Se si può dentro, allora anche fuori

Ho scelto di intraprendere il tirocinio curricolare di Scienze e Tecniche Psicologiche in carcere, spinta dalla voglia di essere partecipe di un cambiamento del contesto penitenziario, troppo spesso inadatto alla riabilitazione del detenuto, che collocato nella sua cella, non dispone della possibilità di affrontare un percorso realmente efficace, volto alla reintegrazione nella comunità.

Il Gruppo della Trasgressione si occupa proprio di questo. Si tratta di un collettivo fondato nel 1997 dal Dottor Angelo Aparo, psicologo e psicoterapeuta che tuttora coordina gli incontri nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore, le iniziative come concerti ed eventi di sensibilizzazione sulle tematiche trattate e gli interventi nelle scuole.

La riflessione è l’elemento chiave della riabilitazione, che permette al detenuto di mettersi nella condizione di porsi domande, confrontarsi con gli altri componenti e con le diverse prospettive di pensiero. Inoltre, le emozioni sono il linguaggio universale che permette la vicinanza e la comprensione tra persone con vissuti completamente diversi.

Attraverso questi strumenti il detenuto può comprendere se stesso e il proprio malessere, di cui spesso non è conscio. Questo è il punto di partenza per poter capire che è proprio dalla sofferenza, dal vuoto e dall’insicurezza che nasce l’abuso.

Grazie alla vicinanza con individui provenienti da altri contesti, l’abusante, gradualmente riesce ad entrare in empatia con l’altro, ovvero con la potenziale vittima, prendendo consapevolezza della sua umanità e del dolore che i propri abusi le possono causare e che hanno causato ad altri in passato.

Il gruppo è una sorta di microcosmo composto da detenuti, ex detenuti, tirocinanti, familiari di vittime di reato e liberi cittadini. Grazie a questa eterogeneità, il detenuto si può interfacciare con realtà differenti dalla propria e può gradualmente inserirsi in un contesto diverso da quello criminale, acquisendo un ruolo più costruttivo e prolifico nella società.

L’importanza del ruolo è fondamentale in questo percorso, poiché si tratta di un fattore che porta a rielaborare e ampliare la consapevolezza della propria identità.

L’identità deve essere considerata come dotata di più sfaccettature. L’individuo può decidere di lavorare su determinate qualità della propria personalità rispetto ad altre. L’obiettivo è favorire che ogni singola persona e l’intero gruppo esplorino nuovi tratti positivi di ogni singolo componente, così che questi possano essere esercitati in contesti più stimolanti e creativi rispetto ai contesti del passato.

Qui le emozioni tornano ad essere utili poiché, se incanalate nella giusta direzione, possono produrre ottimi risultati. Degli esempi possono essere gli scritti molto toccanti che i detenuti compongono e poi leggono agli incontri.

Durante il tirocinio ho partecipato a diverse iniziative che mi hanno fatto comprendere quanto l’arte sia un importante mezzo di comunicazione in grado di avvicinare le persone, dare voce ai detenuti e trasmettere emozioni.

Nell’Istituto Clerici di Brugherio, studenti e detenuti hanno avuto modo di collaborare e acquisire consapevolezza delle reciproche storie, condividendo emozioni e vissuti, apprendendo gli uni dagli altri. I ragazzi hanno dimostrato interesse e impegno negli incontri, scrivendo e incidendo delle canzoni che sono state presentate all’incontro finale tenutosi nel teatro del Carcere di Opera.

Sempre nel teatro di Opera, si è svolto il cineforum del film “La parola ai giurati“, in collaborazione con Extrema Ratio, un’associazione culturale che si occupa di giustizia riparativa. I detenuti hanno avuto l’occasione di commentare la pellicola e portare un punto di vista alternativo rispetto a quello giuridico.

Presso il Museo Universitario delle Scienze Antropologiche di Milano, ho assistito alla proiezione del documentario realizzato da Lo Strappo e alla discussione di tematiche relative al crimine, da parte di alcune figure tra le quali il dottor Aparo, Antonio Tango e Paolo Setti Carraro (componenti del gruppo).

Al Cimitero Monumentale di Milano ho partecipato all’itinerario ideato e condotto da Antonio Tango. Tramite le opere da lui scelte, ha raccontato la storia della sua vita e le sue emozioni.

Presso la Fabbrica del Vapore di Milano ho partecipato alla proiezione del video di Sandro Baldoni “Eravamo cattivi”, alla proiezione del video del Liceo Artistico di Brera “Il Teorema di Pitagora” e al concerto Trsg.band con le canzoni di Fabrizio De André combinate con le riflessioni dei componenti del Gruppo della Trasgressione.

