L’alba inattesa

Cardedu, 23 agosto 2019

Sono grato.

Stride molto questo sentimento con questo giugno pieno di fatica e disillusione.
Eppure sono grato, non c’è più alcun dubbio.

Durante l’ultimo nostro incontro in carcere, il 10 maggio scorso, seduto – come nel primo nostro ingresso a San Vittore del 12 aprile – tra Luca e Francesco, a un certo punto mi sono ritrovato gli occhi pieni di lacrime ma non riuscivo a capire bene perché.

Mi ero riproposto che dovevo pensarci bene, lasciando che quelle emozioni inattese continuassero a trafiggermi senza però consentire che l’effetto benefico si esaurisse al risveglio, l’indomani mattina.

La fretta di dover cambiare argomento o tonalità, ritornando ai ritmi frenetici appena usciti dal sottosuolo di San Vittore, doveva arrendersi – per una volta – alla necessità di trovare quella risposta: perché?

Ci voleva del tempo, certo. Come tutte le cose.

Ma poi questa ultima settimana, segnata dai riti di passaggio tipici della fine della quinta elementare e della terza media (una congiunzione astrale difficile da gestire all’interno di un’unica famiglia), mi ha regalato il tesoro nascosto.

Sono grato alla maestra di mia figlia che, dopo un anno di relazioni sempre più difficili all’interno della sua classe, è riuscita a trasformare quelle difficoltà in opportunità di crescita. La fine della cerimonia di graduation restituiva plasticamente l’obiettivo educativo (prima che scolastico), io – con la mia rigidità nel rapporto genitore/insegnante – non trovavo le parole adatte neppure per un semplice “grazie” e lei mi ha colto di sorpresa con un “beh, ora possiamo abbracciarci anche noi?”.

Sono grato a quei capi scout che neppure io conoscevo e che hanno custodito mia figlia lo scorso weekend accompagnandola per mano dentro un territorio che lei neppure voleva conoscere. Di ritorno a casa la domenica, ho ritrovato nel suo entusiasmo un tratto che abitava un tempo anche in me, perché a volte la timidezza del carattere non riesce a farti indirizzare lo sguardo verso l’impensabile e l’inimmaginabile.

Sono grato alle insegnanti e agli insegnanti di mio figlio che – dopo essersi presi cura per oltre due anni e mezzo non solo del suo sapere ma anche della sua adolescenza inquieta, con un entusiasmo e una dedizione che più volte mi ha intimamente commosso- lo accoglieranno oggi alle 8.00 per l’esame orale di terza media, nonostante tutto questo non gli abbia fatto prendere sonno questa sera dopo aver preparato uno zaino con 12,5 kg di libri dentro. E io, con lui, a sperare che arrivasse finalmente Morfeo a dare forma ai suoi sogni. E in quella attesa durata due ore, disteso accanto a lui sullo stesso letto, non mi preoccupavo tanto di non avere ricordi nitidi né della fine della quinta elementare né della fine della terza media. Perché a me basta il ricordo della maturità, come se fosse stato ieri, quando sono uscito da quell’aula dopo l’esame orale. Mi sono guardato indietro per rendere indelebile quello che finora così è rimasto in me:  quella sensazione del me-che-chiudo-quella-porta, lentamente. Un misto di rimpianto e soddisfazione.

Un qualcosa che – quando sei giovane – è in parte differente da quello stare, come magnificamente indica Nicolò Fabi, “nella pausa che c’è tra capire e cambiare” tipica dell’età che ci ostiniamo a chiamare adulta.

Capivo (ma forse solo intuivo) che era finito un ciclo della mia vita ma quella mia stessa vita non mi aveva ancora fornito gli strumenti di consapevolezza per comprendere che quella porta, così consapevolmente chiusa, avrebbe aperto realmente ad un cambiamento.

Eppure quel momento è stato forse la mia prima alba, attesa per tanto tempo anche se non sapevo, appunto, quale territorio nuovo avrebbe illuminato.

