La chiamata del Gruppo della Trasgressione

I gruppi, le scuole
Testimonianze vere
Quasi in alta definizione.
Le nostre vite, la nostra
Carcerazione.
Depressione, Esclusione.
E ora la chiamata per uscire
Da una lunga intossicazione.

Rapine, droga, omicidi
La strada della vita ci ha divisi
dalle famiglie e dai loro sorrisi.
Dai gruppi, le scuole, i ragazzi
E ogni cazzo di emozione.

Aparo vuole determinazione.
Trasgressione è sinonimo di
“informazione”, il cervello
ch’era prima in confusione
ora lo accendi e lo metti
in funzione.

Ora cerchiamo conciliazione
Con il mondo fuori e
Quello in prigione.
Non cambio il mio destino,
Ma la destinazione.
Le sbarre e gli orizzonti,
La siepe e i tramonti
La quiete come Leopardi,
L’Infinito, il vento e la paura.

Cambierà il tempo,
avremo altre stagioni,
potremo anche noi naufragare
il tempo canterà la sua chiamata
e noi intoneremo altre canzoni

Mohammed Khaled

Reparto La ChiamataPoesie e Rap

Scambio tra ex tirocinanti

Si alza il sipario e va in scena una tradizionale conversazione tra colleghi che si pongono domanda e si danno, spesso, risposte di circostanza. Anche se a volte…

E dove hai fatto il tirocinio?”

L’ho fatto a Milano in un’associazione che si chiama Gruppo della Trasgressione”.

Rispondo, sperando che la conversazione non prenda troppo piede

E che ti hanno fatto fare?”. Mi chiede il collega, forse incuriosito dal nome.

Non mi hanno fatto fare niente, sei tu che decidi quanto e come fare. Non ci sono capi né padroni. Al massimo vieni stimolato a conoscerti e il tuo silenzio non viene accettato di buon grado.”

Sei andato in una di quelle associazioni in cui non si fa un cazzo quindi

Conclude il collega con un sorriso che è un misto tra ammirazione e invidia. 

Allora leggermente infastidito rispondo:

Secondo te, con quel poco che ci fanno mettere in pratica, andavo in un posto in cui non si fa un cazzo? Sono dei gruppi terapeutici che si svolgono fuori e dentro le varie carceri milanesi: San Vittore, Bollate e Opera (che è il carcere di massima sicurezza). Le persone che prendono parte sono detenuti, ex-detenuti, civili, vittime e familiari di vittime, studenti e studentesse.  In pratica chiunque voglia.. è più università il gruppo della trasgressione che l’Università stessa.

Ah, a guidare la conversazione c’è uno psicoterapeuta con orientamento analitico.  Si chiama Angelo Aparo, ed è stato uno dei primi psicologi penitenziari d’Italia. Lavora in carcere da non so quanto tempo ormai, ha sviluppato di sana pianta un suo metodo di conversazione con i detenuti che porta veramente tanti e succosi frutti. Il vero problema è che il gruppo non vede una lira dallo Stato, le attività del gruppo sono autofinanziate e gli studenti che vi partecipano, purtroppo, lo fanno da volontari. Così come fondamentalmente è un volontario il professore  di cui ti parlavo.” 

Quindi sei entrato in carcere.. deve essere stato pesante.” 
Ma una volta uscito da quel posto mi sentivo molto meglio. Sentivo di essere cresciuto un po di più e di aver fatto un’esperienza che in pochi possono raccontare. Mi sono reso conto di quanta sofferenza non vediamo. E mi sono reso conto di quanto lo Stato abbia una fetta di responsabilità nella sofferenza dei detenuti e delle detenute. Se ci pensi anche solo il fatto che l’assistenza psicologica è ancora marginale all’interno del carcere che accoglie persone portatrici di sofferenza, e per tentare di “rieducare”, le  isola e continua a far vivere loro situazioni di disagio come vivere senza privacy, in pochi metri quadrati, dovendo chiedere continuamente il permesso per ogni cosa e dovendo rispettare un programma giornaliero che va seguito indipendentemente dalla loro approvazione o disapprovazione. C’è una cosa che ho imparato nel gruppo a cui non avevo mai pensato prima. Il carcere non chiede niente alla persona, gli impone solo cosa non fare. Le persone in carcere non vengono responsabilizzate e le responsabilità che avevano prima di entrare in carcere, non possono rivendicarle, non possono provare a prenderle, nonostante gli appartengano.