Infine, ho assistito all’incontro con gli Scout e Francesco Cajani, nel quale i ragazzi sono rimasti molto colpiti dalle parole dei detenuti di Opera che, attraverso i loro scritti sul tema “L’infinito senza stelle”, hanno portato le proprie esperienze di perdizione e di rinascita.

Durante questi mesi, l’esperienza che ho intrapreso negli incontri esterni e interni al carcere è stata arricchente a livello professionale ma anche e soprattutto a livello umano.

L’opportunità di toccare con mano la realtà penitenziaria mi ha permesso di capire da vicino le dinamiche, purtroppo ancora disfunzionali, che impediscono la riabilitazione; allo stesso tempo, ho avuto modo di osservare la metodologia terapeutica che il professor Aparo utilizza e l’enorme potenziale che l’approccio del gruppo potrebbe avere nelle carceri italiane.

Ho conosciuto persone eccezionali che mi hanno accolta e fatta sentire in una grande famiglia. Per la prima volta ho sperimentato l’appartenenza ad un gruppo di persone pronte ad ascoltarsi ed aiutarsi a vicenda, con l’obiettivo comune di migliorare sé stessi e, nel loro piccolo, il mondo.

Non nascondo di aver avuto momenti di sconforto. La voglia di partecipare e di mettermi in gioco si è scontrata con la timidezza, la paura del giudizio ed il timore di non essere all’altezza.

Inoltre, spesso mi sono trovata ad ascoltare le storie dei detenuti senza il giusto distacco emotivo che la professione per cui sto studiando dovrebbe richiedere. A volte la rabbia, il dolore e la tristezza hanno preso il sopravvento al punto da restare turbata per giorni.

Altre volte, i racconti dei detenuti, che gioivano per situazioni ai miei occhi banali, mi hanno fatto apprezzare le piccole cose che davo per scontate e mi hanno fatta gioire a mia volta della loro rinascita, della loro contagiosa voglia di vivere e della sensazione di libertà totale, nonostante la condizione di reclusione.

Non pensavo che potesse realmente esistere un gruppo come questo e devo dire che da quando ne faccio parte il modo in cui vedo il mondo sta cambiando. Se anche in carcere c’è la speranza di poter riparare le cose e la voglia di vivere e costruire, allora ci deve essere anche fuori.

Voglio ringraziare il professor Aparo per gli insegnamenti e per la grande opportunità che mi ha concesso di poter affrontare questa difficile, ma straordinaria esperienza di vita e ringrazio anche tutti i componenti del Gruppo della Trasgressione per la generosità ed il coraggio con cui condividono le loro storie, esperienze e pensieri, che sono costanti stimoli a crescere e migliorare.

 

Giulia Sceusa

Relazioni di tirocinioNote sul metodo

Alice e la meraviglia

Sei nata il giorno di Santa Lucia. Nevicava sui tetti mentre tu venivi alla luce intatta, con il sacco ancora intero quando i dottori ti hanno tirata fuori da me. Nascere con la camicia si dice. Pare che porti fortuna, sicuramente suscita meraviglia. Quando sei comparsa in sala operatoria con gli occhi spalancati sotto quel velo sottile tutti erano entusiasti, come se stessero assistendo a qualcosa di magico. Eri tu, che in effetti sei una magia. Ci conosciamo da poco, qualche mese appena, eppure con te sto vivendo istanti di meraviglia pura: cresci, cambi, ti completi davanti ai miei occhi.

Provo un senso di gratitudine e di nostalgia fortissime in ogni momento: sento che il tempo dei giorni insieme è come dilatato e pure rapidissimo. Ogni giorno tu sei Alice e ogni giorno sei differente: già mi manchi per come eri, mentre ti osservo per come sei e non posso fare a meno di immaginare chi diventerai.

C’era una volta un poeta che guardando il limite di una siepe immaginava l’infinito. Mentre con la fantasia si spingeva al “di là da quella” siepe riusciva a concepire per un attimo l’eterno, ovvero i momenti già trascorsi eppure tutti presenti in quell’istante. La percezione era così nitida che al poeta sembrava di sentirne la musica, “il suon” di quell’eternità. Una meraviglia insomma.

