Note sul suicidio

Quando ci si uccide, spesso lo si fa per colpire un nemico:

  • la propria morte per punire qualcuno che si odia e nei cui confronti ci si sente impotenti;
  • la propria morte per uccidere una parte interna che opprime il soggetto e gli impedisce di formulare un progetto evolutivo.

I propositi di suicidio aumentano via via che il soggetto subisce la perdita delle sue funzioni e si trova a vivere in un presente senza progetti attendibili, senza un futuro nel quale riconoscersi. Il suicidio è un tentativo estremo di mantenere una propria libertà decisionale quando tutto sembra deciso da altri. Al nemico esterno il suicida dice: “Tenetevi pure il corpo ch’è diventato vostro, io me ne vado“;  al nemico interno: “Non ti permetterò di portare avanti la tua tortura“.

In Italia la legge prevede che la pena debba tendere al recupero del condannato, ma in carcere muoiono ogni anno per suicidio una cinquantina di persone, una percentuale molto più alta della media nazionale. Uno Stato che non prevede la pena di morte, ma che d’altra parte mantiene condizioni nelle quali un numero così alto di detenuti si dà la morte, fallisce nel proprio obiettivo e, in un certo senso, opera in direzione opposta a quella che persegue.

A volte i bambini, non sapendo come farsi valere o riconoscere, picchiano la testa contro il muro per protestare contro i genitori; la loro fantasia è che farsi del male equivalga a scagliare la propria rabbia contro un capitale di proprietà dei genitori: il bambino lo attacca e aggredisce se stesso per punirli! In carcere accade spesso che un detenuto si procuri tagli su tutto il corpo così da richiedere a volte anche più di cento punti di sutura: lo si fa per chiedere ascolto, ma molto spesso anche solo per “punire” chi non ascolta.

A volte si pensa che un ambiente fisico più vivibile possa giovare alla prevenzione del suicidio, ma le sue cause principali non sono le difficoltà ambientali o la carenza di spazi; ci si suicida perché il rancore verso gli altri e verso se stessi riduce lo spazio interno e le spinte creative personali e annienta progressivamente la fiducia che ci possa essere un diverso domani.

Di fronte al suicidio, l’istituzione spesso reagisce tentando di intensificare il controllo, ma il controllo è una delle cause del suicidio. Impedire all’aspirante suicida la possibilità di portare a compimento il suo proposito non equivale a bonificare le fantasie di auto soppressione. Investire energie e soldi sul controllo è fatica sprecata, tanto più se si considera che hanno breve durata. Meglio investire su iniziative utili ad alimentare la volontà di vivere!

Il suicidio si previene con un ambiente che restituisca alla persona la possibilità di esprimere la propria rabbia verso gli altri e verso se stessi e con dei mezzi e delle attività che permettano di recuperare la fiducia in sé e nelle proprie potenzialità.

Infine, di fronte alla irreparabilità di una morte oramai avvenuta, è utile ricordare che ci si suicida in un momento, ma ci si toglie lo spazio per vivere a poco a poco. E’ doveroso per le istituzioni e per il soggetto mettere a fuoco che al suicidio si giunge solo come momento finale di un percorso, una serie di gradini che si salgono o si scendono a seconda del modo di procedere sia del soggetto sia dell’ambiente in cui egli vive.

Al Gruppo della Trasgressione il tema del suicidio è stato più volte oggetto di dibattito e di scritti. Nel 2003 il dott. Luigi Pagano, allora direttore di San Vittore, propose al gruppo di svolgere per un certo periodo la funzione di Peer support nelle celle a rischio e qualche anno fa la dott.ssa Manzelli, direttrice del carcere di San Vittore, aveva invitato il gruppo a partecipare a un convegno sul tema del suicidio per dire la propria. In entrambi i casi molti detenuti del gruppo seppero farsi onore.

Credo che i detenuti possiedano un capitale di conoscenze che merita di essere valorizzato e sfruttato, meglio se in progetti da portare avanti in collaborazione con le autorità istituzionali.

Non è necessario che i progetti abbiano espressamente a che fare con il suicidio; L’esperienza dice che qualsiasi progetto costituisce un’ottima prevenzione per il suicidio e un buon antidoto alla rabbia incendiaria che il tempo del carcere di solito non spegne.

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Incontro sul suicidio

L’incontro di mercoledì 3 novembre 2010, avvenuto nella Casa di Reclusione di Opera, ha permesso a 14 detenuti provenienti da 3 diverse aree del Gruppo della Trasgressione di riflettere insieme sul tema del suicidio. E’ doveroso, oltre che motivo d’orgoglio per tutto il gruppo, riferire che le riprese TV sono state possibili grazie alla professionalità del dott. Mimmo Spina, alla volontà del dott. Luigi Pagano, Provveditore regionale della Lombardia, del dott. Giacinto Siciliano, direttore del carcere di Opera, del capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dott. Franco Ionta.

I membri del Gruppo della Trasgressione presenti erano: Francesco Ranieri, Rosario Giuliano, Alessandro Crisafulli, Mullah Genti Arben, Salvatore Morabito, Giuseppe Carnovale, Antonio Tango, Giovanni Crisiglione, Antonio Catena, Bruno De Matteis, Massimiliano De Andreis, Gualtiero Leoni, Gabriele Tricomi.