Un qualcosa dunque che, come spiega invece Andrea Parodi, assomiglia forse più all’abacada: “nella lingua sarda …. significa momento di contrapposizione paritetica di forze, caratterizzato dalla serena calma che precede il cambiamento e la svolta esattamente come quei brevi, intensi istanti che non sono ancora giorno e non sono più notte”. E proprio a questo pensavo, ricordo ugualmente indelebile, nell’agosto 2019 quando per la prima volta ho portato mio figlio a fare il bagno in quella precisa scansione temporale, nel mare di Cardedu.

Ed è accaduto nelle vacanze natalizie di quello stesso anno, volendo invece mettere meglio a fuoco il rapporto di padre con mia figlia più piccola, che mi sono ritrovato tra le mani il libro di Alberto Pellai “Da uomo a padre”. Anche di questo sono grato, a lui che lo ha scritto quanto all’insieme di circostanze – che non riesco a ricostruire perché da me neppure lontanamente immaginate – che me lo ha fatto, appunto, trovare e mettere in valigia.

E alla fine quella lettura (che si è fermata a lungo, a pag. 173, sulla “permanenza della <<zona grigia>>”, ovvero “chi è stato mio padre per me? Che ruolo ha giocato nel determinare la persona che sono, ciò che avrei voluto essere? Come mi ha permesso di realizzare ciò che sognavo di fare della mia vita?”) si è trasformata, ugualmente inattesa ed inimmaginabile,  in una preziosa occasione per conoscerlo meglio, io che pensavo di aver compreso ormai tutto di lui e di avergli fino a quel momento sempre manifestato il mio affetto di figlio riconoscente.

Ecco, ora mi è chiaro: erano lacrime di gratitudine le mie, dentro il sottosuolo di San Vittore.

Dopo aver sentito il racconto del mio amico Luca sui padri che ha cercato da giovane con tutte le sue forze e fortunatamente adottato, in uno con il racconto di Francesco sul figlio in affido con tutte le fatiche quotidiane ma anche le gioie connesse, in quel momento ho pronunciato davanti a tutti parole a tratti confuse ma che effettivamente davano il senso anche del mio percorso di figlio, apparentemente cosi diverso da Luca,  e di padre, apparentemente così diverso da quello di Francesco.

Eppure, ripensando anche ora a quel preciso momento, mi sembra davvero che ci siamo tutti abbracciati. Nell’ascolto empatico anche con i padri e i figli detenuti, in quell’abbraccio collettivo credo che ognuno di noi – arrivati fino a quel crocevia, tutti da strade differenti  – sia riuscito a fare un po’ di pace con l’ideale del padre che avremmo voluto avere. E con l’ideale di padre che avremmo voluto essere ma che, ormai è chiaro a tutti, non siamo né riusciremo (mai/più) ad essere.

Di questa esperienza, tra le tante cose che conservo nel mio cuore, una immagine mi si è fatta ugualmente nitida in questa ultima settimana: non è tanto l’attesa dell’alba quello che ci renderà padri migliori, ma un’alba inattesa.

Per tutto questo sono grato ai padri, Juri compreso, che ho incontrato dentro e fuori da San Vittore in questi mesi. Sono sicuro che l’energia che è scaturita dal nostro stare insieme e dal nostro confronto “senza farci sconti” ci aiuterà ad indirizzare sempre più lo sguardo verso qualcosa di inimmaginabile al nostro primo appuntamento, un qualcosa di fronte al quale ciascuno di noi riuscirà – finalmente – a stupirsi di sé stesso.

Grazie ancora, a tutti noi insieme e a ciascuno di voi per quello che siete riusciti a donarmi!

Alla ricerca del padre

Il portiere Vasilij

Accadde una cosa che nessuno vide, ma che era più grave di tutto ciò che la gente vedeva”
Questo che scrive Tolstoj può benissimo essere appropriato in tanti altri punti di Denaro falso, man mano che la catena delle falsità si va propagandando. Ma qui mi sembra di notare un punto nodale del racconto, quello, cioè, di vedere come una cedola falsa possa cambiare completamente le carte in tavola nella vita delle persone e di come venga completamente stravolto il sistema di regole che una società si è dato.

