Lo specchio del mare

Probabilmente non ci si riflette abbastanza, perché le persone sono follemente attaccate alle apparenze. Non ci si riflette abbastanza, perché le apparenze rendono nitidi i confini tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non c’è possibilità di errore quando si scruta solo la superficie del mare tirando le somme di ciò che si cela al di sotto, senza alcuna intenzione di indagare oltre. E sembra che a molti vada bene così, che il mare sia solo uno specchio e che un detenuto sia solo un criminale, come se gli venisse revocato a vita il suo status di umano.

Non lo considero un pensiero sbagliato, in realtà: innegabilmente, il mare è uno specchio d’acqua e, allo stesso modo, il detenuto è un criminale e ci sono crimini che non possono essere perdonati. Tuttavia, non si può dimenticare la natura umana dell’individuo, non la si può tralasciare. Questo è stato uno dei temi più comuni all’interno del cineforum, inteso come l’uomo dinnanzi alle strade della vita, a volte difficili da considerare per diverse motivazioni, che sia la scelta di denunciare un fratello che ha commesso un grave crimine o quella di rubare una bicicletta. Si è affrontato anche, sempre relativamente al percorso futuro e alle scelte per andare avanti, il tema del passato, di come esso si imponga sulla nostra identità odierna e anche di come non sia poi così vincolante; Nonostante la sua importanza, il nostro passato non ci rappresenta e non ci misura, in alcun modo.

Non tutti agli incontri avevano le medesime  opinioni ma ciò ha favorito il dialogo, alimentando un clima di tranquillità e apertura.

Ho voluto fare un disegno che rappresentasse questa sensazione: Malgrado la distanza, le storie e le esperienze differenti, ho percepito una vera e propria connessione, un intreccio che ho voluto rappresentare con il caratteristico filo rosso che simboleggia il destino o, in questo caso, la relazione di ascolto.

Lara Mammi

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Ombre avvolgenti

Questo periodo è stato complicato. Trovo molta più difficoltà nello scrivere un testo compiuto in questa fase di lockdown che in qualsiasi altro periodo scolastico, se scolastico lo possiamo chiamare. Ho notato di non essere la sola ad aver preferito esprimere e raccontare l’esperienza del cineforum attraverso un’immagine, chi più astratta, chi più illustrativa, come la mia.

Ho voluto rappresentare l’esperienza con il gruppo della ‘trasgressione’ come un dialogo, quasi paterno tra uno studente e un carcerato. In realtà, le due figure non si trovano realmente nella stessa stanza, come si vede dai computer davanti a loro e dalle scrivanie, in particolare quello dello studente, piena di libri e oggetti casalinghi, unite l’una all’altra. L’uomo sta raccontando al ragazzo la sua esperienza, e pian piano allontana dal giovane l’oscura figura del male, ancora legata a lui, tenendola a bada, come a proteggerlo dagli errori che lui stesso ha commesso.

L’ombra del male è morbida e avvolgente, è appunto un’ombra che potrebbe essere sempre dietro di te, che ti potrebbe catturare in ogni istante, che potrebbe avvolgerti fino a stritolarti, perché è così semplice, quasi banale, cadere nel male.

Chiara Broglia

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Pratica di cittadinanza

Lunghe fasi dominate dal distanziamento sociale, a cavallo tra due anni scolastici, nell’impossibilità di toccarsi, mesi a dannarsi per imparare nuove piattaforme, con ansie vissute in solitaria. Perdere per strada ragazzi più fragili o demotivati, smarriti nei labirinti dei supporti digitali inadeguati o mancanti, delle connessioni che saltano. Scoprirsi una timidezza nel guardarsi in uno specchio, nell’usare un microfono davanti ad una platea spesso invisibile e impiegare mesi a preparare materiali didattici adatti alla nuova situazione.

Insegno lettere nel liceo artistico di Brera, ho faticato a padroneggiare la didattica a distanza e, nella mia antichità, mi sono posta quest’obiettivo: usare ogni strumento per realizzare il “non uno di meno”. La domanda è stata: come trasformare il problema in una risorsa? La risposta possibile: scegliere tra le pratiche didattiche quelle che sono risultate, nel tempo, più coinvolgenti.  Gli studenti avvertono se quello che fai è per passione o per forza. La condivisione del piacere che nasce dalla curiosità per gli altri, dalla conoscenza è il privilegio del mestiere di insegnante, è una delle rare scintille che si accendono nei ragazzi quando qualcosa ha funzionato oltre l’apprendimento della nozione.