Ogni volta che stringo te Alice e ti guardo io penso a quel poeta, alla sua siepe piccola rispetto all’orizzonte infinito che essa nascondeva e che nascondendo rivelava. Tu sei per me la siepe, quel pezzetto di realtà che, se mi concentro, mi permette di sperimentare l’immensa meraviglia, lo stupore che incanta, il ricordo che salva, il suono dell’istante presente, la spinta che fa nascere e riemergere dopo e nonostante il naufragio.

L’infinito senza stelleOfficina creativaGenitori e figli

Esercizi di emancipazione reciproca tra persone ristrette

Chi ha avuto occasione di partecipare a qualche riunione del gruppo della Trasgressione (Trasgressione.net), sa che ho deciso, un anno fa, di entrare in carcere ad Opera per essere più vicino ai detenuti, per dialogare non solo con coloro che avevano già raggiunto un livello di consapevolezza e ristoro della propria coscienza tale da godere di permessi e benefici, ma anche con coloro che per qualsivoglia motivo si trovano all’inizio del percorso ovvero nel mezzo del guado. Mi ero infatti detto che è più utile e stimolante mettere mani in pasta là dove c’è ancora materia da sbozzare, piuttosto che contribuire ad affinare contorni ormai definiti di un qualcosa che già presenta un solido aspetto.

Non a caso la scelta è stata quella di entrare in un mattino di luglio, quando la caldazza spingeva i più verso freschi lidi o valli di montagna, in quel periodo dell’anno in cui le vacanze si impongono a governare tempi, destinazioni e occupazioni del mondo esterno, mentre quello interno, segregato e abbandonato, può solo continuare a spuntare i giorni a venire e dotarsi di pazienza, maledicendo le ferie che impongono pause, smorzano gli entusiasmi, minano fragili abbozzi di certezze precarie, restringono ulteriormente gli spazi di libertà. Sentivo l’urgenza della continuità di una presenza vitale, che non merita e non vuole pause. E soprattutto non ne ha bisogno.

Mettere mano al magma è come lavorare con la sabbia sulla battigia, giocando con quello spirito infantile che mi è stato dapprima sottratto, e che più tardi mi sono negato, per apparire maturo e responsabile. Occorre farlo con mente sgombra dai pregiudizi che ti attendono al varco dietro ogni svolta, e con la voglia di costruire assieme attraverso il dialogo, a partire da riflessioni, sentimenti, umane emozioni tra loro anche molto diverse: è in quella prossimità che si matura assieme.

L’emancipazione dal trauma e dal dolore è un’esperienza a due facce, che vale per il colpevole e per la vittima, poiché entrambi ne hanno bisogno. Non c’è nulla da insegnare, occorre solo attivare il racconto e l’ascolto, e nutrirsi a vicenda di tutto il potenziale disponibile dei compagni di viaggio. Non c’è nulla da travasare, né lezione da esporre, né nozione da infondere, c’è solo da scoprire dentro ognuno di noi il meglio che vi alberga. Non mancano consigli, ma il percorso lo si fa scegliendo di volta in volta il cammino, spesso su erba fresca, alta, rigogliosa, che serra la vista, raramente seguendo un sentiero già abbozzato. Non ci sono stelle a guidare il cammino, né punti di riferimento prestabiliti. E non a caso il tavolo del gruppo somiglia molto a un letto ostetrico, ad una sala parto, dove la maieutica regna sovrana.

Ognuno, esterno o interno che sia, porta spontaneamente il suo fardello, il suo contributo, le sue riflessioni, le esperienze di un’esistenza più o meno sofferta, la malattia del suo vivere, le cure dolorose, le cicatrici, le lunghe convalescenze, le rinascite, le gioie: uno scambio, un’esperienza di dialogo e di riconoscimento reciproco. Riflessioni che vengono esposte, osservate, accolte, accarezzate, curate, e abbracciate. E’ una pratica di mutuo ascolto, sostegno, soccorso, accoglienza e conforto. Attenzione senza pregiudizi.

Paradossalmente è qui che il mio dolore si è svolto pienamente, le mie fragilità si sono esposte, le sofferenze comuni si sono confrontate, le scelte fortunate, quelle possibili e quelle azzardate e salvifiche sono state esposte, in una narrazione tra pari, sempre più consapevoli delle proprie fortune e miserie, delle loro cause, delle responsabilità di ognuno e il ruolo di ogni cosa nel destino personale. La mia vita profondamente, irrimediabilmente segnata dall’evento, come la vostra, quella di ciascuno di voi; le vostre vite parimenti distrutte, le vostre famiglie, i vostri figli e a cascata nipoti, amici, parenti. Dolori diversi, per natura e per fonte, benché simili per conseguenze e per intensità. Con la consapevolezza, lentamente acquisita, che le nostre sofferenze si sommano, non si elidono, che la vostra sofferenza non mi porta sollievo, nulla sottrae al mio dolore. Che è il cambiamento osservato e praticato a soddisfare l’umano bisogno di dare un senso ed un valore al dolore comune. Che si corre il rischio di tradire la propria carne, o di esserne accusati, e che queste accuse arriveranno comunque e dovranno trovarci forti, saldi e sereni nella nostra pratica onesta e consapevole.