Succede che la nota cedola falsificata e di cui  ci si deve liberare comunque al più presto, venga questa volta rifilata al venditore di legna Ivan Mirònov dal venditore di oggettistica per la fotografia, Jevghènij Michàjlovic, in cambio di un dato quantitativo di legna, appunto. Quando Mirònov, mezzo ubriacone i cui affari non vanno tanto bene, scopre che la cedola, creduta un affare, è in realtà manomessa e falsa, torna da chi gliel’ha ceduta e lo implora di riprendersela e restituire il maltolto. E qui le cose si complicano non poco. Michàjlovic umilia pubblicamente Mirònov, asserendo con (apparente) convinzione e un molto flebile patema d’animo, di non saperne nulla. Anzi dice che non ha mai incontrato quel povero disgraziato.

Ormai c’è di mezzo anche una guardia, che, tra quanto riporta l’ignorante MIrònov e quello che asserisce il signor Michàjlovic, sta dalla parte di quest’ultimo. Si va a processo!

Mirònov assolda un avvocato che crede nella sua versione dei fatti e Michàjlovic, con piglio sicuro, cerca il portiere Vasilij. Questi è una persona di cervello, elegante, a cui piace la bella vita. Da tre anni ormai si è allontanato dal suo povero villaggio, dove non succede mai niente di eccitante, ha lasciato la sua rozza moglie e vive in città al meglio che può. E’ il principio del piacere a guidare le sue giornate, compreso il fatto di leggere libri, andare a teatro, prendere e lasciare le donne che vuole… Tutte realtà semplicemente inimmaginabili nel paese che ha lasciato.

Tutto sembra andare bene fino a quando non si imbatte nella vicenda della cedola falsificata. Quando Michàjlovic gli chiede, pagandolo, di giurare e testimoniare il falso , egli accetta sia pur con qualche titubanza. Il fatto è che Vasilij è convinto che anche i signori abbiano le loro regole di comportamento, magari sconosciute alla plebaglia. Si fida e segue le indicazioni di Michàjlovic.

Il risultato del processo recita che il giudice crede a Michàjlovic e alla fasulla, ma apparentemente ineccepibile, testimonianza di Vasilij e condanna Mirònov come falso e imbroglione. Questi è disperato, ben sapendo come stavano veramente le cose, implora e si appella anche alla religione, ma non c’è niente da fare. Deve pagare persino le spese inerenti al processo, ma Michàjlovic, da gran signore (?!) lo esonera dal farlo, acquisendo ulteriore credibilità.

E’ il capovolgimento completo della realtà! La cosa ancora più sconvolgente che Tolstoj ci fa notare è che Vasilij constata che i signori, a differenza di quanto immaginava, in realtà non hanno regole e agiscono seguendo il loro tornaconto. A quel punto in Vasilij scatta il convincimento che, non essendoci regole, lui stesso può fare quello che vuole, tanto da ciò non deriva alcun male. Anzi, dopo il processo, riceve ulteriore compenso di denaro da parte di Michàjlovic.

Il resto è presto detto: il portiere Vasilij vive rubando denaro e cose di valore agli inquilini. Gli capita di rubare una borsa persino allo stesso Michàjlov, il quale non lo denuncia però lo licenzia.

Ma Vasilij con la sua amante non vuole lasciare Mosca e cerca un altro lavoro. Lo trova da un bottegaio, ma anche qui, in seguito ad un ulteriore furto, non viene querelato, ma preso a botte e cacciato. A questo punto viene lasciato dall’amante, non ha più risorse e, poco alla volta, deve liberarsi e vendere quanto indossa per poter campare. Arrivata la primavera, “senza perdere il suo umore ardito e gaio” (sic!), come scrive Tolstoj, se ne torna a piedi a casa sua.

Piero Invidia

Denaro Falso

Denaro falso ad Opera con skytg24

Grazie a Diletta Giuffrida e alla Direzione di Skytg24 per aver voluto raccontare uno degli incontri del nostro progetto Denaro Falso.

Il servizio integrale è reperibile qui.

Il 19 marzo al carcere di Opera ci è venuto a trovare anche Andrea Spinelli, che ha saputo – come sempre – raffigurare meravigliosamente le emozioni di tutti i partecipanti:

Denaro falso

Dove sta la ragione?

