Il padre

I Greci antichi avevano capito molte cose. Tra le loro opere l’Odissea può ancora oggi trasmetterci messaggi preziosi che, tra l’altro, aiutano anche a chiarire alcuni concetti su cui anche noi del Gruppo stiamo riflettendo, accettando alcune interpretazioni o dubitandone.

Nell’isola di Itaca spadroneggiano i Proci, figure proterve che circondano con la loro tracotanza Penelope, regina dell’isola, rimasta sola a governare perché il marito Ulisse è partito per la guerra e, dopo anni, ancora non fa ritorno. La insidiano, si sono installati nella reggia dove passano il tempo tra gozzoviglie e alterchi. Insidiano la sua virtù di donna chiedendola in moglie e pretendendo che lei scelga uno di loro e insidiano nel contempo il suo potere, perché bramano il regno.

Penelope si difende come può, procrastinando la scelta fino al momento in cui avrà finito la tela che la vede impegnata ogni giorno. Ogni giorno diligentemente tesse e la tela si allunga ma poi la notte con altrettanta diligenza la disfa, accorciandola.

Telemaco, il principe figlio di Ulisse e Penelope, cresciuto senza padre e divenuto adolescente non sopporta più la situazione. È arrabbiato col padre perché è cresciuto senza di lui, gli sono mancati attenzione, affetto, insegnamenti, sicurezza che la presenza di un padre dovrebbe garantire. È arrabbiato, poco gli importa che suo padre sia un guerriero valoroso, un eroe di cui la società ha bisogno.

È molto arrabbiato ma capisce che senza il padre la situazione sua, familiare, dell’isola, sarebbe precipitata fino a un punto di non ritorno. E allora prende la sua prima decisione da uomo: va a cercarlo. Arma una nave, si procura l’equipaggio e lui, giovane che non si è mai allontanato da casa, inesperto di mare e digiuno di arte della navigazione, va a cercare il padre.

Reparto LA CHIAMATAGenitori e Figli

Nuccia Pessina

Sentirsi parte del mondo

Sono atea ma credo nell’uomo. Credo fortemente che l’essere umano abbia la necessità, dalla nascita alla morte, di sentirsi aiutato a comprendere se stesso, a farsi strada nel mondo per sentirsene parte vitale. Ognuno di noi sente il bisogno di essere supportato e affiancato lungo questo cammino, per riconoscersi ed essere riconosciuto per ciò che si è o che si vorrebbe diventare. Che sfida! Che lavoro e… che fatica!

Quanti di noi possono dire di avere avuto, nel percorso della propria storia, alleanze e collaborazioni che lo abbiamo supportato ed aiutato a scoprirsi e a valorizzarsi con un progetto credibile? Io, per prima, se penso a me stessa in adolescenza, ho immagini e sensazioni di frustrazione ed immane senso di disorientamento, condito con una buona dose di sfiducia ed il tutto accompagnato da paura del futuro e senso di inadeguatezza.

Sono sensazioni alle quali il più delle volte non troviamo una giustificazione o di cui non arriviamo a comprendere il senso e l’origine, la complessità. Molte volte si incontrano persone, adolescenti per i quali a tale complessità si aggiungono rabbia, arroganza, fonti di frustrazioni e malesseri tali da portarli all’abuso sugli altri e ai reati.

Bene, di fronte a loro e con loro, altri uomini hanno la possibilità di esserci! Con il reparto “La Chiamata”, esseri della stessa specie spalancano, gli uni agli altri, il portone alla bellezza ed al valore della propria esistenza. Persone, tutte le persone che saranno parte di questo progetto (detenuti, ex detenuti, studenti, psicologi, comuni cittadini, ecc.), dovranno scambiarsi emozioni, pensieri, vita.

Penso che attraverso la riscoperta della grandezza dell’essere umano e la frequentazione delle sue bellezze (letteratura, opere d’arte, scienza, filosofia), in questo reparto si debba dare a ciascuno, con lo sguardo, l’ascolto, il confronto, la possibilità di rendersi attivamente partecipi di questa immensità e di arrivare ad appropriarsene, a crescere e, perché no, a creare nuova bellezza. Ciò che di immenso e bello ha potuto creare un uomo, può e deve essere per altri un contenitore per sentirsene parte e uno stimolo per aggiungere la propria parte.

