alla fine quella lettura (che si è fermata a lungo, a pag. 173, sulla “permanenza della <<zona grigia>>”, ovvero “chi è stato mio padre per me? Che ruolo ha giocato nel determinare la persona che sono, ciò che avrei voluto essere? Come mi ha permesso di realizzare ciò che sognavo di fare della mia vita?”) si è trasformata, ugualmente inattesa ed inimmaginabile, in una preziosa occasione per conoscerlo meglio, io che pensavo di aver compreso ormai tutto di lui e di avergli fino a quel momento sempre manifestato il mio affetto di figlio riconoscente.
Ecco, ora mi è chiaro: erano lacrime di gratitudine le mie, dentro il sottosuolo di San Vittore.
Dopo aver sentito il racconto del mio amico Luca sui padri che ha cercato da giovane con tutte le sue forze e fortunatamente adottato, in uno con il racconto di Francesco sul figlio in affido con tutte le fatiche quotidiane ma anche le gioie connesse, in quel momento ho pronunciato davanti a tutti parole a tratti confuse ma che effettivamente davano il senso anche del mio percorso di figlio, apparentemente cosi diverso da Luca, e di padre, apparentemente così diverso da quello di Francesco.
Eppure, ripensando anche ora a quel preciso momento, mi sembra davvero che ci siamo tutti abbracciati. Nell’ascolto empatico anche con i padri e i figli detenuti, in quell’abbraccio collettivo credo che ognuno di noi – arrivati fino a quel crocevia, tutti da strade differenti – sia riuscito a fare un po’ di pace con l’ideale del padre che avremmo voluto avere. E con l’ideale di padre che avremmo voluto essere ma che, ormai è chiaro a tutti, non siamo né riusciremo (mai/più) ad essere.
Di questa esperienza, tra le tante cose che conservo nel mio cuore, una immagine mi si è fatta ugualmente nitida in questa ultima settimana: non è tanto l’attesa dell’alba quello che ci renderà padri migliori, ma un’alba inattesa.
Per tutto questo sono grato ai padri, Juri compreso, che ho incontrato dentro e fuori da San Vittore in questi mesi. Sono sicuro che l’energia che è scaturita dal nostro stare insieme e dal nostro confronto “senza farci sconti” ci aiuterà ad indirizzare sempre più lo sguardo verso qualcosa di inimmaginabile al nostro primo appuntamento, un qualcosa di fronte al quale ciascuno di noi riuscirà – finalmente – a stupirsi di sé stesso.
Grazie ancora, a tutti noi insieme e a ciascuno di voi per quello che siete riusciti a donarmi!