Riflettendo su Denaro Falso di Tolstoj, ho subito notato un particolare che racchiude perfettamente il dibattito di oggi. Il libro inizia con questo ragazzo che si trova in debito con un suo amico, e dopo che la sua famiglia gli nega un prestito, lui falsifica una cedola (ne aumenta la cifra) e la consegna a una proprietaria di un negozio di fotografia, che non rendendosi conto della falsificazione l’accetta.

Questo comportamento è come se avesse annaffiato un seme che è sempre stato sottoterra, ma non ha mai ricevuto nutrimento: il seme del crimine. In effetti, penso sia un qualcosa di connaturato all’animo umano. Io credo che pian piano ogni piccolo comportamento scorretto abbia fatto in modo che questo seme germogliasse, fino a diventare un albero tanto possente da non poter più essere sradicato. Una piccola ingiustizia, come un furto di pochi rubli, ha dato avvio a un effetto farfalla tale che, alla fine, chi ha  pagato per il crimine aveva come unica colpa la mancanza di istruzione.

È meraviglioso rendersi conto, pian piano che si progredisce nella lettura del libro, di come ogni personaggio -anche quelli che hanno ideali giusti e nobili- pian piano viene corrotto dal male. Il passaggio più evidente è quello di un contadino che ha provato a pagare con questa cedola in un’osteria. Così è stato arrestato e giudicato colpevole semplicemente perché il sistema giudiziario era corrotto. Chi osserva questa scena è Vasilij, un portiere che è stato pagato per mentire e dare la colpa al contadino. Dopo aver visto il processo, si è reso conto che le leggi non venivano applicate in maniera corretta o addirittura che proprio non esistessero. Così dice a se stesso che non vale la pena d’essere corretto perché, in ogni caso, la ragione viene data a colui che è in grado di pagare la somma maggiore di denaro.

Tornando alla similitudine dell’albero, quando parliamo di crimine mi sembra che spesso si usi la retorica dell’ “ormai è troppo tardi”. Apparentemente è sensato, ma coloro che oggi si lamentano del fatto che la pianta è troppo cresciuta trascurano che quando essa era ancora solo un germoglio, ne procrastinavano l’estirpazione, nutrendolo indirettamente. E chi è più colpevole nella società è colui che trova un nemico comune per potersene lavare le mani.

Un altro episodio, sempre nel libro, è quello di un proprietario terriero che ha sempre trattato i propri contadini in maniera corretta. Una notte però avviene un furto di bestiame, così inizia questa caccia alle streghe, che porta quest’ultimo a segregarsi nella sua mansione e a trattare ingiustamente tutta la servitù. Leggendo di questa vicenda e per i mesi successivi, mi sono sempre chiesta chi avesse la ragione. Da un lato l’uomo è stato vittima di un’ingiustizia, dall’altro questo non rende lecito trattare i contadini insensibilmente. Mi rendo anche conto che in un momento dove ti trovi derubato di tutto, è difficile pensare razionalmente e agire con bontà. Quindi, per quanto, a livello ideale, io sia contrariaal modo in cui ha gestito la situazione, non mi sento in diritto di giudicarlo o fargli la morale.

Vorrei riflettere brevemente sulla seguente domanda: È necessaria la punizione, o è sufficiente la redenzione? Purtroppo, non posso credere, per quanto vorrei, che l’angoscia personale sia una pena sufficiente. Se idealmente penso che il cambiamento avvenga da dentro e che, se una persona non vuole cambiare, nulla potrà cambiarla, credo che lo Stato debba incitare e, laddove necessario, obbligare al cambiamento, non con la violenza, ma mostrando che c’è un’altra strada. E come hanno affermato Socrate prima e Rousseau poi, credo che l’essere umano per natura voglia il bene e non so come mai, ma sembra corrompersi durante la crescita. Per cui il dovere dello Stato è quello di far che i detenuti reimparino cosa è bene.

Tolstoj pensava che punire fosse scorretto e che in un futuro non così lontano i popoli del mondo sarebbero stati in grado di correggere le ingiustizie. Mi piange il cuore constatare che questo cambiamento non è avvenuto, e per come stiamo affrontando la problematica, non avverrà.