Per fortuna ci sono dei magistrati e dei direttori che sono un’eccezione. Forse hanno capito il controsenso del carce..”

Aspetta ma non hai detto che questo gruppo della Trasgressione opera all’interno del carcere? Quindi si potrebbe dire che il gruppo della Trasgressione è un servizio che offre il carcere!”
Sì il gruppo c’è una volta a settimana in tutte le carceri milanesi, adesso probabilmente inizia anche al carcere minorile, il Beccaria .”
Allora vedi che non è tutto una merda.”
Avere una visione critica di qualcosa non significa pensare che sia tutto una merda. Ti raccontavo dei problemi che ho riscontrato affinché si possano costruire realtà necessarie e di spessore come quella del gruppo della Trasgressione, i corsi di teatro, poesia, pittura e la possibilità di studiare all’interno del carcere”.
Ma perché necessarie? Che fate di utile per una persona che ha ucciso qualcuno per esempio?”
Si parla. Ti sembra poco? Si parla del reato, delle cause e delle conseguenze di quel gesto. Si parla di sentimenti, attaccamento familiare, ambiente in cui queste persone sono cresciute ma c’è spazio anche per la filosofia, l’attualità ecc… 

Si cerca di fare gli esseri umani, provando a dare un senso alle cose, senza incolpare o incolparsi, senza perdonare o essere perdonati.  Si cerca di accettare la realtà, di accogliere se stessi. Si cerca di utilizzare una comunicazione non giudicante, mettendosi costantemente in discussione. All’interno di un gruppo, chiunque ha delle responsabilità verso se stesso e verso gli altri e questo è utile per tutti e tutte, figuriamoci per una persona che sta chiusa per anni nello stesso luogo, con pochi stimoli e tanta frustrazione.” 

Sì, ma questo lo pensate solo voi che avete studiato. I detenuti non potrebbero vedere questa cosa del gruppo come una scorciatoia per uscire più velocemente?!” 
Sicuramente questo è accaduto e accadrà. Alcuni detenuti si avvicinano al gruppo per fare bella figura con la direzione e con il direttore del carcere. Ma sei sicuro che sia importante il motivo per cui si incomincia a fare qualcosa? Secondo me è più importante vedere dove ti porta quella cosa, come ti plasma, come ti tormenta fino a modificarti. Non puoi partecipare al gruppo fingendo che ti interessi, recitando una parte che non è la tua, indossando una maschera che già non possedevi. Il gruppo ti stimola a indossare la maschera migliore che hai, a essere la versione migliore di te stesso

Una volta al carcere di Bollate, dopo aver finito il gruppo, un membro del gruppo detenuto ormai da anni, ci ha tenuto ad avere una conversazione con me. Mi ha trattenuto dopo i consueti saluti perché ci teneva a sapere il mio punto di vista. Un uomo sulla sessantina, che si interessa del pensiero di un ragazzo di 23 anni. Questo è solo un esempio di quanto può ricevere chi prende parte a questo progetto. Poco dopo quella conversazione, un ragazzo entrato da pochi mesi in carcere  mi ha chiesto quale attività avessimo fatto. Dopo averglielo spiegato mi ha domandato come poter partecipare al Gruppo della Trasgressione…”

“Insomma, è stato bello!” 

Mi risponde il collega dopo il pippone inaspettato che gli ho attaccato. Forse voleva concludere la conversazione con un lieto fine, ma non era il mio stile e soprattutto non rispecchiava la realtà. Allora mi sono sentito di aggiungere:

Si bello ma quando vieni a sapere che nello stesso carcere in cui sei entrato qualche giorno prima si sono tolti la vita due ragazzi di vent’anni circa, ti assale un’angoscia non facilmente gestibile. Cominci a cercare quei nomi su facebook per capire se facevano parte del gruppo o anche solo se avevi involontariamente visto una delle loro facce, uno dei loro sguardi. 

Nel 2020 si pensava di aver registrato il più alto tasso di suicidi in carcere dell’ultimo ventennio, ben 11 ogni 10000 persone (61 suicidi totali). Invece questo triste primato è stato abbondantemente battuto nel 2022 in cui si sono suicidate in carcere 85 persone. 85 persone. Ci vogliono fondi per arginare questo problema e per dare ai detenuti e alle detenute la possibilità di pensare a qualcosa di diverso per le loro vite. Comunque.. questo è! Scusa se mi sono dilungato… Ma tu invece che tirocinio hai fatto?”

