Percorsi e derive del potere

Mercoledì 21/11/18
Casa di Reclusione di Milano Opera

Una riflessione fra persone con ruoli molto diversi, ma tutte legate dall’idea che uno dei pochi argini al delirio di onnipotenza cui il potere espone è quello della responsabilità verso i destinatari della nostra funzione.

A tutte le persone che intendono partecipare chiediamo di contribuire al buon esito dell’iniziativa osservando le seguenti indicazioni:

  • Le richieste di prenotazione (obbligatoria) all’evento vanno inoltrate a associazione@trasgressione.net fino a un tempo massimo di 10 giorni prima dell’evento
    • specificando chiaramente: Nome e Cognome, Luogo e Data di nascita e N° Carta d’identità,
    • allegando la fotocopia del proprio documento di identità.
  • Ingresso gratuito.
  • Le prenotazioni possono essere inoltrate individualmente, ma per snellire il nostro lavoro chiediamo la cortesia, quando è possibile, di cumulare più richieste in un’unica mail.
  •  E’ indispensabile essere presenti all’ingresso entro le 13:30. Via Camporgnago 40, Milano.
  • Allo scopo di facilitare i controlli all’ingresso e per evitare ritardi è necessario presentarsi senza cellulari, senza oggetti elettronici, chiavette USB, ecc.

  • Associazione Trasgressione.net: interventi di prevenzione al bullismo nelle scuole medie superiori e inferiori, il teatro sul mito di Sisifo, convegni su i temi del gruppo, concerti della Trsg.band;
  • Cooperativa Trasgressione.net: consegne di frutta e verdura freschi a bar e ristoranti e a gruppi di consumatori associati, le bancarelle nei mercati rionali con gli stessi prodotti, il restauro di beni artistici, lavori di manutenzione e di piccola ristrutturazione.

Progettare e lavorare con chi ha commesso reati giova al bene collettivo e alla conoscenza dei percorsi devianti più della pena che il condannato sconta in carcere

La squadra anti-degrado

9 pensieri riguardo “Percorsi e derive del potere”

  1. ADESSO CHE TUTTO E’ FINITO…
    UN RICORDO DI PAOLO FINZI
    (Gianni Sartori)

    Coincidenze? La notizia della tragica morte di Paolo Finzi mi arrivava il 21 luglio (19° anniversario della macelleria messicana di Genova 2001) contemporaneamente a quella dell’imminente sgombero sia di Frigolandia (deposito della memoria antagonista-alternativa degli ultimi 50 anni, oltre che presidio di resistenza umana e culturale) che del Conchetta di Milano. Forse davvero un ciclo si va chiudendo definitivamente e per la mia generazione è il momento di passare il testimone.
    Avevo iniziato a collaborare con “A, rivista anarchica” (di cui Paolo era stato tra i fondatori, quindi redattore e infine direttore per quasi 50 anni) negli anni ottanta. Con un articolo – se non ricordo male – sullo sfruttamento di balene e delfini addestrati per scopi militari. Paolo l’avevo incrociato in precedenza a qualche manifestazione. A Carrara, nel 1972 (a qualche mese dalla morte di Franco Serantini che Paolo aveva ben conosciuto) c’era anche stato un incontro con Alfonso Failla, militante storico dell’anarchismo carrarese, destinato a diventare suo suocero e su cui scriverà una avvincente biografia. La mia collaborazione con “A” fu tutto sommato di lunga durata, nonostante qualche polemica e discussione per i miei spiccati interessi nei confronti di popoli oppressi e minorizzati. Situazioni di cui Paolo diffidava avvertendo talvolta un eccessivo“ odor di nazionalismo” (mentre chi scrive ne coglieva piuttosto l’aspetto legato alle lotte di Liberazione dal colonialismo, dall’imperialismo, dal capitalismo etc.). Alla fine comunque, pur se con qualche riserva, pubblicò anche miei articoli, interviste e reportage su Paesi Baschi, Paisos Catalans e Irlanda. Oltre che su Indios (Moseten, Uwa…), Sinti (vedi l’articolo su Paolo Floriani), Curdi, Armeni e Adivasi dell’India.
    Uscì anche un articolo su “Mio padre partigiano” dove raccontavo oltre che della “brigata Silva” (Colli Berici) anche del nonno “obbligato” e dello zio operaio aggrediti dai fascisti con manganelli e olio di ricino. E per il numero speciale del gennaio 2011 (quarantesimo di “A”) mi chiese di curare l’intervento su “Anarchismi e indipendentismi”.

    In seguito, anche se ci siamo visti di persona varie volte, sia a Milano (dove passavo in redazione) sia in occasione di incontri a Padova, Abano (per un concerto di Alessio Lega), Mestre (presso gli “Imperfetti”) e Vicenza, il solco fra noi era destinato ad ampliarsi. Soprattutto per qualche mia collaborazione con riviste e siti giudicati troppo “identitari”. Per me rappresentava un tentativo di portare nel caotico ambiente autonomista e indipendentista tematiche anti-capitaliste, anti-gerarchiche, ecologiste etc.(fermo restando che riuscirci è sempre un altro paio di maniche).
    La rottura definitiva (dopo un primo temporaneo “congelamento”) risaliva a tre anni fa e sinceramente avevo sempre sperato che prima o poi ci saremmo spiegati e magari riconciliati.
    Invece il 20 luglio, in una stazione di Romagna, Paolo ha scelto di andare direttamente contro la morte, guardarla in faccia e morire in piedi a fronte alta. Una scelta alla Guy Debord degna di lui. Presumo non abbia voluto assistere passivamente al proprio declino dopo una vita trascorsa sulle barricate della Storia, in direzione ostinata e contraria, a pugno chiuso. Da anarchico.
    E mi torna in mente l’ultima volta che ci siamo visti, proprio in un’altra stazione. A Vicenza dove lo avevamo invitato, a Villa Lattes, per parlare del suo amico Fabrizio De André. Dopo un breve rimpatriata con Matteo Soccio alla Casa per la Pace, in attesa del suo treno per Milano (e della mia corriera per il paesello) parlammo a lungo delle radici “partigiane” e antifasciste delle rispettive famiglie.
    Mi raccontò soprattutto di sua madre Matilde Bassani. Partigiana combattente, era cugina dello scrittore Giorgio Bassani e di Eugenio Curiel (ucciso dai fascisti nel 1945).
    Vorrei ricordarlo con questa breve intervista, realizzata quattro-cinque anni fa, dove avevamo affrontato la questione ebraica su cui talvolta erano sorte discussioni (soprattutto in rapporto a quella palestinese).

    Un incontro con Paolo Finzi della redazione di “A, Rivista Anarchica”

    Con Paolo Finzi, ebreo ateo (precisa) e anarchico, abbiamo parlato di antisionismo. “Una questione che – sostiene – generalmente procede in parallelo con l’antisemitismo da cui trae alimento”. Ben sapendo, ovviamente, che i termini “semitismo” e “antisemitismo” nel linguaggio corrente vengono usati in modo improprio. Giornalista, saggista, unico superstite della originaria redazione di “A, Rivista Anarchica”, militante storico della sinistra libertaria (amico personale, tra gli altri, di Giuseppe Pinelli, Fabrizio De André e Don Gallo), Finzi si è occupato a lungo del fenomeno delle persecuzioni, soprattutto di quelle passate e presenti contro Rom e Sinti. Nel 2006 aveva prodotto il doppio DVD con libretto “A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari”. Da anni tiene conferenze (molte nelle scuole) sulla multiculturalità, le persecuzioni, la Memoria. Recentemente presso la comunità cattolica alle Piagge (Firenze), chiamato da don Alex Santoro.
    Presumo che qualcuno avrà da ridire sulle opinioni espresse da Paolo Finzi in merito allo stato di Israele. In ogni caso la sua era una campana che andava ascoltata, altrimenti il “pensiero unico” che scaraventiamo fuori dalla porta poi rientra dalla finestra (o viceversa, non ricordo).

    D. Quale differenza vedi tra antisemitismo e antisionismo, termini spesso usati in maniera indifferenziata?

    R. Premetto che non mi considero un esperto in senso accademico e che le mie riflessioni sono in gran parte legate al mio vissuto. Sorvoliamo pure sul fatto che il termite “semita” viene utilizzato in maniera etimologicamente errata e prendiamo atto che ormai “antisemita” è sinonimo di antiebraico. Mentre l’antisemitismo è un problema storico di vecchia data legato all’esistenza plurimillenaria degli ebrei, l’antisionismo ovviamente è un fenomeno più recente, successivo alla nascita del sionismo nel XIX secolo. Il sionismo si definisce nell’ambito dei movimenti ottocenteschi di liberazione e di costituzione nazionale. Con la differenza (rispetto per esempio al Risorgimento) che si applica ad un popolo disperso in vari paesi e non per propria scelta. Un popolo da riunificare, su principi di libertà e convivenza civile, nella prospettiva della realizzazione di una entità nazionale. Quindi anche l’antisionismo è relativamente giovane, circa un secolo e mezzo. Oggi i due termini si confondono, soprattutto dal 1948 quando nacque lo Stato di Israele, in un contesto e con modalità che i tanti antisionisti attuali ignorano o vogliono ignorare (il che è lo stesso).
    Mi si consenta una battuta. Israele è l’unico posto al mondo dove “uno sporco ebreo è solo un ebreo che non si lava”. Rende l’idea del perché, nonostante l’estrema frammentazione (politica, religiosa, di nazionalità, ecc.), tra Ebrei e Israele esista un rapporto così intenso, profondo… (il che non significa approvare tutto quello che fanno i governi israeliani).
    D’altra parte val la pena ricordare che molti Ebrei prima della nascita dello Stato di Israele erano contrari al sionismo (vedi il Bund, grande sindacato dell’Europa Centro-Orientale). Dopo la nascita di Israele, essere antisionisti assume un altro significato.