L’emancipazione è reciproca, speculare: anche le vittime hanno bisogno di essere aiutate ad emanciparsi dal male subito, dalla logica della vendetta, a liberarsi dal risentimento e dal rancore, mentre l’autore di reato si fa responsabile non solo di qualcosa, o per qualcosa ad  appagare l’ordinaria logica retributiva, ma anche verso qualcuno e qualcosa, allargando progressivamente il suo orizzonte di responsabilità consapevole verso i figli, la famiglia, il nucleo sociale, la vittima ed i suoi familiari, la società nell’orizzonte più ampio. Emergendo dal carapace egoistico ed autoreferenziale che raffigura il vissuto di molti autori di reato, sordi da sempre all’ascolto del dolore inferto.

Ed è quella stessa società che vorrebbe attribuirci una funzione penale, chiedendoci di giudicare della congruità delle pene irrogate, di valutare l’autenticità del percorso di rieducazione dei colpevoli o la possibilità di accordare loro il perdono comunitario. Richieste sbagliate ed improprie: compiti che non competono ai familiari di vittime, poiché attengono alla funzione pubblica, e che si vorrebbe delegare per non assumersene la responsabilità, velando la delega di falsa sensibilità ed ipocrita rispetto, riproponendo nei fatti la visione arcaica e privata della giustizia, tutta interna al vissuto vittimario, viscerale, succube del cortocircuito rancore-odio-vendetta. All’opposto, se un qualcosa è giusto da un punto di vista civico, se è previsto dalle leggi, lo si faccia. Se non lo è, non lo si faccia, e non è che non lo si fa per non dispiacere ai familiari delle vittime. Della loro opinione o risentimento allo Stato non deve importare, deve esserne indipendente.

L’emancipazione della vittima, oltre a sottrarsi a queste ambiguità e tranelli, chiede di evadere dal ruolo vittimario, di liberarsi dello stigma da cui si è segnati, di rinunciare a vivere passivamente i benefici della condizione di vittima, tra cui l’innocenza oracolare o il credito perenne. Richiede di arrivare a cancellare il debito, che rimane comunque insoluto, purificando attivamente il ricordo della violenza subita, purgandolo del suo potenziale perennemente divisivo e distruttivo: liberare la memoria dal rancore, dalla zavorra di violenza vendicativa. Si tratta, spiccando il volo, di rinunciare spontaneamente al diritto al risarcimento ancestrale, che è l’unico modo per accostarsi al perdono in forma personale, per chi ci crede, lo pratica o lo cerca, oppure per partecipare alla più corale riparazione della lacerazione del tessuto sociale, pur conservando traccia e memoria degli eventi. Volgere il capo in avanti, al futuro, a nuova vita, poiché noi familiari di vittime siamo vivi, rimanendo pur sempre ancorati al ricordo del passato, ed additando percorsi felici di virtù da sperimentare consapevolmente, e gioiose, sorridenti imitazioni responsabili, anziché indossando plumbee corazze, zavorre soffocanti e paralizzanti. Consci di essere stati condannati ad un ergastolo emotivo da cui è difficile evadere, consapevoli che viviamo innocenti una vita molto diversa da quella che avevamo sognato, serenamente certi che nessuno si salva da solo.

Per i responsabili, emanciparsi significa dapprima lambire, poi lentamente apprendere ed infine condividere rimorso e pentimento, ri-scoprendo sentimenti ignoti, allontanati, rimossi, acquisendo coscienza e responsabilità sempre negate o rifiutate, prendendo cognizione del proprio e dell’altrui dolore, causato con scellerate pratiche di abuso, arroganti e narcisistiche. E lentamente, progressivamente, accettare nuove regole, riconoscere autorità finora ripudiate, contribuire ad emancipare il carcere dall’interno, con responsabilità e coscienza. Il cambiamento non è un compito, né uno scopo del gruppo, è semplicemente un’opportunità offerta; non si pensa di dover cambiare nessuno, ma esso è per certo il più fecondo risultato osservabile, consapevoli che non tutto dipende dal nostro lavorare assieme, e che probabilmente saranno altri a raccogliere il frutto del nostro lavoro di oggi.