Ah niente di che, sono finito in un ente pubblico in cui mi facevano fare delle sintesi.”  
Ah, capito
Ora devo andare, mandami il link dove posso leggere qualcosa del gruppo se puoi. Ci vediamo!”
Certo, ciao”.

 

Davide Leonardo

Chi voglio essere?

Chi voglio essere? A chi voglio somigliare?
Amo la libertà e la libertà voglio evitare

Pidocchio irrilevante o pilota d’aeroplano?
Non penso, non ascolto e dal mio cuore mi allontano

Oscillo avanti e indietro, come fanno le altalene
La rabbia e il pentimento mi attraversano le vene

Delinquo e quindi sono, non mi servono catene
Ho ammesso i miei reati e il carcere non mi appartiene

Ho capito l’errore, sono il responsabile
Ho capito che delinquere è una strada impraticabile

Mi sono chiuso in trappola e ad altri ho fatto male
Oggi sto dietro le sbarre, dentro la mia gabbia personale

Ho perso l’esistenza, dalle mani mi è scappata
Ti ho chiesto scusa, o mà, mentre ti lasciavo
Ma ero solo, diffidente, e da solo dove andavo?

Beatrice Ajani

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Gli occhi parlano

È tra gli occhi dei giovani detenuti che oggi mi ritrovo; quegli occhi così tanto acerbi che rendono difficile pensare che possano essere di già testimoni di orrori vissuti e sbagli commessi.

Attraverso quegli sguardi ho scorto fragilità, paure, limiti, dolore, caratteristiche che accomunano tutti gli esseri umani, eppure, se contestualizzati nella stanza a sinistra, in fondo ad un corridoio lungo e scarno, acquisiscono una intensità più consistente.

Penso, sono solo dei ragazzi.. ragazzi che hanno commesso reati per i quali le loro esistenze saranno segnate per sempre, ma sono comunque ragazzi i quali, una volta riconosciuta la responsabilità relativa agli errori compiuti, potranno permettersi di guardare al futuro con occhi diversi, arrivando a concepire la pena inflitta come possibilità di redenzione. Perché se è vero che questi giovani oggi smarriti vivono in preda alla fragilità esistenziale che avvolge totalmente le loro menti, è altrettanto vero che possono imparare a riconoscere dove hanno peccato.

D’altronde, entrano in carcere nel periodo in cui ci si accinge ad erigere quella che successivamente diventerà l’identità adulta. Non sarà evidentemente possibile ripartire dal punto zero, ma è ancora possibile una loro evoluzione attraverso il riconoscimento e l’accettazione di ciò che ha portato all’errore, arrivando anche a fare proprio il naturale timore che il rischio dell’ignoto comporta e scegliendo di ricominciare da se stessi.

Affinché questo processo possa attuarsi penso sia necessario guarire emotivamente, provando e acconsentendo a sapersi perdonare.

Lo smarrimento trapelato dal loro modo di comunicare è stato forte tanto quanto il timore e la voglia di volersi imporre, di voler esistere. La mancanza di ossigeno era viva quanto la ricerca stessa di aria pulita, della quale probabilmente da tempo avvertono l’assenza.

Forse in questo modo, quei sentimenti imprigionati possono finalmente essere liberi di germogliare; il delirio e l’onnipotenza ricercati e poi saggiati con feroce voracità potranno lasciare il posto al perdono ed alla richiesta di aiuto.

Gli intenti di questi giovani detenuti sono privi di dietrologie; quello che prevale è piuttosto l’esplosione dell’impulso che porta alla devianza.

Personalmente, posso dire di aver percepito una differenza sostanziale con i detenuti adulti: per questi ultimi ciò che predomina e risalta è la consapevolezza e l’accettazione della condizione che si sta vivendo; mentre per i giovani, pur pervasi dalla paura di quello che prima o poi per forza di cose sarà, prevale l’intenso desiderio di riprendere tra le mani quello che in questo momento manca loro più di ogni altra cosa, la vita.