    D. Soprattutto a sinistra, ma anche in certa “destra radicale” ( peraltro strumentalmente, ricordando da che parte stavano i neofascisti italiani in Libano) l’antisionismo si presenta come anticolonialista, una scelta di campo a fianco degli oppressi. Questo atteggiamento, a tuo avviso, è sempre autentico o talvolta maschera un razzismo antiebraico di fondo?

    R. Ritengo che molta gente parli senza ben conoscere le cose di cui si occupa. Spesso chi si definisce antisionista non conosce i termini della questione. Si vede in Israele il luogo della confluenza degli Ebrei dopo la seconda guerra mondiale e si da per scontato il carattere anti-arabo e anti-palestinese di questa presenza. Come se gli Ebrei avessero imposto all’Europa (in preda ai sensi di colpa) la costituzione di questo stato a scapito dei Palestinesi. In base a questa lettura l’antisionismo diventa l’opposizione al colonialismo israeliano. Dopo la Guerra dei sei giorni (1967) in particolare abbiamo assistito ad un mutamento politico di gran parte della sinistra italiana (all’epoca rappresentata soprattutto dal PCI) che divenne ostile nei confronti di Israele, spesso mischiando la critica alla politica dei vari governi con la negazione della legittimità dell’insediamento “sionista”,
    Va anche aggiunto che lo stesso sionismo, rispetto alle origini ottocentesche, si è modificato. La questione è molto complessa, densa di problemi. Basti pensare a quanti interessi economici sono in gioco in quell’area, non solo il petrolio.

    Al di là dei singoli episodi (come recentemente in Francia) dovrebbe preoccupare la vasta presenza nella società di sentimenti antiebraici. Da un certo punto di vista l’ignoranza, i pregiudizi, l’opinione che gli Ebrei sono “una setta che pensa a fare soldi”, ecc. e tutti gli altri stereotipi diffusi a livello popolare possono essere più nocivi di Le Pen o del pazzo di turno che compie una strage. Esiste un continuum sociale che in determinate circostanze parte dalla piccola intolleranza o insofferenza quotidiana e arriva fino all’odio generalizzato e alla fine fa accettare tutto, anche le camere a gas.

    D. Il sionismo, la “questione ebraica”, così come la “questione palestinese” in alcuni paesi arabi, talvolta sono apparsi come un pretesto per distogliere l’opinione pubblica dai problemi interni. La tua opinione?

    R. In Europa gli Ebrei, così come Sinti, Rom e altre minoranze o soggetti “deboli” (v. gli albanesi negli anni ’90, i rumeni nell’ultimo decennio…), sono stati spesso utilizzati per coprire le contraddizioni di un paese. A conferma delle teorie che il “nemico interno” al potere serve sempre. Ovviamente è sempre meglio utilizzare quelli con un ruolo ormai consolidato di “diversi”, non-assimilabili, vittime predestinate. E gli Ebrei, sia per la loro perdurante esistenza che per la loro volontà appunto di non assimilazione, si prestano ottimamente. Non si dovrebbe dimenticare che in molti paesi tra i vari filoni dell’antigiudaismo ha giocato un ruolo rilevante anche quello di matrice cristiana.
    Mi piace altresì sottolineare che negli ultimi tempi ci sono stati passi avanti da parte delle istituzioni ecclesiastiche. Così come, nel corso della storia e soprattutto durante le persecuzioni ad opera dei nazifascisti ci sono sempre stati frequenti esperienze di dialogo e solidarietà da parte di singoli credenti e religiosi.
    Mia madre, ebrea e socialista, partigiana combattente, a Roma, ricercata dai nazisti, riparò in un convento cattolico e lì fu protetta.
    Gianni Sartori

    nda Con il termine sionismo si indica un movimento sorto nel 1882 per “riportare a Sion” gli Ebrei della diaspora. La nascita coincide con una recrudescenza delle persecuzioni nella Russia zarista e con la fondazione a Varsavia del gruppo Chovevè Sion.

    Risale allo stesso periodo la fondazione della prima colonia ebraica in Palestina e la diffusione di “Autoemancipazione” pubblicato da Lev Pinsker a Odessa. Determinante l’impegno di Theodor Herzl per ottenere garanzie giuridiche internazionali a favore degli insediamenti ebraici. Nel 1897 Herzl convocò il primo congresso sionista dando origine alla Zionist Organization (Organizzazione sionista) e al Jewish National Fund (Fondo nazionale ebraico). L’immigrazione divenne più consistente a seguito della “dichiarazione Balfour” del 2 novembre 1917 con cui il ministro britannico si impegnava a favorire la costituzione di una sede nazionale ebraica. Tra i nuovi immigrati era prevalente una componente operaia rappresentata da partiti e movimenti come Poalé Zion (Operai di Sion) e Hapoel Hatsair (“Il giovane operaio”). Nel 1919 nasceva Ahdrut Haavoda (“Unità del Lavoro”) da cui in seguitò si staccò il Partito comunista di Palestina. Su posizioni di destra, il Partito sionista revisionista fondato nel 1924 da Vladimir Jabotinsky. Nel 1931 la milizia giovanile di questo partito, Betar, divenne l’Irgum Zwai Leumi, responsabile dell’attentato al King David Hotel (luglio 1946) e del massacro di Deir Yassin (aprile 1948). Nel novembre 1947 l’Onu approvò un piano di spartizione della Palestina. Allo scadere del mandato britannico, 15 maggio 1948, il comitato esecutivo controllato dai dirigenti sionisti si trasformò nel governo provvisorio della neonata nazione israeliana.
    G.S.

  2. IN MEMORIA DI FRANCO SERANTINI, UN “SOVVERSIVO DIMENTICATO”
    di Gianni Sartori  

    A ormai oltre mezzo secolo, un ricordo del martirio di Franco Serantini, un compagno, tra l’altro, che Paolo Finzi conosceva bene. Avevano partecipato insieme a molte iniziative e riunioni, anche discutendo spesso animatamente (come mi aveva raccontato Paolo).

    Così come per altri anniversari, anche il 51° dell’assassinio di Franco Serantini, è andato inosservato o quasi. In memoria del giovane anarchico massacrato dalla polizia a Pisa nel maggio 1972 Ivan della Mea (16 ottobre 1940 – 4 giugno del 2009) aveva scritto una canzone: «…da morto fai paura / scatta l’operazione, rapida sepoltura / E’ solo un orfano, fallo sparir / nessuno a chiederlo potrà venir…».

    Nel 1997, quando lo intervistai, Ivan mi raccontò di averlo incontrato qualche volta a casa di suo fratello Luciano (Luciano Della Mea, scrittore, 1924-2003). Luciano ebbe un ruolo non indifferente nel denunciare il pestaggio subito da Franco. Si costituì parte civile con Guido Bozzoni riuscendo a impedire la frettolosa, già richiesta, inumazione del cadavere di Serantini. Da ricordare anche il ruolo dei fratelli Della Mea nelle polemiche che poi sfociarono in due manifestazioni distinte a Pisa.

    Riporto testualmente quanto mi disse Ivan all’epoca dell’intervista (1997): «Franco Serantini era molto amico di mia nipote, Maria Valeria Della Mea, anarchica e figlia di Luciano, mio fratello. La ballata in realtà venne scritta da un numeroso gruppo di compagni di varia tendenza, dagli anarchici a Lotta continua. Io mi limitai ad alcuni aggiustamenti metrici e per la musica usai quella di una ballata dedicata a Felice Cavallotti. A Pisa vi furono due manifestazioni perché c’era chi voleva a tutti i costi appropriarsi della morte di Franco, installarci la sua bandierina. Questa era, in sostanza, la posizione di Adriano Sofri. Invece Luciano, mio fratello, riteneva che la formidabile ondata di sdegno e solidarietà che la morte del giovane anarchico (massacrato dalla Celere e poi lasciato morire in carcere ndr) fosse troppo preziosa per farne una questione di bandiera. Alla fine si tennero due distinte manifestazioni: in una parlò Adriano Sofri, nell’altra Umberto Terracini. Se non ricordo male anche tra gli anarchici vi furono valutazioni diverse. Penso fossero più o meno “equamente” distribuiti tra le due manifestazioni. Tra l’altro pioveva che Dio la mandava. Di questo se ne ricordano bene tutti i partecipanti, tranne Marino …”.