Viola Baselice
I
st. prof. per Sanità e Ass. Sociale
Istituto B. Melzi, Legnano

DENARO FALSO

In ogni azione il nostro futuro

L’esperienza vissuta al carcere di Opera è stata per me un momento di grande crescita personale e di profonda riflessione. Entrare in quell’aula, trovandomi di fronte a persone che hanno commesso reati anche molto gravi, è stato all’inizio destabilizzante. C’era timore, un senso di distanza, e soprattutto tante domande che mi giravano per la testa: come ci si comporta in questi casi? Cosa si può dire?

Ma poi, ascoltando le loro storie, quel muro invisibile ha iniziato a crollare. Quello che più mi ha colpito è stato proprio il contrasto tra l’apparenza e la realtà: i detenuti sembravano persone comuni, come chiunque di noi. E invece dietro quegli sguardi si nascondevano vicende durissime, storie di droga, violenza, solitudine e mancanza di amore. Mi sarebbe piaciuto avere più tempo per conoscere tutti, perché ogni persona aveva qualcosa di importante da raccontare. Alcuni volti mi sono rimasti impressi, e mi sono chiesto che tipo di vita avessero vissuto per arrivare fino a lì.

In tante storie si parlava di tossicodipendenza, di furti che sembravano insignificanti ma che poi, con il tempo, si trasformano in reati sempre più gravi. Questo mi ha fatto riflettere molto: ogni scelta ha un peso, e spesso basta poco per trovarsi dall’altra parte di quel muro.

Ho compreso quanto sia importante intervenire prima, lavorare sulla prevenzione, sulla scuola, sull’educazione e sul sostegno a chi vive in contesti difficili. Ma allo stesso tempo ho capito anche quanto sia fondamentale offrire una possibilità di riscatto a chi ha sbagliato. Il carcere non dovrebbe essere solo punizione, ma soprattutto occasione di rinascita. Molti detenuti ci hanno raccontato del loro percorso di cambiamento, della voglia di fare qualcosa di buono, anche solo per restituire un po’ di ciò che hanno tolto.

Infine, riflettendo anche sul libro “Denaro falso”, ho cercato di immedesimarmi in chi vive vite molto diverse dalla mia, ma non per questo meno umane o meno degne di essere ascoltate. Mi sono reso conto che la libertà è un dono prezioso, e che ogni nostra azione contribuisce a costruire il nostro futuro.

In conclusione, credo che questa visita non sia stata solo un’esperienza scolastica, ma un momento fondamentale per la nostra formazione. Ci ha insegnato a guardare oltre i pregiudizi, a capire che dietro ogni errore c’è una persona, e che la giustizia, per essere davvero tale, deve sempre lasciare spazio alla possibilità di cambiare.

Petra Zubiani
III liceo socio economico,
Istituto B. Melzi Legnano

DENARO FALSO

Un’occasione per riflettere

L’esperienza al carcere di Opera è stata unica. Non pensavo che sarebbe stato così interessante. Partecipare all’incontro dentro il carcere mi ha messa di fronte a storie difficili, vere, raccontate da chi ha commesso errori gravi, ma ha anche deciso di affrontarli con coraggio.

Nel Gruppo della trasgressione ci sono detenuti, studenti, volontari e professionisti. Insieme abbiamo parlato di legalità, responsabilità, libertà e cambiamento. Nessuno giudica, ma ognuno è chiamato a guardarsi dentro. All’inizio mi sentivo un po’ fuori posto, poi ho capito che ascoltare e parlare con sincerità era l’unico modo per crescere e ambientarsi davvero.

Un momento che mi ha colpita molto è stato quando uno dei detenuti ha raccontato come, nel tempo, è riuscito a vedere il male che aveva fatto e a provare davvero a cambiare. Non è stato facile per lui, e non lo è neanche per noi. Ma in quel cerchio di persone così diverse, ho sentito nascere un senso di umanità e rispetto profondo.

Questa esperienza mi ha insegnato che il carcere non deve essere solo punizione, ma anche occasione per riflettere e migliorarsi. Ne sono uscita diversa, più consapevole, più attenta a quello che faccio e a come guardo gli altri.