Giorgia Olivadese

Reparto LA CHIAMATA

Un’altalena in cerca di albero

Questo “assegno” nasce da un debito nei confronti del gruppo. Sento di aver ricevuto tanto e di aver dato poco. Sicuramente non basterà ad andare in pari ma ho deciso di raccontare una breve storia, che poi è la mia storia. Sono contento di constatare che, attraverso vie per me non sempre chiare e comprensibili, si stia formando un gruppo di pari, uno spazio dov’è possibile parlare, confrontarsi, condividere pezzi di interiorità attraverso l’incontro/scontro di idee, visioni del mondo, esperienze di vita diverse. È molto arricchente e vi ringrazio. Ecco il mio piccolo racconto dal titolo:

Un’altalena in cerca di albero”

Non si capisce bene dove si svolga la vicenda né chi siano i personaggi. La notte è appena giunta al termine e già si intravede il crepuscolo mattutino. Un’ombra spunta dall’orizzonte. Sembra un’automobile. Ma no, è troppo squadrata e piccola. Un mini-frigo forse? No, è una semplice asse di legno. No, no a guardarla bene è qualcosa di più, un’altalena forse? Sì, direi proprio che è un’altalena quella.

Dopo aver dondolato per un po’, l’altalena si ferma davanti a delle alte mura. Ecco che intravede un massiccio portone di bronzo semi aperto. Entra. Improvvisamente le mura scompaiono come per magia e si trova immersa in un grande campo. Pensa: “che bel campo, mi stabilirò qui”. Con il passare degli anni l’altalena si accorge che in realtà il suo campo non è poi così accogliente: è pieno di pietre, erbacce e rovi; le raffiche di vento sono continue e rovinose. Ha bisogno di un luogo sicuro dove legare le sue funi.

Un giorno finalmente intravede una possente quercia con una chioma molto rigogliosa, è proprio lì in un angolo. Era sempre stata lì ma lei non era mai riuscita a vederla, per quanto si sforzasse di guardare. Quella quercia diventa per l’altalena rifugio, luogo sicuro dove aggrapparsi e dove poter riposare dalle fatiche del campo. Questo è l’albero sul quale aveva sempre desiderato attaccarsi.

Un giorno quell’albero fu colpito da un fulmine e si incendiò velocemente. L’altalena uscì viva dalle fiamme ma era di nuovo in cerca di un albero. Vagava dondolandosi su e giù senza una meta in balìa dei venti e incontrava spesso sul suo cammino degli avventurieri che, passando, la spingevano forte, non curanti che in fin dei conti era solo un’altalena. Ogni tanto qualche bimbo decideva di salirci sopra e giocare. Lei era contenta perché si sentiva utile e donava loro un sorriso. Quei sorrisi le davano forza. Sì, la forza di darsi la spinta e tendere di nuovo verso un nuovo albero. Sapete però come sono fatte le altalene: più spinta dai in avanti e più ricevi una spinta uguale ma contraria verso l’indietro. Per l’altalena era molto frustante vedere come, appena tentasse di toccare con la punta della sue assi i rami più esterni di un albero, subito si attivasse il moto che la spingeva indietro, non al punto di partenza ma ancora più indietro!

Passarono gli anni e i tentativi dell’altalena proseguirono con gli stessi scarsi risultati. Un bel giorno, stanca di tutto questo dondolare e con un forte capogiro decide di fermarsi e di riflettere. Che cosa stava facendo? Aveva davvero bisogno di un nuovo ramo? Per la sua natura era in grado di darsi una spinta che non la facesse ritornare indietro? Aveva passato così tanto tempo a cercare un nuovo albero da non sapere più se fosse davvero necessario trovarne uno.

Si rese conto che il suo animo aveva ricevuto tutto il nutrimento necessario per affrontare il campo, che ora poteva proseguire da sola. Non restava che accettare la sua condizione di perenne dondolio: le altalene non sono fatte per stare ferme una volta per tutte, neppure sulla quercia più bella del campo. Nei momenti difficili, sapeva che poteva sempre pensare a quella vecchia quercia che l’aveva salvata ma che non aveva più bisogno di averla come sostegno. In fin dei conti, era già stata un’altalena tanto fortunata ad incontrarla.

Pensò: “Forse la vera condizione delle altalene è quella di dondolare infinitamente ma tutte le altalene dovrebbero poter trovare nella propria strada un albero come il mio a cui tendere, un albero da cui tornare, dove ricevere il nutrimento dell’anima, nutrimento che dà forma a quell’insieme di valori, affetti, pulsioni del cuore e tensioni della mente che chiamiamo interiorità. L’interiorità che ci rende altalene”.

Gabriele Ambrosio

Reparto La Chiamata

 

Un carcere utile per cosa?