Spero e credo possibile che in questo reparto tutti possano giungere a sentirsi capaci e fieri di coltivare, anche attraverso la propria fragilità, le proprie potenzialità, fieri e capaci di guardare in faccia il proprio passato, ringraziandolo di essere tale e di proseguire il cammino, acquisendo ogni giorno nuova consapevolezza, responsabilità e il piacere di vivere per se stessi e per gli altri.

Reparto LA CHIAMATA

Ludovica Pizzetti

La parola come terapia

Una delle cose che mi ha colpita di più durante gli ultimi incontri nel carcere di San Vittore è stato l’uso della parola come terapia. Prendere parola davanti ad altre persone non è mai stato il mio forte, non intervenivo mai in classe, non rispondevo alle domande dei professori, nemmeno quando sapevo la risposta giusta. La paura di far brutta figura o di non essere all’altezza di quello che le altre persone dicevano mi ha sempre bloccata. Tante volte, poi, mi sono pentita di non essermi buttata, di non aver avuto il coraggio di parlare o di rispondere, di mettermi a nudo.

Mi ricordo il primo giorno che mi sono collegata al gruppo esterno online, tutta contenta ed emozionata di ascoltare gli altri con telecamera e microfono spento, come se fossi un fantasmino. La stessa cosa feci le prime volte in carcere. Ero convinta che andasse bene così, che bastasse starmene in un angolino ad ascoltare e ad osservare, a trascrivere tutto quello che sentivo sul mio quadernino.

Mi sbagliavo. Sono stata più e più volte (e per fortuna) incoraggiata dal professore a condividere con i presenti i miei pensieri e le mie emozioni. Inutile dire che, quando toccava a me, aprivo i rubinetti alla massima potenza senza dir nulla oppure tiravo fuori parole arrangiante in modo confusionario e disordinato, giusto per non fare scena muta.

Mi sono chiesta tante volte il motivo di questo mio atteggiamento, ma non ero mai riuscita a darmi una risposta che mi convincesse davvero. In questi giorni ci ho pensato ancora e forse una risposta l’ho trovata. Mi sono resa conto, da quando frequento il gruppo, che effettivamente la parola sblocca i pensieri che viaggiano incontrollati da una parte all’altra della nostra mente. Parlare permette di decifrare questi pensieri e, in questo modo, aiuta ad avere consapevolezza delle proprie emozioni.

Ecco perché mi riesce così difficile. Non sono molto brava a capire le mie emozioni, non riesco a decifrarle e a dar loro un nome. Questo mi porta ad arrabbiarmi e a piangere. Sto male e mi consumo, finché qualcuno mi ferma e mi aiuta a ragionare in maniera tranquilla. Ma che fatica!

Il problema è che dire qualcosa ad alta voce mi spaventa, come se la cosa diventasse vera per il fatto che la dico, che le do un nome. C’è stato un episodio in particolare nella mia vita che mi ha fatto rendere conto di quanto io faccia fatica a dire le cose ad alta voce e a chiamarle col loro nome, invece di trovare sinonimi che ne sminuiscano l’entità.

Ci sono state occasioni in cui, pur avendone bisogno, non sono riuscita a chiedere aiuto, a dire a voce alta che era successo qualcosa. Nella vita però sono stata fortunata, perché ho avuto accanto persone che sono state in grado di cogliere il mio malessere e di accompagnarmi piano piano alla decisione di parlarne con un professionista.

Questo mi ha aiutata a prendere consapevolezza di quanto mi era successo…  e non dico di essere riuscita a superare quel dolore al 100%, ma sono riuscita quanto meno ad accettarlo, a conviverci e a non farmene più una colpa.

Quando vedo persone che riescono a fare tutto questo io mi emoziono, perché ci vuole non poco coraggio. Spero col tempo di riuscire ad essere così brava anche io, di riuscire a togliermi di dosso questa maledetta insicurezza, perché a me, le persone che hanno il coraggio di essere loro stesse, piacciono tantissimo.

Camilla Bruno

Reparto LA CHIAMATA

Cavarmela da solo

Ciao mi chiamo O. Se devo pensare a una delle prime delusioni, forse alla prima volta che mi sono sentito davvero tradito, è stato all’età di 8 anni circa. Correvano i primi anni 2000 ed io ero un bambino curioso e con molta immaginazione, avevo molti amici nel quartiere, certo non erano dei santi ma erano i miei amici, loro c’erano.