    (ma questa per dirla con Kiplig, è un’altra storia nda)

    Un inciso. Stando alla testimonianza di Valerio, un libertario di Pistoia che prese parte alla manifestazione, ad un certo punto, visto che nel suo intervento Sofri stava poco elegantemente appropriandosi della figura di Serantini, “qualcuno” strappò i fili del microfono per cui il leader di Lotta Continua parlò ma quasi nessuno lo intese.

    Quanto alla canzone da lui scritta in memoria di Franco, Ivan mi disse di cantarla ancora anche se «naturalmente è una di quelle canzoni che richiede certe spiegazioni. Io le considero “canzoni d’uso per la memoria storica”». (*)

    Anniversario quasi inosservato, dicevo.  Eppure la vicenda a suo tempo suscitò una forte emozione. Franco Serantini incarnava suo malgrado la vittima predestinata, il reietto della società, inerme e indifeso, su cui si era scatenata la violenza bruta del Potere.

    Franco aveva vent’anni. Era nato in Sardegna nel luglio 1951. Figlio di NN, come allora si diceva. Aveva trascorso la sua breve vita tra brefotrofi e istituti di correzione, prima in Sardegna, poi in Sicilia, di nuovo a Cagliari, a Firenze e infine a Pisa.

    In pratica viveva in un regime di semilibertà (pur senza la minima ragione di ordine penale) e doveva mangiare e dormire nell’istituto di rieducazione in piazza San Silvestro. Piccolo di statura, miope, viene descritto da chi lo ha conosciuto (oltre alla famiglia della Mea, cito anche le sorelle Failla e Paolo Finzi) come intelligente e generoso. A Pisa frequentava la scuola di contabilità aziendale ed era affiliato dell’Avis. Sicuramente le sue personali vicissitudini furono determinanti nell’indirizzarlo verso una scelta radicalmente libertaria. Nell’autunno 1971 cominciò a partecipare alle riunioni del gruppo “Giuseppe Pinelli” di via San Martino e proprio in quel periodo conobbe e frequentò assiduamente la famiglia di Luciano della Mea.

    Il 5 maggio Franco prese parte a un presidio antifascista indetto da Lotta continua contro un comizio dei fascisti del Movimento Sociale Italiano. Il presidio venne duramente attaccato dalla polizia e Franco si trovò circondato da un gruppo di celerini sul lungarno Gambacorti. Alcune testimonianze confermarono che il giovane non aveva opposto nessuna forma di resistenza.

    Nel 1989 una signora mi raccontò di aver assistito dalla finestra al pestaggio e di aver gridato invano ai poliziotti di smetterla perché «così finirete per ammazzarlo». A distanza di anni ogni volta che andava al cimitero, dopo aver portato dei fiori sulla tomba di suo marito, ne portava anche su quella di Franco.

    Il giovane anarchico, dopo un durissimo pestaggio, venne trasportato prima nella caserma dei carabinieri e poi nel carcere Don Bosco di Pisa. Il 6 maggio venne interrogato. Nel corso dell’interrogatorio gli contestarono soltanto una ipotetica invettiva e lui, dando prova di un candore che sfiorava l’ingenuità, si dichiarò anarchico.

    Dalle sue dichiarazioni: «Fui arrestato mentre scappavo. Mi giunsero addosso una decina di poliziotti e mi colpirono alla testa. Accuso forti dolori al capo ancora attualmente». Nonostante le sue condizioni non venne ricoverato ma messo in cella di isolamento. Il 7 maggio venne trovato privo di sensi nella sua cella; morì alle 9, 45 poco dopo essere stato trasportato al Centro Clinico del carcere. Nel pomeriggio dello stesso giorno le autorità del carcere cercarono di ottenere tempestivamente l’autorizzazione al trasporto e al seppellimento del cadavere, ma l’ufficio del Comune si rifiutò di concedere il benestare alla tumulazione. Fu allora che Luciano Della Mea decise di costituirsi parte civile e richiedere l’autopsia.

    L’avvocato Giovanni Sorbi così lo ricordava: «Un corpo massacrato, al torace, alle spalle al capo, alle braccia. Tutto imbevuto di sangue. Non c’era neppure una piccola superficie intoccata…».

    Il 9 maggio 1972 venne sepolto con una grande partecipazione popolare. Il discorso di commiato venne pronunciato da un anziano militante anarchico, Cafiero Ciuti.

    Sulla sua tomba, anche a distanza di anni, sventolavano sempre una bandiera rossa e una bandiera nera.

    Il 13 maggio 1972, dopo una grande manifestazione, venne deposta una lapide in suo ricordo all’ingresso di palazzo Tohuar, sede dell’istituto che aveva ospitato Franco. A Torino gli venne dedicata una scuola e nel 1979 sorse a Pisa la biblioteca – e poi casa editrice – che porta il suo nome. Nel 1982 in piazza San Silvestro, ribattezzata piazza Serantini, venne inaugurato un monumento in sua memoria donato dai cavatori di marmo di Carrara. Anche un noto alpinista – “Manolo” Zanolla – volle dedicargli una sua impresa: sulla parete Sud Ovest del Dente del Rifugio in Val Canali (Pale di San Martino) esiste una impegnativa via di roccia (6° +) intitolata appunto a Franco Serantini.

    Nonostante le indagini sulla morte del giovane anarchico finissero sepolte nei “non ricordo” degli ufficiali di PS presenti al fatto, la vicenda rimase a lungo ben presente nell’opinione pubblica grazie a una costante campagna informativa dei giornali anarchici (in particolare “Umanità nova”), del quotidiano “Lotta Continua” e dei comitati “Giustizia per Franco Serantini”. Fondamentale per conservare la memoria di questo ragazzo che credeva nella giustizia e nella libertà fu il libro di Corrado Stajano “Il sovversivo -Vita e morte dell’anarchico Serantini” pubblicato da Einaudi nel 1975. (**)

    A oltre mezzo secolo di distanza vorrei ricordarlo ritto in piedi tra il fumo dei lacrimogeni; piccolo grande guerriero armato solo di parole che si erge contro le ingiustizie del mondo mentre attorno a lui si addensano le ombre cupe dei massacratori senza volto.

    Gianni Sartori

    (*) Un’altra canzone su Franco Serantini la scrisse Pino Masi. Sulla stessa musica di «I dreamed i save Joe Hill last Night» (ricordate l’emozionante esibizione di Joan Baez a Woodstock nel 1969?) con precisi riferimenti anche nel testo, il cantautore di riferimento di Lotta Continua scrisse «Quello che mai potranno fermare» che è conosciuta anche come «Ho fatto un sogno questa notte». Talvolta viene confusa con quella scritta da Ivan Della Mea o con un’altra, sempre per Serantini, composta da Piero Nissim.

    (**) Questa vicenda ebbe anche un piccolo risvolto vicentino. La notizia della morte di Serantini arrivò in piazza dei Signori e venne ricordata in un intervento mentre si svolgeva una manifestazione a sostegno degli obiettori di coscienza che all’epoca venivano spediti direttamente nel carcere di Peschiera. Due obiettori, tra cui Matteo Soccio, dovevano consegnarsi alla polizia ma quando salirono sul palco nessuno si fece vivo. Vennero arrestati poco dopo, quasi di nascosto, mentre se ne stavano andando. La cosa suscitò un certo disappunto fra i presenti, scoppiarono tafferugli e due compagni, un padovano e un vicentino, vennero arrestati. Poi numerosi manifestanti si incamminarono verso la questura dove vennero pesantemente caricati. Non posso escludere che la notizia della morte ingiusta di Serantini abbia contribuito ad alimentare l’indignazione dei presenti. Oltre ai due fermati (rimasero in carcere per qualche giorno) vi furono vari contusi (tra cui il fotografo, allora militante anarchico, Giuliano Francesconi) e almeno due feriti abbastanza gravi: per Chiara Stella e per Francesco – non ne ricordo il cognome – la diagnosi fu di commozione cerebrale. Fra l’altro la carica venne ordinata direttamente, per telefono, dal ministro dell’epoca Mariano Rumor, vicentino. In quel momento si trovava nella “sua” città in visita ad un vecchio compagno di scuola. Due figli di questo amico di Rumor (in anni successivi militanti autonomi) erano presenti e raccontarono che arrivò una telefonata dalla questura. La risposta di Rumor fu lapidaria: “Caricateli!”. Poco cristianamente me molto democristianamente.

  3. Bomba nucleare tattica utilizzata dalla Turchia contro i curdi?

    (Gianni Sartori)

    In attesa della conferma o meno da parte degli esperti (sempre che la cosa interessi ai media internazionali), diamo anche questa pessima notizia.

    Usando il condizionale e il punto di domanda solo per scrupolo (forse eccessivo) e con buona pace dei “campisti” di nuova generazione.

    Come avevano già dichiarato in varie occasioni i responsabili del Quartier generale delle Forze di difesa del popolo (HPG) l’esercito turco avrebbe bombardato sistematicamente e ripetutamente (“centinaia, migliaia di volte”) la guerriglia curda a Zap, Avaşîn e Metina (Kurdistan del Sud).