Al Gruppo della Trasgressione si crede nel reinserimento in società di persone che nella vita hanno commesso dei reati, gravi e no. Il detenuto non viene pensato come un criminale per il quale non è possibile alcuna salvezza, ma piuttosto come una persona con esperienze diverse dalle nostre, per la quale esiste una via d’uscita, che necessita e merita aiuto.

Parliamo soprattutto di ragazzi cresciuti troppo velocemente, ai quali è mancata una figura credibile, rispettabile, capace di offrire loro gli strumenti per affrontare la vita nel modo corretto: ragazzi arrabbiati, fragili, insicuri, privi di obiettivi, e che, al contempo, chiedono aiuto.

Il reparto  “La Chiamata” prevede un ambiente dove si respiri crescita, motivazione, trasformazione, creatività e autenticità: un contesto nel quale i ragazzi, mediante il confronto continuo con figure di influenza positiva e lo svolgimento quotidiano di diverse attività, abbiano la possibilità di sperimentare ed esprimere se stessi attraverso la meraviglia dell’arte e della parola: dalla musica alla poesia, dal dipinto alla recitazione. I giovani detenuti potranno qui occupare le loro giornate in modo costruttivo, così da imparare e interiorizzare obiettivi e metodi del progetto.

Penso al reparto come ad un “luogo sicuro in mezzo al caos”, a un contesto al quale detenuti e operatori sentiranno di appartenere e il cui fine sarà quello di far sentire il soggetto in questione ben voluto, coccolato e amato. È fondamentale per i giovani detenuti avere un fine da raggiungere, un ruolo che faccia sentire loro di esistere, di essere utili e di valere qualcosa.

Durante un incontro con giovani detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni, è stata posta una domanda, ossia: “Se il carcere potesse essere utile, quale utilità dovrebbe avere per te?”.

Le risposte sono state: un clima costruttivo, un accompagnamento e un aiuto quotidiano;  essere visti per ciò che sono realmente e non solo per ciò che hanno commesso; riduzione della dose di psicofarmaci;  essere aiutati a interpretare il ruolo di genitori (essendo divenuti tali troppo precocemente); essere aiutati a diventare più responsabili, a trovare le cause delle loro azioni devianti, così da poter cambiare la loro visione della realtà in positivo.

Molte figure istituzionali sostengono che ciò che manca ai giovani detenuti è una reale motivazione a migliorarsi. Io credo che la volontà non sia qualcosa che c’è o non c’è. Penso che se è presente in modo evidente, occorre semplicemente nutrirla, ma se è presente in porzione minima o quasi nulla, andranno create le condizioni che la stimolino e che rendano le persone consapevoli della sua esistenza.

Ilaria Pinto

Reparto LA CHIAMATA

Due fratelli

Penso alla domanda posta da Aparo giovedì scorso al reparto La Chiamata: Quando qualcuno si interessa del detenuto, sta tradendo i famigliari della vittima? La cura nei confronti di chi ha abusato sminuisce o tradisce la cura verso vittima o i suoi famigliari?

Personalmente, ad oggi rispondo: assolutamente NO!

Mi rendo conto che è frutto di un cammino di conoscenza di me e di vita giocata grazie alle provocazioni, sfide, contrasti, reazioni -espresse bene o male, non importa- di tanti ragazzi che mi hanno indotto (e mi inducono tutt’ora) a scavare dentro me stessa per trovare risposte che non siano ‘frasi fatte’, frasi scontate, ma la verità di me.

Mi fa riflettere sulla mia vita: Non ho passato una bella infanzia e adolescenza tranne che a scuola o con gli amici fuori casa. Sono nata rifiutata e non potevo capire -come tutti i bambini- i problemi degli adulti (i miei genitori). Incassavo e cercavo di proteggere la mia sorella gemella e un’altra sorella, ero molto molto timida e certamente insicura. Nella pre-adolescenza e adolescenza mi sentivo e credevo ‘un nulla’. Ci facevamo forza -come non so- io e la mia sorella gemella.

A 21 anni ho iniziato il cammino per diventare suora, Qualcuno inaspettatamente mi ha scelta: un nulla graziato.

A 34 (2001) anni ho perso mia sorella gemella, sposata da 5 anni, con tre figli piccolissimi (un mese e mezzo; due anni e mezzo e tre anni e mezzo) per un Tir pirata che le ha stretto la strada a senso unico e l’ha trascinata.