I protagonisti della giornata, a due settimane dall’incontro, rimangono fieri di essersi impegnati, di aver saputo integrare i loro interventi (essendo membri di gruppi diversi, molti di loro si vedevano per la prima volta quel giorno), di aver potuto vivere un’esperienza non comune: collaborare con le forze istituzionali per un obiettivo che ha permesso facilmente di abbattere i confini di categoria.

Riassumendo, i detenuti hanno detto che il suicidio:

  • è l’ultimo atto di un percorso nel quale si riduce gradualmente la possibilità di guardare con fiducia al proprio domani;
  • è la fuga per la libertà da una tortura sempre più insopportabile, pur se condotta dal soggetto ai danni di se stesso;
  • è favorito dalla difficoltà di tollerare, con la consapevolezza dell’oggi, la viltà del proprio passato, a maggior ragione quando la persona sente di aver perso la possibilità di rinnovarsi e vive un senso d’oppressione così invalidante da volerne fuggire ad ogni costo.

Il Gruppo della Trasgressione, dopo mesi di confronto sul tema, conclude che, in un grande numero di casi, il suicidio può essere inteso come l’atto finale di una tirannia esercitata per anni ai danni di se stessi, un gesto con cui l’oppressore e l’oppresso raggiungono un accordo paradossale e drammatico: attuare il volere del tiranno e, allo stesso tempo, sottrarsi alla sua tirannia.

Chi entra in carcere dopo anni di pratica deviante porta dentro un despota che non ha voglia di cedere le armi con cui negli anni dell’ubriachezza ha squalificato le proprie componenti più sane. Per poterlo fare ha bisogno di trovare all’interno dell’ambiente istituzionale alleanze capaci di sostenere e rinvigorire le componenti che, pur se per propria responsabilità, avevano avuto la peggio. Non è facile, ma è possibile; ed è quanto dice la Legge.

I detenuti, nel corso dell’incontro, non hanno mai preso la strada più facile, cioè quella di delegare ad agenti esterni la responsabilità del gesto suicidario, e hanno dato, invece, prova tangibile di quanto un ambiente appropriato e un buon tavolo di confronto possano motivare a cercare dentro di sé le ragioni del proprio malessere invece che espellerle.

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Sisifo e il masso

Sisifo e il masso
Francesco Leotta e Angelo Aparo

Che cosa succede dentro di me?
Chi dice il mio nome senza chiedere udienza?
E se anche fosse la mia coscienza
Ha forse ha scordato che io sono il Re!

Aspetta, rifletti, non fare l’ignaro
Per le tue tragedie non c’è riparo
Qui sei agli Inferi, ti devi educare
Altrimenti in eterno ci devi restare

Ma io sono il re, non mi devi toccare
Nessuno, nessuno mi può giudicare
Io sono il vertice nel mio reame
Ora chiamo le guardie e ti faccio arrestare

Ma guarda sei agli Inferi, dovrai rassegnarti
Le conseguenze ti erano chiare
Nessuno qui sotto riesce a imbrogliare

Chiamatemi Zeus, è mio amico in affare
Con lui ho praticato festini e puttane
Noi due siamo amici, guardati attorno
Mi ha promesso l’eterno, mi ha reso immortale

Sei proprio cocciuto| La brama ti ubriaca.
Era quel vizio che ti faceva immortale
Tu deliri, svegliati!
Tutti promettono nel malaffare
Ma sol fino a che servi, ti fanno campare!

Ma senti, Coscienza, mi assilli, mi stufi
Dimmi in sostanza cosa ho fatto di male

Vedrai che capisci, se riguardi al passato,
i tuoi intrallazzi col capo qui ti hanno portato
La città di Corinto hai portato alla fame
Hai fatto festini, hai sperperato 
Le tasse dei poveri hai aumentato
Per il sottobanco e le corruzioni
Chi poteva è fuggito verso altre nazioni

Adesso che guardo un po’ meglio al passato
Rintraccio le volte in cui in effetti ho abusato
Per me era un piacere ribaltare la sorte
Negare l’uomo e gabbare la morte

Ma le mie prime volte avevo solo giocato
Pur se dall’alto qualcuno mi ha usato
Forse adesso capisco…
Mi ha illuso che in cima sarei volato
E invece sul fondo oggi sono arrivato

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Verbale collegato

Ci provo anch’io

  • Francesco Capizzi

Si dice che chi crede nelle proprie aspirazioni e ci mette dentro il fiato può arrivare molto in alto.

Gruppo Trsg Esterno – 18/10/16

Verbale 18/10/16
Roberta Rizza

Gli argomenti discussi durante la riunione del Gruppo della Trasgressione, tenutasi all’ASL di Milano in Corso Italia 52, hanno toccato tematiche differenti e trasversali.