I miei litigavano di continuo e forse per questo vedevo negli amici una seconda famiglia. Un giorno mentre siamo a tavola con mio zio, mio padre insulta mia madre. Lei ferita, nell’orgoglio, prende la bottiglia di vino che stava lì sul tavolo, la rompe e si squarcia il petto.

Tra il vino rosso e il sangue non sapevo più dove iniziava il sangue e dove finiva il vino. Pochi istanti dopo mi ritrovo sull’ambulanza con mia mamma.

Conoscendo già la mia situazione a casa, la polizia porta direttamente mio padre in carcere. Io e mia madre dopo la notte in ospedale veniamo accompagnati in una comunità per madri e figli. Il giorno dopo mi sveglio in questa casa nuova dove non conoscevo nessuno. Che ne sarebbe stato di tutti i miei amici?

Come potevo spiegare delle cose che non capivo neanche io? Mi sono sentito tradito dalla vita, da mio padre, da mia madre. Per molto tempo sono rimasto chiuso nel mondo che mi sono creato. Crescendo, ho cominciato a non fare più affidamento sui più grandi e a cavarmela da solo.

Sentivo che nessuno poteva capirmi, ma allo stesso tempo sono sempre rimasto fedele ai miei amici. Certo non tutti lo sono stati con me, ma sto imparando bene a selezionarli. Per esempio questo gruppo della chiamata mi sembra uno di quegli amici che possono lasciarmi qualcosa di buono e io spero di fare altrettanto.

Reparto LA CHIAMATA  – Percorsi della Devianza

La Chiamata al carcere di San Vittore # week 4

Chiamare le cose con il loro nome (la scelta).

“È proprio vero quel che dicono i filosofi: «La vita va compresa all’indietro». Ma non bisogna dimenticare l’altro principio, che «si vive in avanti»” (Søren Kierkegaard, Diario).

Reparto La Chiamata

Ho bisogno di un compenso, se no mi distruggo

“Cosa mi importa che non esistano colpevoli, che ogni cosa derivi semplicemente e direttamente da un’altra, e che io lo sappia! Ho bisogno di un compenso, se no mi distruggo. E un compenso non nell’infinito, chissà dove e chissà quando, ma qui, sulla terra e voglio vederlo coi miei occhi!”

Esito imprevisto ma alquanto gradito dei nostri cinque incontri al carcere di Opera su Delitto e Castigo, la intensa frequentazione con il Prof. Fausto Malcovati ha creato un’altra sinergia.

Suo l’invito per assistere ad una riduzione teatrale de “I fratelli Karamazov” a sua firma e al successivo dibattito:

-- Credits --

LE FORZE CHE MUOVONO LA STORIA. I CERCATORI. Nietzsche, Dostoevskij, Peguy - Letture Teatrali e dialoghi per la città contemporanea.

Fedor Dostoevskij: "...Il campo di battaglia è il cuore dell'uomo" (16.1.2012 - Centro culturale di Milano)

Massimo Popolizio legge "I fratelli Karamazov" (parte seconda, libro quinto)

Aprire le porte

Il reparto “La chiamata” per me è speranza: è qualcosa di presente perché dobbiamo attuarlo adesso; è qualcosa di futuro perché deve espandersi nel tempo e nella nostra realtà.

Molte persone non credono nella reintegrazione dei detenuti, si chiedono “ma davvero chi ha commesso dei reati può cambiare?”. E penso che a quest’ultimi e a questa società ci sia bisogno di dare una risposta anche nel concreto. E possiamo farlo con il nuovo reparto.

I detenuti possono cambiare e ritrovare la propria coscienza, ma questo avviene se c’è qualcuno che li guida. Questo progetto ha l’obiettivo di dare un ruolo a tutti i detenuti e agli ospiti in generale che ne faranno parte, dà la possibilità di essere riconosciuti come uomini e come cittadini. È importante sentirsi parte di qualcosa, trovare quegli obiettivi che prima mancavano, capire che non siamo destinati ad essere alienati dalla società.

I detenuti sono uomini che devono ritrovare la propria coscienza e a cui deve essere data la possibilità di esprimersi, di riflettere su sé stessi e sulla realtà che li circonda, devono essere stimolati da professori, studenti, volontari e attraverso attività culturali.