Ha salvato i tre figlioletti che erano in macchina e ha lottato tra la morte e la vita senza farcela. I becchini quando sono venuti ad aprire la camera mortuaria, trovandomi dentro da sola con lei, mi hanno detto: ma quell’autista del Tir riuscirà a dormire sapendo della morte prematura di una mamma che ha lasciato tre figli e il marito?

E io risposi loro spontaneamente: quell’uomo chissà quali problemi aveva per non essere lucido nella guida, avrà la sua responsabilità ma ne rimarrà segnato per tutta la vita, purtroppo. Invece il questore che, oltre ai 17 giorni di indagini, ha voluto attendere troppi giorni dopo la morte con la scusa di cercare ‘il colpevole’ che non ha mai cercato… lo sarà forse meno (la corruzione, abbiamo saputo poi, aveva avuto il sopravvento).

Ne ho viste e sentite tante sulla mia pelle e ho imparato tanto a forza di sbattere ‘la testa contro il muro’ e -come già accennavo- ho imparato a farmi domande e a cercare il confronto anche attraverso un percorso di conoscenza intrapreso a 24 anni. Questo mi ha aiutato a mettere in campo risorse che non sapevo di avere e ad acquisire qualche strumento per rileggermi … un percorso bellissimo! Mi ha dato le basi per la scelta di vita sempre in movimento e per continuare a camminare dentro gli eventi e le situazioni in divenire e non prive di tempeste.

Dal 2010 frequento il carcere e da suora sono stata a tempo pieno in periferie di Pavia, Roma e Milano, e questa palestra di umanità ha trasformato il mio sguardo, che ha iniziato a vedere prima di tutto e sopra tutto la persona, l’uomo che mi sta davanti sia nell’autore del reato, sia in chi lo subisce; anche perché queste due dimensioni sono presenti anche dentro di me: grano e zizzania.

Ho imparato a ri-conoscere i mostri e le miserie che sono in me assieme ai doni e a ri-conoscere quanto sia difficile metterli in dialogo perché dentro di me non facciano a pugni, ma possa prevalere la risorsa sul danno.

Per me è importante chiedermi quanto e come io sono capace -per es.- di riparare e ricucire una relazione fallita o rifiutata da me, come posso tenere ‘in equilibrio’ dei macigni ereditati o causati dalla mia storia personale assieme alle risorse e ai cambiamenti maturati in bene? Rimangono la lotta e l’impegno per farli interagire perché diventino ‘amici’. Impossibile? NO, frutto di un cammino che non finisce mai!

Se ogni persona è prima di tutto persona, conta la cura della vittima o dei familiari della vittima di reato tanto quanto la cura di chi lo ha commesso perché solo così si toglie potere al male che in ciascuno di noi abita assieme al bene.

Se non sono nessuno per ‘togliere’ la vita o anche solo la dignità ad una persona, sono forse qualcuno per toglierla a me stesso?

Più rivedo e riconosco le tempeste passate e presenti dentro di me assieme alla cura immeritata, gratuita, ricevuta e più credo che sia possibile, anzi necessaria, una cura per ogni persona sempre e comunque!

Inoltre penso ai due fratelli della parabola del Padre Misericordioso e proprio lì trovo la bellezza della giustizia riparativa che i due fratelli dovrebbero mettere in atto tra loro, uno apparentemente bravo e l’altro dissoluto, ma entrambi persi.

È il Padre che mette in atto e inizia la riparazione, aspettando a braccia aperte il figlio scappato di casa e facendo festa con lui, ma anche uscendo a supplicare l’altro che, sentendosi a posto, non vuole partecipare alla festa del fratello che non considera più tale e che definisce ‘tuo figlio’ rivolgendosi al Padre.

Questo mi dice che le nostre forze umane, se isolate, faticano tanto, ma Qualcuno non si stanca mai di raggiungerci perché guarda al cuore di ciascuno di noi -persi e ritrovati anche quando non lo riconosciamo- e non vuole che nessuno si perda. Da Padre, ci vuole figli e fratelli sempre!