In passato ho immaginato orgogliosamente di voler essere, con la mia presenza, macigno sulle vostre coscienze, ma ho anche sinceramente temuto di soffocarle. Meglio essere levatrice umile e gentile, felice osservatore della vita che nasce, del cuore che si risveglia, della coscienza che ritorna alla luce. Non si sa mai che cosa sarà, ma si sa che è vita, che può, fiorendo, dare il meglio di sé.

In molti mi avete detto che essere qui con voi è un insperato segno di vicinanza, di riconoscimento e di rispetto della vostra dignità. Quello che voglio dirvi con queste righe è che io stesso sono stato profondamente cambiato dal dialogo con voi, dal vostro lavoro ho appreso molto, mi avete arricchito più di quanto pensassi e mi aspettassi, pur senza confondere i ruoli e dimenticare: questa prossimità non vuole né guidare né assolvere, né plagiare né redimere. La salvazione è personale, la ricchezza del rapporto pure. Dal lavoro comune ognuno colga il meglio che può dare, traendolo da dentro di sé.

Giustizia Riparativa, dare senso al dolore delle vittime
Paolo Setti Carraro

Chi siamoNote sul metodo

Stelle di luce bugiarda

Buongiorno, sono Ignazio.

Quello che mi aiuta ad essere libero in carcere è un’azienda che si chiama Gruppo della Trasgressione, tra riflessioni, domande e confronti sul nostro passato criminale, utili per la nostra evoluzione e per migliorare la nostra vita famigliare e sociale. Non si finisce mai di imparare al tavolo e a ogni nuovo incontro con studenti e professori di diversi istituti.

Anche questi incontri con la scuola Clerici sono serviti tanto; essere alleati tra detenuti e studenti ha fatto nascere un grande progetto: i nostri racconti sulla nostra devianza a questi giovani studenti serviranno per un loro futuro migliore. Anche gli studenti, con le loro difficoltà e le loro storie, hanno fatto un lavoro. Creando canzoni e poesie, si sono messi alla prova; anche loro cercano una spinta. Mi sono commosso…

La domanda che ha fatto il Dottor Aparo sull’”Infinito senza stelle” richiama il mio passato. Anche io ho provato e trovato qui in carcere un infinito senza stelle, come se avessi avuto un cortocircuito, come se dentro di me si fosse spenta la luce; sono crollato e non riuscivo a rialzarmi. Giorno dopo giorno mi allontanavo sempre di più in quel buio. Non sentivo più la voce dei miei figli, non c’era più con me la mia famiglia, il mio lavoro, la libertà.

Ho perso tutte quelle stelle che la vita mi ha regalato, ma avevo anche costruito delle stelle fatte male da me. Solo oggi riesco a spiegarmi la mia colpa, che veniva proprio da quelle stelle costruite male; sono convinto che ho acceso nel passato una luce disonesta, fatta di desiderio spregiudicato di potere, denaro e successo.

Ecco perché bisogna riaccendere la coscienza e mettere quelle stelle nel posto giusto, fare in modo che non si spengano più, dare un senso alla vita propria, nel rispetto degli altri.

Devo molto anche al gruppo. Ho riacquistato il valore dell’onestà, il senso del proprio dovere, la responsabilità e la fiducia, anche da parte della Polizia Penitenziaria che mi ha offerto un valoroso lavoro. Questo è un vero successo per me ad oggi.

Ho ritrovato quella luce di speranza che i miei figli mi aspettano a casa per la Festa del Papà; anche questo ha ripulito quell’angolino di buio che viveva dentro di me.

È proprio il gruppo che ci invita a tenere accesa quella stella che abbiamo spento o perso nel passato o in carcere. Partecipando capisci il valore che offre questo gruppo, quella luce deve essere protetta proprio da noi stessi, deve essere sempre accesa per quei detenuti che ancora vivono nel buio, senza una speranza, perché più stelle frequentano, più forte illumineremo il pianeta di bene.

Ignazio Marrone

L’infinito senza stelle

Una vita senza stelle

Mercoledì scorso, all’evento che si è tenuto presso il teatro di questo istituto insieme con gli studenti della scuola Clerici di Brugherio, il Dottor Aparo ci ha invitati a reagire ad una frase: “L’infinito senza stelle”.