Giorgia Di Bari
III liceo socio economico,
Istituto B. Melzi Legnano

DENARO FALSO

Denaro falso e il peso delle scelte

La visita al carcere di Opera è stata una delle esperienze più forti e significative che abbia mai vissuto. Appena siamo entrati, ho sentito una strana sensazione: tutto era diverso da ciò che sono abituata a vedere. Le porte pesanti, i controlli, le guardie, le mura, il 41 bis….., sembrava di entrare in un altro mondo. All’inizio eravamo un po’ tesi e silenziosi. Non sapevamo bene cosa aspettarci, ma presto abbiamo avuto modo di ascoltare storie vere, raccontate direttamente da chi vive lì dentro. Alcuni detenuti ci hanno parlato del loro passato, delle scelte sbagliate che li hanno portati in carcere.

È stato difficile immaginare che quelle persone, che ci parlavano con calma e con tono amichevole, avessero commesso reati anche molto gravi, come lo spaccio o addirittura l’omicidio. Una delle cose che mi ha colpito di più è stato sentire i pareri contrastanti su quanto effettivamente lo Stato, la reclusione e la giurisprudenza aiutino o meno i detenuti.

Molti di lorodicevano che la vita all’interno di un carcere li ha aiutati a prendere strade diverse. Per molti altri, invece, la reclusione non serve per cambiare il proprio pensiero e le proprie sorti, una volta usciti dal carcere.

E questi pareri così contrastanti tra loro, provenienti dallo stesso gruppo, mi stupiscono molto. Un altro fatto che mi ha fatto molto pensare è che molti detenuti ci hanno raccontato quanto sia difficile ricominciare. Anche volendo cambiare, fuori dal carcere è complicato trovare lavoro o essere accettati, soprattutto se hai un passato difficile o problemi di dipendenza.

Questa esperienza mi ha fatto capire che dietro ogni errore ci sono delle persone, delle storie, dei dolori. Non si tratta di giustificare ciò che hanno fatto, ma di ascoltare, cercare di capire e riflettere. Mi ha anche fatto sentire fortunata per la mia vita e mi ha ricordato che ogni scelta, anche piccola, può cambiare tutto.

Ginevra Maria Raguso
III liceo socio economico,
istituto B. Melzi Legnano

Denaro Falso

Denaro Falso col Leone XIII

Restituzione progetto Denaro falso Leone XIII – contributo docenti

Il romanzo scelto per impostare il lavoro è stato parecchio apprezzato dai ragazzi, risultando scorrevole e di semplice lettura. È stata necessaria la mediazione dei docenti in classe per poter concettualizzare la riflessione sulla giustizia. In tal senso sono stati molto utili e proficui gli spunti offerti dagli organizzatori: personalmente li ho trovati abbastanza indicativi senza essere troppo vincolanti, quindi adatti alla fase preliminare del lavoro.

L’incontro con i detenuti, grazie anche alla mediazione accorta del magistrato, dello psicologo e dei parenti delle vittime, è stato di sicuro il momento che più ha colpito i ragazzi dal punto di vista umano. La maggior parte di loro – e io mi trovo pienamente d’accordo – ha riconosciuto l’incontro come un momento di condivisione autentica, dal quale è emerso il valore dell’elaborazione del vissuto personale nella ricostruzione di un senso per la propria vicenda. D’altra parte i detenuti hanno anche segnalato che solo una piccola parte di essi segue un percorso di questo tipo, o può farlo, alludendo alla condizione misera della maggior parte di loro e al valore ancora per lo più retributivo della pena carceraria in Italia. In questo senso, gli interventi del magistrato e dello psicologo hanno aiutato a tenere presente che ‘lo strappo’ che le colpe dei detenuti hanno prodotto non deve essere mai banalizzato, né perso di vista, pena lo svilimento del percorso di recupero per tutte le parti coinvolte.

Personalmente ho trovato questo dialogo – talvolta piacevolmente acceso e provocatorio – un prezioso momento di riflessione: mi ha aiutato a ricordare la complessità della realtà della condizione dei detenuti, che spesso siamo tentati di descrivere sommariamente con etichette generiche e luoghi comuni; in particolare, mi ha colpito come un’autentica ed efficace collaborazione tra parti diverse della società sia riuscita laddove la macchina legale si perde.