Suor Anna Donelli

Reparto LA CHIAMATA – Incontri con i familiari delle vittime

Non dovevo confrontarmi con nessuno

Sono nato a Vimercate il 23 ottobre del 2000, ultimo di tre fratelli: una sorella e un fratello più grandi. Da come mi ha raccontato mia mamma, ci siamo trasferiti subito da Vimercate in Toscana, dove io ricordo che stavo tanto tempo con mia sorella e mio fratello. Con loro ero tranquillo, i miei genitori non c’erano mai, erano sempre al lavoro e, quando erano a casa, uscivano per andare a fare la spesa o per pagare le bollette, quando ce la facevano. Queste cose le so perché li sentivo parlare, discutere, ma non si preoccupavano di darmi delle attenzioni, però pretendevano che andassi bene a scuola.

Io non li ho mai ascoltati, ascoltavo mia sorella quando mi diceva di fare i compiti e quando portavo bei voti a casa lei era la sola a essere contenta.

Poi, all’età di nove anni, ho cominciato ad uscire per il paese con mio fratello, anche da solo delle volte, ma mai troppo distante da casa, finché un bel giorno i miei genitori mi chiesero di andare a comprare le sigarette, ed io ero invidioso che i miei si comprassero le sigarette mentre a me dicevano sempre di no quando chiedevo qualcosa.

Io vedevo in giro i miei amici con tutte le figurine, le carte da gioco, e tutte queste cose e l’invidia che provavo verso di loro mi ha fatto iniziare a rubare le figurine dal tabaccaio che si fidava di me.

Da lì a poco iniziarono i trasferimenti ma non per le figurine, ma per gli sfratti esecutivi a casa. Finii le elementari in Toscana e mi trasferii in Piemonte, dove iniziai le medie e dove cominciarono i primi problemi.

Iniziai a non aver più voglia di andare a scuola, a rispondere male ai professori, a evitare legami con altri ragazzi, perché sapevo che me ne sarei andato da lì a poco. Poi i primi provvedimenti disciplinari, tanta rabbia verso i miei genitori, due bocciature in prima media. Iniziai a fumare le prime sigarette nell’estate del 2013. Dopo un altro sfratto arrivai a Gerenzago, paese in provincia di Pavia.

Quando ci siamo trasferiti a Gerenzago io non avevo più mia sorella, che ha deciso di andare a vivere con il suo compagno. Io, da lì, ho deciso di prendere le distanze da lei e da tutto, vivere la mia vita come veniva. L’unica persona che mi seguiva mi aveva abbandonato, così ho deciso di abbandonare il rapporto con lei. Ho sofferto molto per il suo abbandono.

Non avevo più punti di riferimento, così sono diventato il punto di riferimento di me stesso. Da quel momento l’unica cosa che volevo era andarmene di casa a 18 anni. Iniziai a peggiorare ogni giorno di più; vivevo in una casa abusiva dove mi vergognavo di portare a casa amici, fidanzate. Era più forte di me e ogni giorno che passava odiavo sempre di più i miei genitori per tutte le situazioni che mi hanno fatto vivere.

Iniziai a drogarmi, usavo soprattutto eroina, iniziai a rubare in casa a vendermi computer, telefoni, prendere i soldi a mia mamma, a tornare a casa il più tardi possibile. Non volevo più provare la sensazione di non essere a casa mia, ho imparato ad essere indifferente, non provavo più niente.

Ogni giorno progettavo modi per trovare soldi, modi per potermi comprare la droga, quando tornavo a casa non la sentivo mia. Quella casa mi ha creato solo malessere, odio, rabbia, la mia casa era la piazza dove uscivo, mi sentivo bene lì, dove stavo sereno tranquillo, mi drogavo ed ero a casa.

Mi sbatterono fuori dalla scuola del paese, dove ormai andavo totalmente pieno di droghe nel corpo, ero insensibile, ogni cosa che mi facevano notare non mi toccava. Finché la preside fece in modo di farmi mettere gli assistenti sociali, mi fecero i primi test sulla droga, così iniziai con il SerD e centri diurni.

Nei primi periodi me ne fregavo totalmente, anzi cercavo tutti i modi possibili per poterli fregare e fingere che fossi pulito: iniziai a mentire nei gruppi, nei colloqui individuali. Finché arrivò il giorno dove mi beccarono facendomi test a sorpresa. Dovevo prendere la terapia che, però, non sempre prendevo. Anche lì fuggivo dal problema, non volevo uscire da quel mondo, avrei dovuto affrontare troppi sentimenti che facevano male, dovevo confrontarmi con la rabbia verso mia sorella e l’abbandono subìto, con i miei genitori delusi per la situazione in cui mi ero messo, ma che non avevano compreso che forse era un po’ anche colpa loro, ma non mi interessava più di tanto.