    Con sostanze chimiche di ogni tipo e utilizzando inoltre bombe termobariche e bombe al fosforo.

    Mancava solo la bomba nucleare tattica. Stando a quanto denunciava due giorni fa Murat Karayılan (portavoce di HPG), i generali di Ankara avrebbero rimediato a questa dimenticanza.

    In questi giorni dall’agenzia di stampa Firatnews (ANF) sono state diffuse le immagini (realizzate dalla popolazione locale) di un attacco turco contro le postazioni curde a Martyr Delîl (a ovest di Zap) risalente alle 10h12 del 13 luglio. Un attacco che – stando all’agenzia – si sarebbe contraddistinto anche per l’impiego di una bomba nucleare tattica. L’onda espansiva dell’esplosione si è poi propagata in un’area molto ampia.

    Si ritiene che la Turchia ormai da anni si stia dando da fare per ottenere armi nucleari. Nel 2011 Ankara aveva firmato un accordo per un reattore nucleare con la compagnia russa ROSATAM per 20 miliardi .

    Aveva anche preso parte ad un altro progetto lanciato nel 2013 nell’ambito di una partnership nippo-francese del valore di 22 miliardi di dollari. Ufficialmente il governo turco ha sempre sostenuto che con questi accordi si voleva soddisfare il fabbisogno energetico del Paese. Ma – stando a quanto riferito dal servizio di intelligence tedesco BND – nel 2015 “la Turchia ha aperto le porte a un’opzione nucleare militare attraverso questi due progetti”.

    Secondo lo stesso rapporto, la Turchia avrebbe realizzato strutture per arricchire l’uranio e avrebbe iniziato a produrre polvere di concentrato di uranio chiamata “Yellowcake”. L’uranio se lo sarebbe procurato – illegalmente -tramite il Kosovo e la Bosnia Erzegovina. Comunque il maggior fornitore nucleare della Turchia rimane il Pakistan (quello tanto amato da turisti, alpinisti e sciatori d’alta quota nostrani), sospettato di vendere missili con testate nucleari al mercato nero. Stando ai rapporti di media arabi e indiani, Erdogan sarebbe sempre in buoni rapporti con il Pakistan (non solo per l’acquisto di testate nucleari, ovviamente).

    Il sito di notizie “zeenews.india.com” aveva riferito che nel dicembre 2020 le delegazioni militari pakistane e turche hanno tenuto colloqui per due giorni sulle vendite di armi nucleari. Ha inoltre riferito che i caccia F-16 dell’esercito turco, che sono stati modernizzati tra il 2015 e il 2018 con il supporto della NATO, sono stati modificati per trasportare missili nucleari (in attesa della ventilata fornitura di F-35).

    Tornando ai fatti qui denunciati del 13 luglio nel Kurdistan del Sud, pensiamo a cosa sarebbe accaduto di fronte anche solo all’ipotesi di un effettivo utilizzo da parte di Mosca in Ucraina di ordigni di tal genere. L’intervento diretto della NATO (di cui, ricordo la Turchia, fa parte) come minimo.

    Gianni Sartori

  4. A trent’anni dalla scomparsa, un ricordo del medico partigiano Sergio Caneva, di cui due fratelli perirono nei campi di sterminio.

    Morto durante una conferenza, come il prigioniero politico sudafricano Duma Kumalo

    A TRENT’ANNI DALLA MORTE, ONORIAMO LA MEMORIA DEL MEDICO-PARTIGIANO SERGIO CANEVA

    Gianni Sartori

    Quando mi era giunta la notizia della morte dell’amico Duma Joshua Kumalo (uno dei sei di Sharpeville), scomparso il 3 febbraio 2006 a CapeTown, durante una conferenza, la memoria mi era andata immediatamente alla vicenda analoga di Sergio Caneva.

    Due storie diverse, geograficamente lontane, ma forse complementari.

    Prigioniero politico nel Sudafrica dell’apartheid (anni ottanta) Duma raccontava di aver “passato sette anni in prigione e tre nella cella della morte, ho ottenuto la grazia dodici ore prima di essere impiccato. Soltanto oggi comprendo come questa esperienza abbia segnato la mia identità e sia alla base delle ferite e dei ricordi frammentari che compongono la mia storia personale”.

    Scampato alle forche dell’apartheid, Duma aveva letto molto sulle esperienze dei sopravvissuti all’Olocausto, cercando di trovare un senso, una spiegazione per le sofferenze inflitte da un sistema di sfruttamento, oppressione e razzismo istituzionalizzato. Voleva, come Primo Levi che talora citava, ricordare e testimoniare affinché l’orrore di quanto era accaduto non potesse ripetersi.

    Da molti anni lavorava senza sosta per il Khulumani survivor support group, un’associazione di aiuto per i sopravvissuti dell’apartheid, per coloro che avevano subito la brutalità del regime, aiutandoli a raccontare le loro esperienze.

    E spiegava: “Sono stato privato del diritto di essere felice il giorno in cui ho compreso cosa fosse l’apartheid. Mi sono messo alla ricerca e da quel momento ho dovuto scavare sempre più profondamente nel passato e provare ancora più amarezza. Quello che ho compreso non riguarda il dolore della morte, ma il dolore della mia vita. Confrontarsi con la morte è difficile, ma confrontarsi con la vita dopo aver visto in faccia la morte è ancora più difficile”.

    Era riuscito a farlo con grande dignità, come stanno a dimostrare la sua vita familiare, l’intensa attività culturale, le rappresentazioni teatrali con cui ha dato testimonianza delle ingiustizie subite dal suo popolo.

    Quel giorno, il 3 febbraio 2006, l’apartheid fece un’altra vittima. Il suo cuore generoso, infaticabile, segnato dalle sofferenze e dai ricordi, aveva ceduto durante una delle tante conferenze a cui veniva chiamato. Qualche settimana prima, al telefono, si era parlato del materiale (manifesti, volantini, fotografie di manifestazioni antiapartheid nell’Europa degli anni ottanta) che avevo spedito a Sharpeville per essere inserito nel museo appena inaugurato.

    In circostanze simili se n’era andato il 23 aprile del 1993 – a 73 anni – un altro amico, Sergio Caneva, medico e partigiano vicentino. Due giorni prima del 25 aprile durante una conferenza sulla Resistenza (nell’aula magna della scuola media di Cavazzale) in preparazione appunto della festa della Liberazione. Iniziativa organizzata dal prof Perini.

    Due tragedie avvenute senza preavviso. Una momentanea amnesia per Caneva che poi si era accasciato e – presumibilmente – un attacco cardiaco per Duma (con quel cuore generoso, martoriato dalle torture, dalle minaccia incombente della forca…). 

    Sergio Caneva, nato nel 1919 ad Arzignano, oltre che dirigente provinciale, era stato per anni consigliere nazionale dell’ANPI. Dopo l’8 settembre 1943, studente di medicina ed esponente del Partito d’Azione, prese “la strada dei monti” svolgendo una pericolosa attività clandestina come ispettore delle formazioni partigiane della Divisione “Pasubio”. Venne condannato dal regime di Salò a 30 anni (in contumacia) mentre due suoi fratelli venivano deportati nei campi di sterminio. Macabra coincidenza. I loro resti erano stati riportati in Italia soltanto un mese prima della sua scomparsa e non si può certo escludere che proprio quel rinnovato dolore lo abbia alla fine stroncato.

    Laureatosi nel dopoguerra, aveva inizialmente operato come chirurgo all’Ospedale Civile di Arzignano. in seguito, come psichiatra, aveva curato centinaia di persone (molte donne, spesso vittime di una mentalità retriva e maschilista diffusa nel Veneto “bianco”) all’ospedale psichiatrico di Vicenza, prodigandosi anche – nel tempo libero -per curare gratuitamente i diseredati.
    Fu tra i primi in Italia a studiare e applicare il metodo dei
    Gruppi Balint (ideato da Michael Balint, destinato ai medici e alle altre professioni di sostegno per la formazione psicologica nella “manutenzione del ruolo curante”) e anche, pionieristicamente, il “Training autonomo di Schultz” (una tecnica di rilassamento sviluppata dallo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz e utilizzabile anche autonomamente dal paziente per lenire ansia e depressione).

    Autore, oltre che di molte pubblicazioni scientifiche, del libro “Resistenza civile e armata nel Vicentino” (scritto con Remo Prenovi), si era dedicato alla testimonianza assidua di quel che avevano rappresentato i lunghi mesi della Resistenza antifascista attraverso un gran numero di conferenze (soprattutto nelle scuole).

    Ma, come aveva ricordato nell’orazione funebre, davanti a centinaia di persone, l’avvocato Lino Bettin (all’epoca presidente dell’ANPI vicentina) “quello che non potremo mai dimenticare di Sergio è la sua umanità nella comprensione degli altri. Il senso e il gusto quasi francescano della vita. Il disprezzo per la società consumistica, il sogno irrealizzabile della “città del sole”. E, ricordava a tal proposito Bettin che ne condivise l’esperienza, l’immenso “impegno umano, civile e politico” mostrato da Sergio in numerosi incontri internazionali (in particolare negli anni cinquanta e sessanta) in difesa della pace, della solidarietà tra i popoli. Oltre che della “giustizia sociale, della libertà reale”.