Come si può pensare che una persona possa reintegrarsi se non dispone degli strumenti giusti? Il reparto La chiamata è il punto di partenza che deve aprire la mente non solo alle persone detenute o alle guardie penitenziarie, ma anche a tutto il mondo esterno.

Da parte mia, sento in primo luogo il bisogno di impegnarmi nella diffusione di tutte le attività proposte dal gruppo, il bisogno di sentirmi utile per l’altro.

Tutti noi siamo diversi, ed è questa la bellezza dell’uomo, ognuno di noi ha qualcosa da dare e tanto da acquisire dagli altri. Unire le abilità dei vari membri e metterle a disposizione di tutti è una grandissima risorsa che deve essere sfruttata nel migliore dei modi. Dare qualcosa è fondamentale quanto l’apprendere qualcosa di nuovo. Il reparto ci offre questa possibilità e non possiamo tenerla nascosta. Si devono aprire le proprie porte al mondo nella speranza che esso sia pronto ad accoglierci, affinché cambi finalmente la visione del carcere e del detenuto stesso.

Chiara Palma

Reparto LA CHIAMATA

La Chiamata al carcere di San Vittore # week 3

Seminare.

Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire” [Eccle. 3, 1-3]

Reparto La Chiamata

Guidare il colpevole alla salvezza

La giustizia deve essere equa e condurre al perdono. Non c’è giustizia sino a che tutti non siano soddisfatti, persino coloro che ci hanno fatto un torto e che meritano una giusta punizione. I colpevoli non dobbiamo solo punirli, è necessario guidarli alla salvezza.

Affinché ciò accada è necessaria una riforma che parta dai vertici, da chi detiene il potere, conferitogli dal popolo, e ciò per favorire cambiamenti determinanti.

Se è vero che il carcere è una ottima scuola per diventare delinquenti, è altrettanto vero che a questo non si pone rimedio non con la violenza, l’indifferenza, la tracotanza di chi ci lavora. Per chi lavora in carcere, la cosa più importante è una preparazione culturale adeguata per relazionarsi con coloro che, giovani o meno giovani, vengono incarcerarti per la prima volta. È necessaria una grande esperienza e una corretta formazione professionale per trattare con persone di etnie, lingua e religione differenti e che hanno, per la maggior parte, la colpa di essere nate lì dove regnano l’emarginazione, la dittatura o la carestia.

La civiltà di uno Stato si misura anche dallo stato delle sue carceri. È vero, questa è diventata una frase fatta, tuttavia spero che chi ci governa la faccia propria e si impegni sin da subito a stanziare energie e denaro, ricordando che dove non vi è energia positiva non c’è colore, non c’è forma, non c’è vita. E solo con investimenti economici si può avere personale qualificato in grado di affrontare questa grande sfida.

Finché ciò non accadrà, io avrò paura di invecchiare, paura di diventare flaccido, rassegnato vile e sottomesso, paura di venire accoltellato in carcere da uno come me.

Matteo Franco Zaffran

Reparto La Chiamata

 

Un campo d’azione

Interdipendenza non somiglianza
Una prova di coraggio verso il cambiamento

Molti giovani adulti rinchiusi in carcere non hanno veramente avuto un’adolescenza. Per questa ragione, c’è bisogno di riunire il maggior numero di risorse possibili per il reparto “LA CHIAMATA”, che immagino come un campo d’azione e una prova di coraggio verso il cambiamento.

Gruppo operativo
Composto da persone capaci di stabilire un contatto con i giovani adulti, che tengano conto delle difficoltà presenti nella crescita umana, in funzione di una pratica educativa che prediliga la comprensione e la relazione, piuttosto che programmi e schemi rigidi.

Contesto
L’ambiente deve suggerire una nuova opportunità di relazione con il giovane. Secondo la teoria di Winnicott (1984), l’atto antisociale è una manifestazione di speranza, un tentativo di chiedere aiuto al mondo degli adulti. Per questo penso a un ambiente fisico e psichico che restituisca voce alla speranza attraverso un costante dialogo e una continua relazione con il giovane, per contenere l’emergere di sentimenti di sfiducia che lo possano indurre a disinvestire sul proprio futuro.