A primo acchito ho risposto: “Senza stelle? Non ci sarebbe vita!”.

Mi è venuto in mente una frase che ho letto giorni fa: “Per aspera ad astra”, ovvero, attraverso le asperità si arriva alle stelle. Rispondere in poche righe a cosa può voler dire “Un infinito senza stelle” sicuramente non è facile. Credo che la frase voglia dire che qualsiasi conquista è raggiungibile solo al prezzo di grandi sacrifici e molte difficoltà.

Sono stati tanti, nei vari secoli, gli scrittori, i filosofi, i poeti che hanno raggiunto le stelle attraverso i loro sacrifici.

Giacomo Leopardi, con la sua immensa opera “L’infinito”, ha tirato fuori una situazione in cui la possibilità visiva di guardare fino all’estremo orizzonte è impedito da un ostacolo: la siepe. È proprio la siepe ad attivare l’immaginazione del poeta che in un primo momento si raffigura mentalmente l’immensità dell’infinito.

I primi navigatori dell’antichità seguivano la rotta attraverso le stelle per navigare. Poi, quante volte abbiamo detto “Sei bella come una stella”, oppure “Gli amici veri sono come le stelle, non sempre si vedono ma sappiamo che esistono”, o ancora “Sei nato sotto una buona o una cattiva stella”, “Portare alle stelle qualcuno”, “Salire alle stelle”.

Io rapporto “l’infinito senza stelle” con lo stile di vita che ho condotto in questi lunghi anni; senza scendere nei particolari, direi che oggi, anche se privato della libertà di spazio, gli impedimenti soprattutto affettivi mi hanno condotto a un’analisi che mi ha liberato dalla schiavitù dell’arroganza.

Avevo già una vita che mi regalava tante ricchezze ma forse quelle che avevo le davo per scontato e non le apprezzavo abbastanza. Forse per bisogno di un’affermazione più gratificante, forse per spirito di ribellione verso quel contesto sociale che mi stava stretto, forse per il fascino di quel male che spesso si presenta nelle vesti di bene, o forse per tutti questi motivi messi insieme, ho cercato una vita differente.

L’altra metà l’ho passata rinchiuso in carcere, pagando le conseguenze delle mie azioni devianti. Oggi posso dire che, attraverso le asperità, ho raggiunto le stelle perché penso che, nel mio caso, i cambiamenti più significativi sono avvenuti a seguito di riflessioni e analisi personali, anche se ovviamente stimolate dal contesto detentivo e dal tavolo del Gruppo della Trasgressione, che mi ha permesso fare nuove conoscenze, di maturare nuove consapevolezze e di scoprirmi capace di emozionarmi.

Dopo tanti anni rinchiuso in un piccolo spazio che farebbe impazzire chiunque, dopo avere smesso di dare un senso al tempo che scorre, ecco che qualcosa cambia.

Come diceva Atenodoro: “Se tornerai agli studi, sfuggirai a qualsiasi sensazione tormentosa di stanchezza e di disinteresse nei confronti della vita propria e altrui; e non aspetterai la notte perché il giorno ti annoia, né ti sentirai di peso a te stesso e inutile agli altri, molte persone ti diverranno amiche e saranno i migliori a venire da te”.

Mentre Curio Dentato diceva con grande verità che preferiva essere morto piuttosto che vivere da morto: “Il peggiore dei mali è uscire dal rango dei viventi prima di morire”.

Per me, il peggiore dei mali sarebbe uscire da questo mondo che ho riscoperto, fatto di passione, di serenità, di semplicità, di intensità, di apprezzamento, come quello che mi sta regalando la Trasgressione con i vari progetti che abbiamo realizzato e stiamo realizzando; come quella stupenda esperienza che ho vissuto di recente al salone tirocini dell’Università Bicocca di Milano, insieme alle bravissime Carlotta e Anita.

È stata una giornata per me di emozione e di commozione: essere stato partecipe e protagonista in rappresentanza del Gruppo della Trasgressione e spiegare ai futuri tirocinanti, laureati, post-laureati che cosa fa il gruppo per il recupero dei detenuti è stata una sensazione incredibilmente bella perché mi avete permesso di essere una persona normale, malgrado il mio tragico passato criminale.

Come non parlare poi della partecipazione all’evento della Fabbrica del Vapore, che mi ha consentito di visitare il Cimitero Monumentale che sembra un museo a cielo aperto, con tutti i suoi sepolcri scolpiti da mani di sapienti artisti. Mi hanno fatto emozionare per le loro opere. Che sensazione!