    Avevo avuto l’onore di conoscerlo nei primissimi anni settanta quando, se pur saltuariamente, partecipavo ai volantinaggi davanti al suo “posto di lavoro”, insieme ad un eterogeneo gruppo di libertari variamente assortiti. Dal fricchettone all’aspirante situazionista, dal “consiliare” all’anarchico vecchio stampo fino al giovane operaista incerto…anche se con un tratto comune, quasi tutti lavoratori – operai, facchini… – al massimo studenti-lavoratori. Per citarne alcuni (anche se purtroppo la maggior parte nel frattempo è “andata oltre”): Anna e Enrico Za, Laura Fornezza, Rino Refosco, Claudio Muraro, Gianni Cadorin, Stefano Crestanello, Mario Seganfredo, Giuliano Francesconi…). Almeno un trentina di volantini di denuncia vennero distribuiti con regolarità nel corso di un paio d’anni (1971-1972) ai familiari dei reclusi nel locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi, in epoca pre-Basaglia). Quasi una lotta d’avanguardia per chi magari non aveva ancora letto “La maggioranza deviante” (di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia), ma almeno era inorridito per le foto di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin in “Morire di classe” (con prefazione sempre dei coniugi Basaglia).
    Denunciando le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (“disadattati” secondo l’ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Alcuni volantini (fatto inusuale all’epoca) erano addirittura firmati con nome e cognome dai militanti.
    Dall’interno dell’Istituzione c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: appunto il compianto Sergio Caneva, fedele e coerente con la sua giovinezza partigiana.

    Per dovere di cronaca riporto quanto mi ha “rivelato” in seguito un militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista, Franco Pianalto). Ossia del ruolo fondamentale svolto sotto traccia nella controinformazione da suo cugino, un altro CANEVA, Sante (quasi omonimo del medico Sergio, ma non parente). Provenivano anche da lui, oltre che da Sergio, parte delle informazioni sulla vergognosa situazione igienico-sanitaria in cui versavano i reclusi. Per il suo impegno era destinato a subire angherie di vario genere (mobbing ante litteram?) che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, Sante Caneva in collaborazione con un altro sindacalista e socialista (un Sartori di cui si son perse le tracce) aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani”. In quanto i dirigenti non trovavano un accordo sui cucchiai (se dovevano essere di legno oppure di stagno, non è una barzelletta). D’altra parte questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato 68! A entrambi i due Caneva (Sante e Sergio) va reso quindi il dovuto onore.
    Oltre a provocare l’intervento delle autorità, i nostri volantinaggi suscitarono un certo interesse nell’opinione pubblica. Forse “i tempi erano maturi” o comunque all’epoca il livello di sensibilità e partecipazione sociale era sicuramente maggiore.
    La stampa locale (mi pare Il Gazzettino, forse anche il Giornale di Vicenza) spedì i suoi giornalisti a intervistare i dissidenti e nel dibattito intervenne (ugualmente con qualche volantino) anche il Sindacato, la CGIL.
    Chissà, forse poteva nascere qualcosa di buono: una reciproca “contaminazione” tra anime diverse, ma non antitetiche, della Sinistra.
    O almeno questo deve aver sperato il buon Sergio.

    Animato evidentemente da spirito ecumenico, oltre che dalle migliori intenzioni, Sergio organizzò qualche incontro (nella vecchia sede della CGIL) tra alcuni sindacalisti di area sia comunista che socialista e noi giovani esuberanti.
    Tra l’altro ricordo di aver incontrato per strada, mentre mi recavo alla prima riunione, alcuni militanti di Servire il popolo invitandoli senza problemi ad aggregarsi.Se i nostri interventi a favore di emarginati, lumpen etc (individuati, forse a torto,come le principali vittime del Sistema) avevano lasciato perplessi i sindacalisti, l’intervento di un maoista che raccontava di un loro compagno afflitto da problemi psichici, risolti (giuro!) grazie alla lettura quotidiana del Libretto Rosso, rischiò di stroncare sul nascere ogni possibile collaborazione.

    Un altro ricordo più personale. Visto che entrambi navigavamo in quella “terra di nessuno” che sta (meglio, stava) tra l’ortodossia leninista e le svariate eresie e derive di sinistra (tra situazionismo e bordighismo, tra Rosa Luxemburg, Victor Serge, Berneri… e i fratelli Rosselli) mi prestò un raro esemplare del libro di Azzaroni su “Blasco” (Pietro Tresso, comunista antistalinista) di cui allora, nonostante fosse nato a Magré di Schio, nel vicentino quasi non si parlava (solo negli anni ottanta, mi pare, uscirono un paio di biografie). Evidente rimozione di un soggetto scomodo. Se non ricordo male era quello originale, edito da Azione Comune, nella versione in lingua francese.
    Lo rividi credo per l’ultima volta verso la metà degli anni settanta a un incontro pubblico organizzato in quel di Verona dal Circolo La Comune e da Lotta Comunista. Per ascoltare proprio un altro storico “comunista dissidente”, l’ormai anziano Bruno Fortichiari. Capace di emozionarci quando esordì con “Quando il compagno Lenin mi diceva…”.
    Negli anni ottanta poi (mi pare nel 1987), casualmente, ci ritrovammo entrambi in lista con Democrazia Proletaria come “indipendenti”. Ovviamente brucia il rammarico di non averlo frequentato di più, ma anche la consapevolezza che averlo conosciuto (così come per Duma) è stato un onore.

    Gianni Sartori

  5. DOPO OLTRE UN SECOLO, IL POPOLO ARMENO ANCORA “SOTTO TIRO”

    Gianni sartori

    L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli Armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.

    C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
    Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.

    Non si può infatti escludere che dopo il NAGORNO KARABACH venga invasa anche la stessa ARMENIA.

    Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.

    I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato.

    Tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come avevamo ipotizzato anche qui:

    https://www.rivistaetnie.com/armeni-pe

    era perlomeno probabile.

    Il Nagorno Karabakh è (ormai era ) una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaigian. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

    Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

    Nella seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.

    Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

    In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).

    Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

    Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere “integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri”.

    Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa.

    Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120mila armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

    Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaigian  in materia di gas.

    Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK).

    Nel comunicato ha denunciato “la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio”.

    E il KNK ricordava anche le immagini terribili del 2020 con “i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri”.

    Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).

    Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

    Già nel 2020 l’Azerbaigian aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaigian di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra.

    Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – coincidenza – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

    Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse si s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

    Per il KNK comunque non ci sono dubbi “Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi”.

    E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: “Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche”.

    Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.

    Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni.

    Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

    Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars». 

    D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto.

    Mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

    Niente di nuovo.

    Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.

    Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale Hurriyet ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.

    Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista,quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdogan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del Paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

    Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan  chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

    Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia. 

    E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. E’ il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

    Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.

    Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno- Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

    In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera –  la proposta di uno Stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.

    A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).

    Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico. 

    A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.

    Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e –  discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.

    Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex URSS (russi e ucraini).

    Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.

    Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. 

    Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

    Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato OSCE) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.

    Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

    Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.

    Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata- partecipazione di militanti del PKK ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente). 

    Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche mini sommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo. 

    Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

    E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione  (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

    Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran.

    Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.

    Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i Paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

    Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che “l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan”.

    Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che “sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, nda) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione”.

    Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

    Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah. 

    A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.

    Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del XX secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani. 

    Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case. 

    Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Irak, Turchia e Siria e quelle in Iran.

    Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

    Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana. 

    Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.

    Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni. 

     Mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.

    Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele.

    Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan. 

    Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

    Insomma, il solito groviglio mediorientale.

    Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. 

    Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan. 

    E qualche briciola non di poco conto andava anche al nostro Paese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).

    Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

    Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente- soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili. 

    Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante).

    Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

    Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.

    Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il Parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita.

    I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

    Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere…intenda.

    Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

    Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo- Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la SOCAR (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche. 

    Con un diretto riferimento al gasdotto di 4mila chilometri che la SOCAR stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di Dan Donato Milanese, Saipem, ENI, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

    Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsanel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele. 

    Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David. 
    E appare anche credibile quanto divulgato dai servizi segreti dell’Esagono. Ossia che nell’ultimo conflitto (l’aggressione del settembre 2023) l’intervento di Israele a favore di Baku sarebbe stato ancora più consistente. Sia fornendo mezzi militari (droni, ma non solo) sia a livello di intelligence con il ruolo assunto dallo stesso Mossad.

    Un bel caos geopolitico comunque.

    E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.

    Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suoIsraele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave anti-iraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

    O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel 17° secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.

    Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

    Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il Presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il Primo Ministro Nikol Pashinyan, il Presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.

    Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.

    Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).

    Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

    Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
    Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
    Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120mila persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

    Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
    Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che “le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo”.
    “Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso”, aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh.
    Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

    E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.

    Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai sono presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se “si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?”.

    Domanda retorica ovviamente.

    A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.

    Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.

    Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane.

    Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente –  a terra a causa della fame.

    Almeno 120mila persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).

    Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas.

    Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua.

    A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.

    Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

    Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.

    In pratica, un grande campo di concentramento.

    Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni novanta.

    E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.

    Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaigian, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.

    Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

    Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.

    Gianni Sartori

  6. OCEANIA INQUIETA:

    PROTESTE IN NUOVA CALEDONIA E ANCORA SANGUE IN PAPUA NUOVA GUINEA

    Gianni Sartori

    Forse quella di Gérald Darmanin (ministro francese dell’Interno e dell’Oltre-Mare) a Kanbaly (Nuova Caledonia) non era una visita particolarmente gradita agli indipendentisti.

    Il 21 febbraio i militanti della Cellule de coordination des actions de terrain (CCAT, composta da movimenti e sindacati favorevoli all’autodeterminazione: PT, MOI, UC, USTKE… ) avevano sfilato pacificamente a Noumea per protestare contro il progetto (già ufficialmente annunciato) di sbloccare il corpo elettorale provinciale. Ma ben presto la manifestazione era degenerata e – dopo il tentativo di raggiungere la sede dell’alto-commissariato – scoppiavano scontri con le forze di polizia (tra rue Anatole-France e Rue Général-Mangin dove erano stati schierati in gran numero camion militari).

    Alla fine si sono registrati cinque arresti e numerosi feriti, in particolare tra le forze dell’ordine.

    In cosa consisterebbe il previsto “scongelamento” – l’apertura – del corpo elettorale provinciale?

    In base agli accordi di Noumea (firmati nel 1998) il diritto di voto spetta soltanto alle persone iscritte nelle liste elettorali prima del 1998. Ritenendo tali restrizioni “poco democratiche” il governo francese intende aprire sia ai nativi caledoniani dai 18 anni in su, sia alle persone presenti nell’arcipelago almeno da dieci anni. Con un aumento previsto di circa 25mila elettori.

    Nel giorno immediatamente successivo, con un comunicato, i responsabili della CCAT hanno condannato i disordini e le violenze. Anche se – denunciano -sono stati “provocati da chi voleva impedire la consegna delle nostre richieste al ministro”.

    Infatti l’intenzione degli organizzatori della protesta pacifica (i quali denunciano di essere finiti in una “trappola”) era soltanto quella di consegnargli direttamente una richiesta per il ritiro del decreto di legge.

    Da parte sua l’organizzazione Loyalistes (una coalizione di partiti di destra anti-indipedentisti, sorta nel 2020 e diventata nel 2022 Rassemblement au Congrès de Nouvelle-Calédonie ) ha forzatamente evocato l’immagine di una città “messa a ferro e fuoco, saccheggiata” sostenendo che le violenze erano state previste e organizzate. Arrivando a chiedere la dissoluzione della CCAT.

    Inevitabile un pensiero per Louise Michel che, sfuggita ai massacri della “Semaine sanglante” (dopo la caduta della Commune di Parigi) venne deportata in Nuova Caledonia. Tra l’altro durante il viaggio sulla Virginie completò la sua evoluzione politica transitando definitivamente dal blanquismo all’anarchismo.Louise non solo si interessò della lingua, delle tradizioni, dei miti e della musica degli indigeni, ma si schierò apertamente al loro fianco quando i Canachi si sollevarono. Paragonandolo la loro rivolta a quella della Commune del 1971 e donando agli insorti un simbolica bandiera rossa (anche se al momento del dibattito su quale bandiera utilizzare a Parigi nel 1971 Louise pare si fosse schierata con la minoranza che voleva quella nera).

    Una vera eccezione la sua, dato che anche la comunità degli ex comunardi qui deportati alla fine si era allineata alle posizioni delle autorità francesi.

    Per tornare ai giorni nostri, molto peggio quanto sta avvenendo in Papua Nuova Guinea dove una settimana fa decine di persone (le cifre ufficiali parlano di una trentina di vittime, altre fonti di una settantina) sono state assassinate nella provincia di Enga nel corso di un’imboscata. Questa regione di altopiani (conosciuta come Highlands e dove da alcuni mesi vige il coprifuoco) è da tempo martoriata da uccisioni e scontri presumibilmente legati al controllo delle terre da parte di una ventina di tribù. Un conflitto reso ulteriormente sanguinoso dalla recente diffusione delle armi da fuoco. Il tutto in un generale contesto di crisi sia economica che sociale.

    Del resto quest’anno le violenze non hanno risparmiato nemmeno la capitale. Qui il 10 gennaio sono state ammazzate almeno 22 persone. Tanto che il governo australiano (forse preoccupato per i i suoi investimenti in Papua Nuova Guinea) ha offerto il proprio sostegno per garantire la sicurezza nell’isola, in particolare per l’addestramento delle forze di polizia locale.

    Gianni Sartori

  7. “La terra ci reclama” recita una poesia basca. E fatalmente, prima o poi tutti dobbiamo risponderle. Ormai la lista di amici, compagni etc “andati oltre” è pressoché infinita. Per restare solo nella penisola iberica, tra quelli da me conosciuti: Eva Forest (autrice di “Operazione Ogro”), Gorka Martinez (Ufficio Esteri di HB), Manex Goyhenetche (sez. Basca della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli), Marc Palmés (avvocato catalano del TXIKI), Pepe Rei (giornalista gallego di Egin)…

    E ora se ne è andato anche Aureli Argemì. Un libertario, un antifascista, un pilastro del Diritto all’autodeterminazione dei popoli, non solo di quello catalano ovviamente.
    Vorrei ricordarlo con questa antica intervista: che la terra gli sia lieve.

    INTERVISTA CON AURELI ARGEMÌ

    “CENTRE INTERNACIONAL ABAT ESCARRÈ PARA A LES MINORIE ETNIQUES I LES NACIONS”

    (1987)

    Anche durante il franchismo la Chiesa seppe difendere la cultura e i diritti del popolo catalano. Alcuni monasteri, in particolare Montserrat, divennero il riferimento, la “casa aperta” per molti oppositori. Per non parlare delle coraggiose prese di posizione di alcuni religiosi come Mossén Pon Rovira e Mossén Carreras, durante gli ultimi anni della dittatura quando Franco (già moribondo) ordinava ancora di garrotare e fucilare giovani guerriglieri baschi e catalani.

    Agli inizi degli anni suscitò un certo clamore la richiesta, fatta dal Vescovo di Solzona, di una Conferenza Episcopale catalana separata da quella spagnola.

    Una figura assai rappresentativa di questo atteggiamento della Chiesa catalana è Aureli Argemì, segretario generale e fondatore del CIEMEN e figura carismatica del moderno catalanismo.

    Lo abbiamo incontrato nella sede del “Centre Internacional Abat Escarrè Para A Les Minorie Etniques I Les Nacions”, Pau Claris 106, Barcelona.

    CI PUÒ DIRE BREVEMENTE COS’È IL CIEMEN, COME E DOVE È NATO, COME SI SOVRAPPONE CON LA SUA STORIA PERSONALE?

    La fondazione del “Centro internazionale Abate Escarré sulle minoranze etniche e nazionali” risale 1l 1975. All’epoca mi trovavo in Italia, esiliato. Proprio a Milano, nel 1976, abbiamo cominciato a pubblicare un bollettino che diventerà poi la nostra prima rivista: “Minoranze”. Ne vennero stampati 17 numeri, fino alla sospensione delle pubblicazioni per ragioni economiche. Ricordo tra l’altro che abbiamo parlato della fondazione della “Lega per i diritti e la liberazione dei popoli” e pubblicato lo Statuto della Lega stessa.

    Con la morte di Franco abbiamo potuto trasferire tutta l’attività del Centro a Barcellona conservando comunque molti rapporti con l’italia a cui mi sento ancora molto legato. Questo naturalmente non solo perché vi abbiamo fondato il “Ciemen”, ma in particolare per i molteplici e costanti contatti che manteniamo con quelle realtà che in Italia chiamate minoritarie e che noi preferiamo definire “minorizzate”.

    QUAL È ATTUALMENTE LO “STILE” DEL VOSTRO INTERVENTO, QUALI SONO LE VOSTRE PROPOSTE POLITICHE?

    Il “Ciemen”, come dicevo, ha Barcellona come nucleo più attivo, ma è un Centro internazionale.

    Si occupa quindi principalmente dei rapporti a livello internazionale tra i popoli oppressi di tutto il mondo, con un interesse particolare per i popoli d’Europa. Attualmente abbiamo una rete di contatti che ci permettono non soltanto di pubblicare riviste, raccogliere informazioni direttamente sul luogo ecc., ma anche di organizzare convegni, seminari internazionali.

    In questo momento (1988, Nda) stiamo lavorando ad una organizzazione che è nata dal “Ciemen” ma che non è il “Ciemen”, è una iniziativa molto più vasta, consistente, a cui abbiamo dato il nome di “Conseo”, sarebbe come dire “Conferenza delle Nazioni”, una conferenza permanente delle Nazioni senza Stato dell’Europa occidentale. E’ un organismo che si propone di intervenire costantemente in tutti quei dibattiti in corso sui popoli minorizzati dell’Europa.