Il primo argomento, più di carattere formativo-educativo, è partito quando il dottor Aparo chiese a una tirocinante quanto facesse 12×12. La domanda, che ha incuriosito un po’ tutti i presenti, ha dato luogo a una riflessione molto interessante. L’interrogativo posto, apparentemente fuori luogo, e soprattutto la reazione della tirocinante, che decise di non rispondere, furono emblematici per il discorso che ebbe vita successivamente.

Con quell’aneddoto il dottor Aparo voleva dimostrare come spesso si tende a fuggire davanti alle difficoltà, sottraendosi alla possibilità di cercare in maniera creativa una soluzione al problema. Inoltre, ciò che con quella domanda cercò di dimostrare fu che non solo i detenuti ricorrono a escamotage e vie di fughe per non dover affrontare il problema, ma che può accadere a qualsiasi essere umano di preferire l’astensione piuttosto che fronteggiare una situazione critica.

Successivamente il dottor Aparo ha raccontato che la mattina precedente alla riunione, aveva avuto un colloquio con un detenuto e che questo si era concluso a causa della medesima domanda, che aveva posto il ragazzo in un atteggiamento difensivo, scegliendo di andare via piuttosto che cercare di risolvere il problema matematico. Il detenuto in questione aveva espresso, durante il colloquio, il desiderio di poter costruire, una volta uscito dal carcere, una nuova vita lontana dall’illegalità e che il suo obiettivo ultimo fosse quello di lavorare onestamente e guadagnare cinque mila euro al mese.

L’osservazione del dottor Aparo spalancò le porte a un’ulteriore riflessione: il voler perseguire a tutti i costi un obiettivo meramente materialistico, distrae e allontana l’uomo dal vero senso della vita e della realtà. Ricercare costantemente e incessantemente attività che portino a un guadagno di denaro, acceca il singolo e lo rende incapace di godere delle bellezze naturali della vita che esulano da ciò che può essere acquistato, come la contemplazione di un campo di margherite, di un tramonto al mare, della profondità degli occhi di un bambino.

Inoltre, il dottor Aparo sottolineò la pericolosità di questo atteggiamento e di come questo si elevi all’ennesima potenza quando ad avere questo “sogno” è un detenuto, condannato per detenzione e spaccio di droga, ovvero un reato che ha di per sé a che fare con il guadagno dei cosiddetti “soldi facili” e che, paradossalmente, davanti al problema matematico risponde fuggendo.

La rieducazione personale e sociale dei detenuti, che si fonda sul concetto di “riscatto”, può aver luogo se a ciascuno è offerta la possibilità di interiorizzare un modello di autorità vicario, credibile rispetto a quello avuto in passato, che preveda a sua volta un cambiamento di prospettiva che vada da “il fine giustifica i mezzi” a “non sempre il fine può giustificare i mezzi”. In un percorso riabilitativo alla legalità proporsi come fine il guadagnare tanto e subito, condurrebbe il detenuto a ricadere in un pattern comportamentale che ha già messo in atto in passato, l’unico che conosce e che lo ha già condotto a trasgredire dalle regole della società in cui vive.

Dunque il messaggio che il dottor Aparo ha cercato di veicolare durante la riunione, fu quello di vivere godendo delle meraviglie offerte dal mondo che ci circonda, anche di quelle più piccole. Imparare a vivere non coincide con l’essere ricchi economicamente; rincorrere il denaro è un pericolosissimo fine che, alle volte, conduce il singolo a ricorrere a mezzi scorretti e sleali. Il messaggio aveva il fine di invitare ciascuno a mettere in discussione i propri obiettivi: uscire dal carcere con il “sogno” di diventare ricco lealmente, oltre che improbabile e difficile, è anche molto pericoloso, in quanto quasi mai si realizza ed è possibile cedere nuovamente a quel vortice di cui, nelle riunioni precedenti, è stato più volte citato dai detenuti stessi, costruendo una sorta di anticamera all’illegalità.

Successivamente è stato affrontato un altro argomento più di carattere organizzativo, che ha visto la partecipazione attiva di tutti i detenuti e non. Giorno 29 Ottobre, il gruppo parteciperà a un evento al parco di Rho in occasione del suo compleanno. L’obiettivo della partecipazione all’evento ha l’obiettivo di far conoscere ai cittadini l’operato della Cooperativa Trasgressione.net e, contemporaneamente, pubblicizzare il lavoro dei detenuti. Durante la riunione è emersa la forte complicità di tutti i partecipanti nei confronti della Cooperativa ma, soprattutto, la forte volontà di ciascun detenuto a essere promotore di se stesso e parte attiva al progetto. Come in un brain storming, inizialmente si è discusso della parte maggiormente creativa, proponendo ciascuno la propria idea rispetto alle attività pratiche da presentare all’evento; successivamente ci si è focalizzati sulla parte organizzativa, dunque sul come mettere in pratica queste idee, quali strumenti utilizzare per renderle quanto più realizzabili e particolari, così da poter catturare l’attenzione dei vari visitatori. L’attività pare aver coinvolto ed eccitato la maggior parte dei presenti, ma il tempo era insufficiente per organizzare il tutto di cui si discuterà alla prossima riunione.

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La cappella del Lazzaretto

IL RESTAURO ALLA CAPPELLA DEL LAZZARETTO

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