Ho sentito così che in questo periodo di pandemia in cui la reclusione è divenuta, nelle differenze, condizione comune, aveva senso portare avanti il gemellaggio Brera in Opera che conduciamo da anni tra il nostro liceo e il carcere nelle due attività del Laboratorio della trasgressione per il triennio e del Laboratorio di poesia per il biennio. Sapevo che il dottor Aparo (generoso psicologo fuori dagli schemi, con lunghissima esperienza nelle carceri milanesi e coordinatore del gruppo della trasgressione), nell’impossibilità di continuare le attività in carcere, aveva dato inizio nel lockdown ad un cineforum che promuovesse una riflessione su banalità e complessità del male. Sua ambizione era estendere ad una dimensione geografica più allargata il gruppo, costituito da studenti del liceo, detenuti ed ex reclusi, studenti universitari, vittime di reati comuni o di mafia, operatori culturali e sociali, insegnanti. Il tema richiama il testo di Hannah Arendt, che s’intende declinare in chiave di attualità e nei vissuti di ciascuno.

Ci siamo inseriti come progetto Brera in Opera con la proposta di un pacchetto orario sullo stesso tema ma calibrato su un percorso curricolare e interdisciplinare di italiano, storia, filosofia, educazione civica. Abbiamo proposto una rosa di film su neorealismo e “dintorni” in cui il male banale e complesso assumeva una dimensione storica, sociale, individuale nelle declinazioni delle sopraffazioni o della riduzione consumistica degli uomini ad oggetti. E così, anche se non è stato possibile avere nel nostro liceo il gruppo dei detenuti di Opera, né andare nel carcere dove sono cessate durante la pandemia le visite degli esterni, come quelle dei familiari (reclusione nella reclusione) abbiamo scoperto che lavorare con il gruppo della trasgressione poteva riservare sorprese anche nella didattica a distanza.

L’obiettivo ambizioso di far comunicare mondi diversi ha funzionato ancora una volta. Ci si è parlati, ci si è preparati vedendo film, leggendone recensioni, ragionando insieme. Cosa rende così importante il contatto tra i detenuti e i ragazzi? L’intensità dell’esperienza con cui il mondo degli adolescenti ha colto la differenza tra il delinquente di un tempo e l’uomo di adesso che ha fatto una scelta di campo: passare dentro il lancinante percorso di coscienza del male compiuto, che non era percepito come tale, quando il processo di empatia era inibito, il dolore della vittima non avvertito.

Questo hanno testimoniato i ragazzi nel raccontare l’esperienza. Il laboratorio della trasgressione, nei lunghi percorsi psicologici condotti nelle carceri milanesi dal dottor Aparo, libera l’umano sepolto nel carnefice anestetizzato al dolore dell’altro. Non è un percorso facile, si diventa infami agli occhi dei detenuti irriducibili, che etichettano con questo termine chi entra nei percorsi di recupero e sceglie di dare un senso all’educazione come uscita dal lager dell’assenza della propria anima, della propria umanità. Qualcuno può iniziare per tornaconto, per abbreviare la pena o avere permessi, ma il calcolo è sbagliato, il conto non torna: guardarsi dentro, andare al centro del male prodotto ad altri fa male al nuovo sé stesso, quello che sente com-passione.

Salvarsi vuol dire perdere il sé stesso di prima, è il lutto di chi ha prodotto lutto. È una lingua nuova appresa oltre l’odio che albergava tra vittima e carnefice ferendoli entrambi. In questa lingua parlano oggi Roberto, Adriano, che attraverso la cooperativa di frutta e verdura in cui lavorano durante i permessi dal carcere, prestano soccorso in questo tempo di nuove povertà da covid, distribuendo gratuitamente a chi non ha. E’ una pratica nuova il gratuito, è il senso dell’umano ritrovato.

La presenza negli incontri di persone molto diverse ha portato valore aggiunto, una ricchezza inestimabile a detta degli studenti, che raccontano la loro. Ed ecco il bilancio: ragazzi che non intervengono in classe hanno parlato davanti a una platea virtuale di 70 persone. Lo stesso è accaduto nel laboratorio di poesia per il biennio (con il poeta Vittorio Mantovani, ex recluso di Opera e la regista teatrale Roberta Secchi) sul tema “la ferita e la cura”: una ragazza ha rivelato che si taglia, cosa che nessuno sapeva; lo studente con sordità ha parlato di questa sua ferita. A me e alla mia collega veniva da piangere. E ancora un paio di miracolose situazioni, inattese. Come se il silenzio intorno consentisse una concentrazione diversa, come se un’esposizione paradossalmente meno diretta producesse qualcosa di inconsueto. Insomma, non ho una teoria rigida sulla didattica a distanza, dipende da che tipo di scuola si fa.