Quanti pensieri in quel momento mi hanno invaso la mente! Pensavo alle persone che per causa mia non ci sono più, ai miei genitori, a tutte le persone che soffrono per me. Provavo tanta tristezza, tanto dolore, tanta vergogna.

Spero che attraverso questa mia consapevolezza di oggi, io possa lenire il dolore di ognuno di loro e dei loro famigliari.

Pasquale Trubia

L’infinito senza stelle

L’albero

Durante gli incontri a san Vittore abbiamo provato a riflettere su chi siamo e su cosa vorremmo essere, io avevo pensato ad un albero.

A settant’anni l’albero che sogno vorrei essere io. Radici profonde nel passato, un tronco alto e robusto nel presente, con una folta chioma di foglie, così figli, nipoti, amici, persone, la collettività di coloro che mi conoscono che possano ripararsi e sostare. Un albero capace di perdere e di ricostruire la propria chioma a seconda delle stagioni, con frutti da gustare e distribuire a chi ne abbia bisogno. Insomma un melo, un pero, un albicocco, un ciliegio.

E invece? Talvolta non riconosco le mie radici, anzi alcune volte le vorrei rinnegare, le vorrei diverse, mi colpevolizzo a causa loro, sono quello che sono e non posso cambiare posto né forma; non credo che la mia chioma dia poi così riparo e refrigerio ai miei cari, alle persone che conosco, alla collettività. Anzi, non sarò mica un peso, un onere, o peggio un arbusto inutile e vanaglorioso!

E poi sono davvero capace di imparare, di crescere, di rinnovarmi e di migliorare?

Sono stato in Cechia, in un posto dove la attrazione principale è un albero di circa 1200 anni: lo amano, lo curano, gli vogliono bene perché sta lì, nello stesso posto da così tanto tempo che la sua vecchiezza è diventata un pregio, una cosa da mostrare con orgoglio, non un onere, un peso. E tutti sperano che rimanga ancora per molto.

E poi i frutti, ma sono ancora buoni? Sono davvero ancora capace di produrne? E di distribuirli anche a chi ne abbia davvero bisogno?

E qui arriva il carcere e qui arrivano le persone che incontro a Bollate, a San Vittore, al Gruppo della Trasgressione. Qui arriva il mio impegno con Giuseppe, Giovan Battista, Raffaele… i miei amici che tanto mi danno ed a cui vorrei dare qualcosa anche io. A cosa servo io a loro? Non lo so, ma credo di sapere cosa servono loro a me: mi fanno sentire fortunato, amico, compagno, utile, mi fanno credere di avere anche io un piccolo ruolo e un piccolo posto nella loro vita, di stimolo e di accoglienza dei loro pensieri, delle loro speranze, della loro quotidiana fatica a stare in carcere, a stare in vita, a stare lontani dagli affetti, a pensare al loro futuro e a come potranno e possono essere utili a se stessi ed agli altri anche dietro le sbarre. A come possono recuperare la loro dimensione umana e non criminale a come possono ri-costruire la loro coscienza di uomini finalmente liberi e prepararsi ad una vita davvero libera, senza tornare di nuovo né a delinquere né in carcere. Non posso più fare a meno di loro e dei loro pensieri.

Durante poi gli incontri che facciamo a Bollate e a San Vittore alcuni amici mi regalano i loro scritti, che vorrebbero vedere pubblicati da noi in Voci dal Ponte. Ecco gli ultimi:
Luigi Valguarnera è detenuto in attesa di giudizio nella casa circondariale di San Vittore (ma ha già scontato altre pene), non solo si chiama come me, non solo prova a fare davvero un percorso di autocoscienza e di responsabilità ma scrive da un po’ poesie, testi e canzoni. Eccone uno: Nomademone, Luigi Valguarnera

Ma anche Giuseppe di Matteo, mio amico e carcerato a Bollate con cui condivido passioni ed amori per il mondo e per i nostri nipoti, per la vita, scrive bellissime poesie e talvolta me ne regala qualcuna, eccone due: Da venti anni, Giuseppe Di Matteo. Quest’altra è stata già pubblicata, ma mi piace troppo, ed è sempre di Giuseppe: Io vivo solo, Giuseppe di Matteo

Ma in carcere talvolta giochiamo e scherziamo soprattutto con i miei amici Giuseppe e Raffaele, Bergamasco uno,  Napoletano l’altro, che si e ci prendono in giro su poesia e ispirazione:

Se potessi…..Ma non possi
Se potessi mi pungessi
Con le spine della rosa
Che ti doneressi

Se potessi ti portassi
Lassù dove il vento dell’amore soffiassi

Se potessi io uscissi di corsa da questi posti
Se potessi ti raggiungessi

Ma non possi

Luigi Negrini

 

Da venti anni

Da venti anni abito nel cubo
Questo è il mio sgabello
Questo è il mio letto.