Ho capito una cosa: che in quel periodo ero bravo a tradire le persone che volevano darmi una mano. Mia sorella, l’unica persona di cui avevo bisogno, non c’era. Per me tradire le persone veniva naturale ormai, ero entrato, non volevo una mano, io stavo bene in quelle situazioni, non sentivo il giudizio di nessuno, non dovevo confrontarmi con nessuno.

Finché non feci la prima rapina, ero in astinenza, avevo rabbia verso me stesso, verso ogni persona che mi capitava davanti. Finii al Beccaria, dove feci tutto il possibile per andarmene, quindi cercai la comunità e andò bene. Arrivai in una comunità di soli adulti, ero il più piccolo. All’inizio stavo bene perché ero riuscito a scappare dal Beccaria, avevo raggiunto il mio obbiettivo.

Passò un anno in cui mi resi conto che avevo bisogno della mia famiglia. Durante quel periodo mi sentivo impotente, non più padrone della mia vita, e ho iniziato a rivalutare diverse cose. Dopo circa un anno e otto mesi, in tribunale, sono stato messo alla prova con le mie emozioni, mi sono trovato davanti alla persona a cui avevo fatto del male. Mi sono sentito una merda davanti al dolore che le si leggeva negli occhi, ma a quanto pare non è bastato visto che, dal momento in cui sono uscito dalla comunità, dopo un mese sono tornato a drogarmi e successivamente a delinquere. Tornai a drogarmi perché in comunità avevo capito che usando la droga avrei soppresso i miei sentimenti, così tornai nel pieno della droga: un modo che potesse portarmi in un’altra dimensione.

Tornai a casa, dove ritrovai lo stesso clima che avevo lasciato. Incontrai vecchie conoscenze con le quali passavo le nottate in piazza, così decisi di tornare a delinquere, rapinando diverse persone in diversi episodi per soddisfare la mia dipendenza, senza preoccuparmi delle conseguenze.

Finché un giorno incontrai la persona che ha cambiato la mia prospettiva di vita. All’inizio non ero convinto di questa relazione tanto che continuai per un anno a delinquere, a drogarmi, ma con il tempo mi sono reso conto di quanto fosse importante per me questa ragazza, lei sapeva che mi drogavo ma non sapeva come facevo a procurarmela.

Quando un giorno decisi di dire basta, lei aveva tanti progetti in testa per la sua vita e io ad un certo punto ho deciso di farla finita con questa vita, mi sono reso conto che stavo facendo soffrire lei e soprattutto le persone che derubavo, solo per star bene io. Decisi di trovare lavoro finché non mi trasferii a Torino di nuovo, dove trovai lavoro presso un’azienda di vendita porta a porta, andai avanti fino a prima dell’arresto, non riuscii a finire il mese per colpa dei miei errori e delle mie scelte pessime.

Prima di trovare lavoro ci misi del tempo ma non mi importava perché ero felice, ero contento di aver trovato qualcuno con cui condividere la mia vita.

Intanto che cercavo lavoro iniziai a non sentire più quel bisogno di droghe, di non essere lucido anzi, cercavo emozioni forti: gioia, amore, insicurezza, tristezza, perché sentivo il bisogno di iniziare a vivere alla luce del sole e non più al buio.

Arrivò il momento dell’arresto e mi trovai in isolamento, dove mi convinsi che era giusto quello che avevo progettato e che non vale la pena di vivere così. Passai poco tempo al carcere di Ivrea, dove qualche persona che era detenuta da tempo mi fece star male. Mi fece pesare i reati che ho fatto, tanto che da lì imparai a guardarmi allo specchio e a sentirmi in colpa per tutto quello che avevo fatto a quei ragazzi. Oggi non riuscirei neanche a guardarli in faccia, dal momento che non meritavano tutto questo.

Al momento non gli davo peso, pensavo solo a me e al mio guadagno, con il tempo che ho passato chiuso per la mia detenzione, ho iniziato a mettermi nei panni di quelle persone. Adesso che sono chiuso qui, ho capito davvero quanto sia stato difficile per loro in quella situazione e, se dovessi incontrarli un giorno, mi scuserei ma soprattutto li ringrazierei perché è anche grazie a loro se oggi ho più consapevolezza dei miei errori e del mio passato.

Lorenzo Rubino

Percorsi della Devianza