    L’assemblea costituente risale a qualche anno fa e nell’88 si è tenuta una seconda assemblea per discutere soprattutto dei problemi relativi ai diritti collettivi dei popoli.

    In pratica fu il nostro contributo a tutti i preparativi per il secondo centenario della Dichiarazione dei diritti umani individuali. Il nostro obiettivo (a cui stiamo lavorando con diversi altri gruppi) è quello di presentare una Carta dei diritti collettivi dei popoli.

    Il nostro impegno è di promuovere, diffondere a livello europeo i risultati delle nostre ricerche, dei nostri studi in proposito. Recentemente abbiamo organizzato dei convegni sul “diritto all’autodeterminazione in Europa”, pubblicando anche due volumi che ritengo fondamentali per affrontare il problema.

    Il Ciemen quindi svolge innanzitutto un lavoro di ricerca per poter intervenire puntualmente in difesa dei diritti collettivi dei popoli sia a livello dei mezzi di comunicazione che in convegni, conferenze, dibattiti. Ci interessa particolarmente sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di tutti quei problemi interni dell’Europa che secondo noi andrebbero letti nell’ottica del colonialismo e della discriminazione.

    Certo è più facile vedere come questi problemi esistano in altre parti del mondo, ma il più delle volte quando si manifestano in Europa non si analizzano nello stesso modo e si cercano giustificazioni ideologiche per problemi rimasti da sempre irrisolti. Invece il problema dei popoli minoritari è comune praticamente a tutti gli stati europei (esclusi il Portogallo e l’Islanda). Noi cre-diamo che un giorno si arriverà a risolvere questi problemi che sono problemi umani basilari e probabilmente sarà l’Europa stessa, nel suo insieme, a trarne vantaggio. Per questo noi lavoriamo per costruire non l’Europa degli Stati, ma l’Europa dei Popoli, delle Nazioni.

    QUAL’ERA LA SITUAZIONE DELLA LINGUA E DELLA CULTURA CATALANE DURANTE IL FRANCHISMO? QUAL È ATTUALMENTE? E’ POSSIBILE UN CONFRONTO? COSA HA COMPORTATO DA QUESTO PUNTO DI VISTA LA ‘‘TRANSIZIONE”??

    Durante il franchismo la lingua catalana (e con la lingua anche la cultura) era semplicemente vietata; non si poteva insegnare, non si poteva usare in pubblico, non era ovviamente presente nei mezzi di comunicazione. Questo comunque non è stato un fatto esclusivo del franchismo ma rientra nella tradizione politica di ogni governo centralista nei riguardi della Catalogna. Infatti la persecuzione della lingua catalana cominciò nel 1714, quando la monarchia borbonica, grazie agli eserciti spagnolo e francese, arrivò a dominare i Paesi catalani.

    Da quel momento si fece tutto il possibile per far dimenticare ai Catalani di essere tali. Cominciò allora una vera e propria persecuzione che si concretizzò in momenti più o meno forti di repressione. Ad un certo momento, nell’800, mentre in tutta l’Europa si stava elaborando una nuova cultura legata al principio dello Stato-Nazione (v. le grandi politiche di unificazione ecc.) in Catalogna, con la rivoluzione industriale, si sviluppò una nuova borghesia che difendeva la lingua e la cultura come elementi importanti di affermazione della propria identità, non ancora o non completamente in senso nazionale ma almeno come popolo distinto. In molte altre zone d’Europa questa è stata la premessa per la creazione di nuovi Stati. Qui invece, per tutta una serie di circostanze, la borghesia non è riuscita a creare un nuovo Stato, uno Stato catalano, ma soltanto a favorire la rinascita (un rilancio molto forte) della lingua e della cultura, in sintonia comunque con gli analoghi processi di tutta Europa.

    Questa coscienza della propria identità ha avuto un ruolo molto importante durante quasi un secolo in cui si sono alternati periodi di persecuzione con altri di tolleranza. Un periodo particolarmente duro è stato quello della prima dittatura, dal 1923 al 1929, seguito da un periodo di segno diametralmente opposto.

    Con la nascita della Repubblica spagnola il catalano diventa la lingua ufficiale della Catalogna.

    Già durante la guerra il franchismo aveva capito con molta chiarezza che bisognava fare tutto il possibile contro tutte le lingue e le culture diverse da quella ufficiale, ossia dallo spagnolo. Comunque già durante la dittatura, soprattutto durante gli ultimi anni, erano sorti molti organismi clandestini che portavano avanti una difesa molto coraggiosa della lingua e della cultura. Fra questi vanno ricordati prima di tutto quelli legati alla Chiesa catalana che ha lottato sia contro il franchismo che in difesa della nostra identità.

    Fra i grandi esponenti della Chiesa catalana vi è appunto l’Abate Escarré, espulso da Franco e vissuto in Italia dal 1965 al 1968, fino al giorno della sua morte. Allora io ero il suo segretario e lo seguii restando in Italia alcuni anni.

    PUÒ SOFFERMARSI SULLA SUA PERSONALE ESPERIENZA A RIGUARDO?

    Come ho detto, anch’io provengo da quel baluardo della lingua e della cultura catalana che è stato ed è il monastero di Montserrat e anch’io fui espulso dalla Spagna franchista con un gruppo di monaci per ragioni politiche. Ho trascorso il mio esilio parte in Italia e parte nel sud della Francia, vicino alla frontiera, in quella che noi chiamiamo Catalunya nord.

    Qui ho trascorso gli ultimi anni del franchismo (mantenendo comunque sempre rapporti anche con l’Italia) avendo la possibilità di continuare a rapportarmi con la realtà catalana.

    E TORNANDO ALLA DOMANDA PRECEDENTE…?

    Dicevo che alla morte di Franco esistevano già le premesse, una realtà di base creata da tutta la resistenza democratica, per lavorare in favore della lingua e della cultura catalana. Nel 1978 con la nuova Costituzione spagnola veniva garantito, almeno teoricamente, il rispetto di tutte le diverse realtà culturali e linguistiche.

    Lo statuto di Autonomia per la Catalogna è del 1979. In questo statuto viene detto chiaramente che la lingua propria della Catalogna è il catalano, lingua ufficiale insieme allo spagnolo.

    Questa affermazione è molto importante, basilare (benché sia anche un po’ confusa, contradditoria nell’affermare che vi sono due lingue ufficiali).

    A partire da allora il catalano è stato la lingua delle istituzioni catalane, la lingua obbligatoria nelle scuole, la lingua da introdurre nei mezzi di comunicazione di massa.

    In realtà la lingua catalana si trova ancora in una situazione, direi, di inferiorità sia nel campo amministrativo che in quello dell’insegnamento. Infatti le leggi spagnole non consentono ad un governo autonomo di esercitare tutte le competenze e nelle scuole molti insegnanti non sono catalani. Di conseguenza le scuole dove tutte le lezioni si svolgono in catalano sono inferiori di numero rispetto a quelle dove si fa tutto in spagnolo.

    Benché il catalano sia formalmente obbligatorio in tutte le scuole non si può certo dire che tutte le scuole facciano tutto in catalano.

    Questo si nota particolarmente a livello universitario dove si può scegliere tra spagnolo e catalano e si finisce col fare quasi tutto in spagnolo (significativa in proposito come “inversione di tendenza” l’esperienza, recente ma ricca di prospettive, in atto presso l’Università di Valencia).

    Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione abbiamo in questo momento un canale televisivo i cui programmi sono tutti in catalano. Gli altri canali pubblici sono spagnoli, ma hanno l’obbligo di trasmettere per qualche ora al giorno in catalano. Possiamo dire che la proporzione è ancora favorevole allo spagnolo anche se il catalano sta recuperando terreno a diversi livelli (1988, Nda). Questa per noi non è ancora la situazione ottimale, ma si assiste ad un processo di normalizzazione linguistica che valutiamo positivamente.

    IL VOSTRO CENTRO È DEDICATO ALLA MEMORIA DELL’ABATE ESCARRÉ: QUAL È STATA LA SUA POSIZIONE DURANTE IL FRANCHISMO?

    L’abate Escarré è stato abate di Montserrat. Storicamente il monastero di Montserrat è sempre stato , in modo particolare durante il franchismo, la casa aperta a tutti i movimenti democratici del paese. L’abate Escarré ha preso posizione molto duramente contro il franchismo soprattutto su due aspetti: prima di tutto sul fatto che il franchismo ostentava la bandiera del cattolicesimo come difesa della propria ideologia. L’abate Escarré ha detto chiaramente e pubblicamente che questo era un modo per nascondere tutto quello che di anticristiano faceva il regime. Accusava il regime di essere una dittatura. D’altro canto l’abate Escarré è stato anche l’esponente più importante del mondo della Chiesa a difendere i diritti dei catalani alla propria lingua, alla propria cultura, alla propria identità.

    E anche questo pubblicamente, fino al giorno della sua espulsione.