Alle pareti appeso con ordine maniacale
Il resto della mia vita

Da venti anni conosco ogni crepa
Del muro e del mio cuore

Ho paura di quello che troverò fuori
Fuori da mio cubo di cemento.

Da venti ani parlo
Alla luna e alle stelle

Nei lunghi silenzi delle notti
Cercando di far evadere il dolore.

Da venti anni penso
Al giorno che sarò libero

Allora avrò bisogno
Di altri venti anni
Per abituarmi a vivere

Giuseppe Di Matteo

Officina creativa

NOMADEMONE

Dalla vita, alla muta, al vento nel mentre, nel tempo.

Con un gemito senza peccato, sono nato, tra fatiche, delusioni di svariate perdizioni, fitte di illusioni….

Nel fango degli inferi sono finito.

Come i templi dentro di me di ceri accesi su altari spenti, di lacrime di sangue su salici piangenti, perparole dette come fendenti…

Ora mi fisso davanti ad uno specchio, stringendo nelle mani un crocefisso.

Confesso i miei peccati a me stesso.

Luigi Valguarnera

Officina creativa

 

 

I violini del mare contro l’indifferenza

Il 21 marzo scorso, dal palco di piazza Duomo, don Luigi Ciotti, ricordando le vittime del naufragio di Cutro, ha lanciato anche un intenso messaggio contro l’indifferenza al male. Angelo Aparo e Silvio Di Gregorio hanno voluto rilanciare quel messaggio con un progetto che ha coinvolto rapidamente altri partner e che è stato presentato ad Opera il 13 giugno.

Partner del progetto sono:

  • Issei Watanabe con due suite di Bach al violoncello
  • Don Luigi Ciotti, presidente di Libera
  • Dori Ghezzi, presidente della Fondazione Fabrizio De André
  • Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Casa dello spirito e delle Arti
  • Enrico Allorto, maestro liutaio della liuteria del carcere di Opera
  • Lucilla Andreucci, referente e anima frizzante di Libera Milano
  • Francesco Cajani, co-autore de Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine
  • Cristina Cattaneo, Medico legale, Coordinatrice scientifica del MUSA
  • Paolo Setti Carraro e Marisa Fiorani, entrambi familiari di vittime della criminalità e ponti tra Libera e il Gruppo della Trasgressione
  • Juri Aparo con la Trsg.band e il Gruppo Trsg
  • Le canzoni di Fabrizio De André

Servizio RAI NEWS

E nulla perisce nell’immenso universo, credete a me, ma ogni cosa cambia e assume un aspetto nuovo (Ovidio, Metamorfosi)

La trasformazione è anche l’attività principe del Gruppo della Trasgressione, con i detenuti che avevano fatto del disconoscimento dell’altrui fragilità il proprio mestiere e che oggi, in collaborazione con le istituzioni e con i diversi componenti del gruppo, si impegnano per riconoscerla dentro di sé, nelle scuole e sul territorio.

Il ritorno

Ieri mattina a San Vittore, mentre il nostro coach chiedeva a gran voce cosa ce ne possiamo fare di Hamadi, Roberto e di tutti gli altri giovani adulti del Reparto La Chiamata, ripensavo ad uno scritto di Armando Xifai del 2004 che ispirò poi un nostro primo esperimento da proporre in un laboratorio tematico per educatori scout del 2007 a Napoli.

Il titolo di quella sperimentazione era “Sulla cattiva strada” ovvero “appunti per una pedagogia della trasgressione”: un percorso alla fine del quale anche l’altro (che si è sempre considerato imperfetto in quanto “marchiato” dal sigillo di delinquente) diventa strumento di redenzione per sé stesso e, allo stesso tempo, per noi che amiamo farci chiamare società civile.

Buona Festa della Repubblica e buona (cattiva) strada.

Musica: La cattiva strada (F. De André – F. De Gregori), 1975 – by. Trsg. Band
Immagini: The Blues Brothers, USA, 1990                         
(edit by cescacuore, 2007)

Reparto La Chiamata