Il sapore delle ciliegie acerbe

Il sapore delle ciliegie acerbe
Carmelo Impusino

Quando ero bambino, vicino a casa mia, a un centinaio di metri dall’ortomercato, c’era un distributore di benzina all’interno di un’autorimessa con due entrate su due vie ad angolo. Per me e per alcuni miei amici era un punto di riferimento e un appuntamento quasi settimanale. Quello che ci attraeva di quel posto erano due alberi, un ciliegio e uno di fichi verdi, a ridosso del muro della rimessa, staccati alcuni metri l’uno dall’altro.

Durante la settimana non potevamo avvicinarci per via del benzinaio che lavorava a pieno regime, specie con i camion di transito per l’ortomercato; lui ci impediva di salire sugli alberi, non tanto perché non voleva che ne prendessimo i frutti, che alla fine nessuno coglieva, ma più che altro perché aveva timore che potessimo farci male cadendo giù. Ma la domenica le pompe di benzina erano chiuse e gli alberi erano incustoditi, tutti per noi. Sembrava fossero loro stessi a invitarci a coglierne i frutti, che altrimenti sarebbero andati persi a terra. E così, dopo pranzo, armati di sacchetti, dal basso dei nostri sguardi di bambini, ci ritrovavamo lì a scrutarli ancor prima di arrampicarci, alla ricerca dei punti più invitanti. Ricordo ancora come lo sguardo e il pensiero però andavano anche a tutti quei frutti sprecati che nessuno aveva potuto o voluto cogliere e che ormai giacevano a terra in via di decomposizione. E questo mi faceva arrabbiare.

Gli alberi erano alti entrambi una decina di metri e per noi diventava un vero piacere scalarli ramo dopo ramo fino ad arrivare nei punti alti e ai frutti più maturi. Quelli acerbi provavamo a lasciarli maturare rispettosamente…  a dire il vero, non sempre! A volte, presi dalla golosità o da chissà cosa, mangiavamo anche quelli. Non sapevamo aspettare… da un albero all’altro coglievamo fichi e ciliegie, e nonostante l’intesa di mangiarli a fine raccolta, spesso non riuscivamo a resistere alla tentazione di mangiarli ancora seduti sui rami.

Il nostro luogo per la pausa era il tetto della rimessa stessa, lungo e largo una cinquantina di metri, in catrame e metallo. Alto un po’ meno degli alberi, ci permetteva di mangiarne i frutti seduti comodamente, ma anche di correrci sopra, guardare le strade dall’alto e sentirci in contatto con una dimensione tutta nostra. Dopo qualche ora tornavamo a casa sporchi, stanchi e appagati. Mia madre, nonostante le macchie sui miei panni e il lavoro per lavarli, mi sorrideva… un po’ per quei frutti che avevo portato, un po’ perché quei frutti le davano la certezza che quel giorno non avevo fatto danni o creato problemi.

Oggi, pensando a quei giorni e a quegli alberi che abbracciavo e scalavo, che mi divertivano, sporcavano e nutrivano, non posso non pensare a loro come agli amici, genuini, silenziosi e accondiscendenti che hanno fatto parte della mia infanzia. Non avrei immaginato di poterli pensare un giorno con questa visione amichevole, ma la realtà è che, solo ora che li ho ritrovati nei miei ricordi, ne riconosco il loro valore. Mi auguro che ci siano ancora e che possano aver dato e diano tuttora anche ad altri le stesse emozioni che hanno dato a me. Anche quei frutti che giacevano a terra sono oggi per me spunti di riflessione; forse avrei voluto anch’io essere un buon frutto a beneficio di qualcuno, mentre invece un po’ mi accosto a quei frutti sprecati che giacevano a terra.

Nel profondo del mio cuore avrei voglia di scalarli e sporcarmi ancora con loro, abbracciandoli e salutandoli come accade con gli amici che non si incontrano da tanti anni. E proprio come si trattasse di vecchi amici, mi piacerebbe ringraziarli per avermi nutrito un po’ il cuore, per quei genuini sorrisi che assieme abbiamo regalato a mia madre, per quell’indimenticabile sapore delle ciliegie acerbe, pieno di significato, che nessun fruttivendolo potrà mai darmi.

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