    QUALI SONO GENERALMENTE I RAPPORTI TRA IL POPOLO CATALANO E GLI IMMIGRATI? E QUALI SONO I VOSTRI RAPPORTI CON GLI ALTRI POPOLI DELLA PENISOLA IBERICA (BASCHI, GALLEGHI, ANDALUSI, GITANI…)?

    Premetto intanto che l’area linguistica catalana non è limitata soltanto alla Catalunya, ma che dobbiamo considerare anche il Paese Valenziano e le Isole Baleari (per cui si parla di Paisos Catalans, PP.CC., Nda). La situazione linguistica e culturale è diversa in ognuna di queste tre regioni dei Paesi Catalani.

    La Catalunya, essendo un paese altamente industrializzato, è particolarmente interessata dal fenomeno dell’immigrazione. Si tratta generalmente di immigrati dalle zone del sud della Spagna, soprattutto andalusi.

    Attualmente sono più di un milione. Ovviamente questo ha creato il problema non indifferente della integrazione degli andalusi.

    Durante il franchismo questa integrazione avveniva quasi spontaneamente, nel senso che quelli che difendevano la lingua e la cultura catalane erano automaticamente antifranchisti, a favore della democrazia. A quel tempo quindi gli andalusi arrivati nel nostro paese si integravano facilmente, senza conflitti.

    Soltanto in seguito, quando alcuni partiti politici hanno cominciato a sostenere che in Catalunya esistevano due lingue e due culture, molti di loro hanno assunto un atteggiamento di rifiuto nei riguardi dell’integrazione. In questo momento non stiamo ancora assistendo ad una “guerra linguistica e culturale”, ma ci troviamo in una situazione che definirei di conflitto latente; non è la situazione normale che poteva esistere, almeno apparentemente, in periodi anteriori.

    La nostra politica, quella che vogliamo continuare a portare avanti, è di non creare ulteriori conflitti, ma di impegnarci per la maggiore integrazione possibile degli immigrati.

    Naturalmente c’è ancora molto da fare dato che qui attualmente si stanno parlando due lingue. Devo anche dire che si va diffondendo un nuovo atteggiamento, prima sconosciuto: molti immigrati si rifiutano semplicemente di imparare il catalano.

    In questo momento praticamente tutti (o comunque la stragrande maggioranza) lo capiscono. Una inchiesta realizzata alla fine del 1987 ha confermato che il catalano viene compreso dal 90% dei catalani, da coloro che abitano in Catalogna; questo è ovvio dato che è una lingua neolatina, facilmente comprensibile anche da chi parla castigliano.

    Concludendo: il problema non è di facile soluzione, ma è possibile intravedere un processo che permetterà di arrivare ad una intesa, a superare questa divisione che si potrebbe creare tra i catalani di origine e quelli delle più recenti immigrazioni. –

    Quanto alla seconda parte della domanda possiamo dire che noi catalani ci sentiamo molto legati a tutte le lotte del popolo basco e del popolo gallego. La nostra condizione è comune: noi abbiamo una lingua e una cultura oppresse e quindi abbiamo più simpatia per coloro che lottano per difendere la propria identità.

    Ma non ci fermiamo a questo: attualmente c’è una grande solidarietà anche con le lotte sociali che si stanno portando avanti in Andalusia. Da noi come ho detto ci sono molti immigrati andalusi. Molti di loro tornano nella loto terra con una nuova coscienza della loro identità.

    Questo crea una simbiosi, una premessa al reciproco riconoscimento e alla difesa della nazione catalana e di quella andalusa, qualcosa di simile al rapporto che qui si vive con gli altri popoli della penisola iberica.

    INTENDE DIRE CHE L’IMMIGRAZIONE HA FAVORITO INDIRETTAMENTE NEGLI ANDALUSI UNA MAGGIORE COSCIENZA DELLA LORO CONDIZIONE DI OPPRESSI DA PARTE DELLO STATO SPAGNOLO?

    Si, proprio così. Non si può ancora considerarlo un fenomeno generalizzato, ma noi, per esempio, stiamo da tempo collaborando con gruppi di immigrati legati a movimenti che lottano per affermare una differenza degli andalusi rispetto al resto della penisola. Questo è molto importante perché riporta in superficie la realtà sociale autentica della penisola iberica; inoltre indebolisce tutte le tendenze nazionaliste-scioviniste che esistono al centro, a Madrid, quelle cioè portate avanti dal governo.

    Noi abbiamo avuto sempre, storicamente, come nemico, come avversario principale, il centralismo. In questo momento, proprio perché ognuno dei popoli che costituiscono questa penisola sta prendendo coscienza, sta maturando non solo una aspirazione all’autonomismo, ma qualcosa che io credo ci potrà portare molto più in là. Per esempio sia in Catalogna che nei Paesi Baschi si sviluppa, ogni volta più profonda, una coscienza europea, la consapevolezza che i nostri problemi non passano per Madrid, non si devono risolvere a Madrid, ma in un ambito molto più grande, a livello europeo.

    Tutti noi ci sentiamo molto più europei che spagnoli.

    CI SONO STATI DEI PROBLEMI (LO CHIEDO PENSANDO AI PROBLEMI CHE HANNO AVUTO IN PROPOSITO GLI IRLANDESI) A STRASBURGO PER QUANTO RIGUARDA LA LINGUA?

    Naturalmente. Premetto che, per certi aspetti, la situazione del catalano e della cultura catalana nell’Europa comunitaria si trova in una situazione direi privilegiata. Ossia, noi abbiamo una lingua minorizzata, ma la nostra lingua è più parlata, più usata di alcune lingue che sono ufficiali. Il nostro livello di produzione letteraria, di insegnamento, di modernizzazione ecc. è paragonabile al greco, al portoghese e al danese, lingue di tre paesi che fanno parte della comunità europea.

    Il nostro attuale obiettivo è pertanto quello di far sì che le istituzioni europee accettino il catalano come lingua ufficiale, almeno in linea di principio, perché poi ci sarebbero problemi pratici, quali le traduzioni.

    Questa richiesta è stata portata avanti dai nostri movimenti in ogni occasione direttamente a Strasburgo. Nel mese di ottobre del 1987 una folta delegazione popolare catalana è andata a Strasburgo.

    Qui, dopo le manifestazioni, abbiamo presentato un documento chiedendo che la lingua catalana diventi ufficiale. Personalmente ritengo che l’accoglienza sia stata molto positiva.

    Questo documento era stato firmato da circa centomila persone e tutti i deputati catalani eletti al Parlamento europeo lo hanno sottoscritto, nessuno escluso.

    Su questo c’è stata completa unanimità, indipendentemente dagli schieramenti di appartenenza. Inoltre siamo stati ricevuti dal Presidente del parlamento europeo che ci ha detto testualmente come noi avessimo il pieno diritto di chiederlo (questo naturalmente non vuol dire che la risposta sarà positiva). In ogni caso questo movimento che ha una larga base sociale ci autorizza a sperare che un giorno anche il catalano sarà lingua ufficiale a Strasburgo.

    Naturalmente noi vogliamo lo stesso anche per tutte le altre lingue; non difendiamo il catalano perché lo consideriamo espressione di una cultura “superiore”, migliore delle altre lingue minorizzate, ma perché crediamo che soltanto con il rispetto della diversità linguistica e culturale si potrà costruire un’Europa dei popoli.

    LEI HA FATTO UN’ANALOGIA CON QUELLO CHE SUCCEDE NEI PAESI BASCHI. IN CHE MODO E IN CHE MISURA LA DIFESA DELLA VOSTRA IDENTITÀ E LA LOTTA PER L’AUTODETERMINAZIONE HANNO FRENATO QUEI TIPICI FENOMENI DI DISGREGAZIONE CULTURALE E SOCIALE CHE SONO CARATTERISTICI DELLE MODERNE SOCIETÀ OCCIDENTALI (V. LA DIFFUSIONE DELLA DROGA TRA I GIOVANI…)?

    Io direi che il fenomeno della droga, che pure qui è piuttosto diffuso, finora non è stato un elemento decisivo per la disgregazione del tessuto sociale catalano, almeno non sul piano della lotta per l’affermazione nazionale. Sono invece intervenuti altri elementi: innanzitutto si è diffusa tra la gioventù una mentalità molto pragmatica, molto individualistica per cui non vi sono grandi ideali; questi vengono considerati utopistici, irraggiungibili.

    Da questo punto di vista rileviamo nella gioventù un diffuso disinteresse per i problemi fondamentali, come la difesa dei diritti umani, individuali e collettivi.

    Tutto questo è naturalmente in rapporto con la diminuita sensibilità politica. Non direi comunque che la droga sia stata una delle cause principali.

    Intervengono molti altri fattori, soprattutto in una situazione in cui la disoccupazione è piuttosto alta. Gran parte della gioventù non trova lavora e questo genera angoscia. E questa angoscia, questo senso di insicurezza vengono sicuramente usati, manipolati affinché i giovani siano distolti da altri problemi più ideali.

    (1) Nota: questa intervista risale alli anni 80; da allora ovviamente anche nei PP.CC. è prevalsa l’immigrazione dai paesi extraeuropei, in particolare dal Nordafrica

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