Reclutamento agenti
Credo sia importante reclutare agenti di polizia penitenziaria fortemente motivati a contribuire al cambiamento della persona detenuta e a tollerare e comprendere la fragilità umana. È importante avere nel reparto agenti con una specifica formazione sui fattori che contribuiscono alla costruzione di un’identità criminale e su come contrastare il risentimento, la rabbia e gli atteggiamenti oppositivi, che in luoghi come il carcere sorgono facilmente nel giovane adulto.

Presenza di Peer Support
In aggiunta al lavoro dell’agente motivato e formato, credo sia necessaria la presenza in reparto di detenuti o ex detenuti membri del Gruppo della Trasgressione con lunga esperienza di detenzione. Questo per mantenere un equilibrio tra rigore (agente di polizia) e solidarietà (detenuto o ex detenuto) e per contribuire alla salvaguardia della fiducia e della salute mentale del giovane (che, appena fermato, immagino spaventato e disorientato).

Collegamento con la famiglia e psicofarmaci
Se tra le figure familiari fosse presente un parente “portatore sano d’amore”, incoraggerei frequenti colloqui con il giovane adulto. Inoltre, questo accudimento potrebbe sostituire gli psicofarmaci, “Vorrei essere aiutato a vivere, non a dormire. Vorrei non non mi venisse consigliato di prendere una terapia”, (detenuto, San Vittore, 12.01.2023). “Se si partecipa a un progetto non c’è bisogno di dormire. Il controllo non si ottiene con lo psicofarmaco ma con ruoli che permettano l’esercizio della responsabilità”, (Aparo, San Vittore, 12.01.2023).

Guide credibili e Progetti
Il miglioramento psichico del giovane adulto è raggiunto se l’adulto di riferimento è credibile e capace di attrarlo, senza forzature o imposizioni, con progetti nei quali il giovane possa ricoprire un ruolo significativo (esempio: scrivere pensieri, riflessioni su un certo argomento proposto). L’approccio, saldamente collaudato dal nostro Gruppo, permetterebbe al giovane di prendere, in regime di totale volontarietà e libertà, consapevolezza del suo mondo interiore, dei propri sentimenti e dei propri conflitti.

Contaminazione col mondo esterno
Appuntamenti periodici frequenti per offrire uno stabile “nutrimento culturale” all’interno del reparto. Preparazione di spettacoli teatrali e altre forme d’arte, laboratori che offrano occasioni di apprendimento e di crescita personale. Inviterei docenti universitari, studenti delle scuole superiori, studenti universitari, artisti ma soprattutto gente comune, volontari disponibili al confronto e alla riflessione, persone portatrici di normalità.

Interventi del mondo imprenditoriale
Nella mia vita il lavoro è stato sempre importante, mi ha aiutato in molti momenti di difficoltà e per me ha sempre rappresentato un progetto in cui esercitare ruolo e responsabilità. Per questo sono convinta che il mondo dell’imprenditoria debba essere coinvolto nel progetto del reparto. L’imprenditore ha un ruolo economico e sociale ed è responsabile della crescita della persona. Per questi motivi potrebbe contribuire all’ideazione di progetti nei quali i suoi dipendenti formino le competenze della persona detenuta e la preparino a ricoprire una posizione lavorativa alla sua scarcerazione. Questo per me rappresenta il vero reinserimento nella Società: se lavoro sono nel mondo.

Comunicazione
Viviamo nella società dell’informazione. Dunque, sfruttiamo al meglio queste tecnologie per creare spazi sociali di discussione, di conversazione tra persone detenute e cittadini della società civile, in uno scambio continuo di contenuti e di emozioni, così da mantenere viva nei giovani adulti la fiducia d’investire nel proprio futuro.

In conclusione,
un insieme di forze eterogenee, tutte dedicate a stimolare la creatività delle persone detenute affinché possano svolgere delle attività nelle quali riconoscersi, creare condotte di responsabilità e occasioni di apprendimento. Un camminare insieme con lo scopo di accompagnare il giovane alla consapevolezza dell’offesa procurata, nel suo percorso di costruzione di un’identità nuova e nel suo reinserimento nella società. Soccorrere il giovane adulto e contemporaneamente proteggere gli altri.

Lara Giovanelli, Angelo Aparo

Reparto LA CHIAMATA