Lo strappo viene effettivamente ricucito, sanando la ferita che ha portato non solo nei detenuti, ma anche nelle famiglie delle vittime. L’idea che si possa superare il rancore e l’odio verso chi ci ha portato via chi amiamo mi pare uno dei messaggi più provocatori dell’esperienza, e in effetti è stato uno dei più menzionati anche nella restituzione in classe dei ragazzi.

Grazie di cuore di averci coinvolti nel progetto,

Prof. Michele Genovese
Istituto Leone XIII

DENARO FALSO

Giove, un vero stronzo

Durante il percorso condotto dal Dott. Aparo (con visita al carcere di Opera), abbiamo lavorato sul mito di Sisifo per affrontare in modo simbolico il tema della dipendenza da droghe, collegata spesso al distacco dalla figura genitoriale.

Il mito parla di un uomo condannato a spingere un masso su per una montagna per l’eternità, solo per vederlo rotolare di nuovo a valle. Questo gesto assurdo, ripetitivo, è diventato il simbolo della dipendenza, della fatica inutile e distruttiva in cui mi sono riconosciuto.

Abbiamo visto in Sisifo non solo il condannato, ma anche l’uomo che si ribella, che prende coscienza della propria condizione e trova nella consapevolezza una dignità. lo, in particolare, ho interpretato Giove, il re degli dèi, colui che infligge la punizione a Sisifo.  L’ho rappresentato come un dio arrogante, indifferente, concentrato solo sui propri piaceri e completamente distaccato dalla sofferenza umana.

Un vero stronzo, per dirla senza filtri.

E in quel Giove ho rivisto tante figure “genitoriali” nella vita reale: assenti, egoiste, incapaci di vedere davvero i figli, le loro richieste d’aiuto, i loro crolli. E quando non c’è nessuno che ti guarda con amore, è facile cercare conforto nelle droghe, che almeno per un po’ sembrano riempire quel vuoto.

Questo progetto non ha dato risposte facili, ma ci ha aiutato a fare domande vere. A capire che forse non possiamo cancellare il passato, ma possiamo smettere di spingere il masso per conto di qualcun altro. Possiamo cominciare a farlo per noi, per il senso che decidiamo di dare alla nostra vita.

Carlo Caroli

Il mito di Sisifo al Pesenti di Bergamo

La siccità a Corinto

In questo anno scolastico io e la mia classe abbiamo partecipato a degli incontri con il Dott. Aparo, dove abbiamo recitato e compreso il mito di Sisifo. Abbiamo affrontato temi profondi come la piaga delle droghe ma anche il controllo della rabbia nei confronti dei genitori o di un adulto.

Il mito si conclude facendo capire che ogni azione ha una conseguenza, in questo caso il protagonista Sisifo fu condannato per l’eternità a dover spingere un masso (la sua coscienza) su per una montagna.  Una fatica inutile e sfiancante dovuta alle sue decisioni. Questo gesto continuo gli ha fatto capire i suoi errori ed acquistare la consapevolezza per ciò che aveva fatto.

Ho interpretato un uomo che aveva bisogno di acqua per portare avanti l’attività agricola. Era come se ne fossi dipendente e senza di quella non riuscivo a sopravvivere, però non comprendevo la difficoltà che avesse il Re di Corinto nel fare questa domanda agli Dei. Infatti lo attaccai incessantemente e, forse grazie anche al mio personaggio, riuscimmo ad avere l’acqua per l’eternità.

Nel mito e durante gli incontri è emersa più volte la figura genitoriale inesistente o autoritaria. In conseguenza di questo problema molti giovani trovano conforto nelle droghe o nella violenza. La società moderna sta lentamente cadendo a pezzi, il problema non è stato causato da noi ragazzi, ma dai nostri genitori che non ci sono stati vicini durante la crescita.

È stato un progetto tosto da comprendere fino in fondo, però grazie all’ausilio del mito lo si è capito molto più chiaramente.

Ero titubante se iniziare a fare questo percorso perchè mi sembrava una totale perdita di tempo, ma con il passare degli incontri ho capito che un fondo di verità c’è e non bisogna soffermarsi solamente all’apparenza.

Mi mette a disagio parlare davanti ai miei compagni figuriamoci davanti alle telecamere, questa mia paura non l’ho ancora superata.

Nicola Caccia

Il mito di Sisifo al Pesenti di Bergamo