Credo che vadano considerate alcune varianti che ci sfuggono, situazioni nuove. Indubbiamente un liceo ha uno spaccato familiare privilegiato rispetto ad altre scuole e la didattica in presenza è insostituibile perché fuori dalle aule cresce il divario sociale. In dad i più piccoli non accendono la videocamera, continuano a sfuggire, ragazzi fragili e in condizioni di svantaggio si perdono. Siccome sono una stalker, uno di loro, introvabile in altro modo, vado a cercarlo su instagram nella disapprovazione di mia figlia a cui chiedo aiuto per usare il mezzo: “Claudia, secondo te mi risponderà? E lei di rimando:” Secondo te? Ma ti pare che rispondono alla professoressa su Instagram?” Infatti aveva ragione lei: non mi ha risposto. Però è venuto all’incontro di poesia e mi ha mandato sue composizioni. Insomma, mi sembra utile osservare tutto e valutare con sguardo sgombro.

Ora che nella scuola l’educazione civica è divenuta oggetto di valutazione, sta a noi riempire di significato non nozionistico questa “disciplina” trasversale, evitando di creare un controsenso. Cosa è educazione civica se non pratica di cittadinanza attiva?

Cosa vuol dire apprendere la Costituzione? Non fare recita arida di articoli scritti con il sangue di chi ha pagato per consegnarcene l’eredità, ma attuare i suoi articoli. Per noi fare cosa viva della Costituzione significa praticare l’articolo 27 che fa dell’educazione dei detenuti riscatto e ricostruzione di sé, che rende lo scambio di conoscenze, attraverso una comunicazione sensibile, il valore più fecondo.

Giovanna Stanganello

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Ancora in piedi [I’m still standing]

Dice bene quel grande genio di William Kentrigde:  “il suono cambia quello che vediamo e quello che vediamo ha un effetto su quello che sentiamo”.

Uno stesso suono può dunque essere diversamente veicolato nella nostra mente a seconda delle immagini alle quali esso viene abbinato. E così può accadere che, per i casi della vita, una canzone che mi aveva sempre parlato – per tanti anni fino a quel preciso momento – di un amore disperato tra un uomo e una donna possa assumere, meravigliosamente quanto imprevedibilmente, il significato diverso di un legame tra un padre ed un figlio.

https://www.youtube.com/watch?v=pHZneOidj9A

Don’t you know I’m still standing better than I ever did /non lo sai che sono ancora in piedi meglio di quanto non lo sia mai stato ?

Looking like a true survivor, feeling like a little kid / sembrando un vero sopravvissuto, sentendomi come un bambino piccolo

I’m still standing after all this time / sono ancora in piedi dopo tutto questo tempo

“Papà, ma se era così tanto forte non poteva scappare prima dalla prigione?”

“Non credo, lo ha potuto fare solo grazie al potere della musica”, ho abbozzato io come risposta alla curiosità di mio figlio.

Devo ammettere che prima di scoprire il Kentrigde regista teatrale mi aveva colpito il Kentrigde disegnatore “in bianco e nero”, e più ancora quanto l’artista sudafricano è solito raccontare nelle interviste in merito a quella scatola che vide sulla scrivania di suo padre quando aveva l’età di 6 anni. Credendo contenesse cioccolatini, la aprì e vi trovò invece “immagini di una donna con la schiena spazzata via dai colpi d’arma da fuoco, di qualcun altro di cui la metà del viso era visibile”. Questo perché il padre, Avvocato di Johannesburg, un anno prima aveva assunto la difesa delle famiglie delle vittime del massacro di Sharpeville (21 marzo 1960 – la polizia sparò sui dimostranti, uccidendo 69 persone di colore).

Nell’osservare le animazioni di Kentridge si nota come la cancellatura di un tratto di matita non viene utilizzata per eliminare un errore quanto per dare costruzione al filmato. Allo stesso modo mi ha sempre colpito il fatto che l’artista difficilmente utilizzi un foglio bianco per i suoi disegni ma parta sempre da qualcosa già realizzato in natura. Come se per riprendersi da quello shock avesse trovato nell’Arte il giusto vaccino per restituire al dolore subìto un significato più profondo, che nulla ha a che fare con il dimenticare quanto piuttosto con il lasciare riemergere quello che è stato senza che di conseguenza quello che sei diventato  venga per ciò stesso rimesso sullo sfondo.

Allo stesso modo anche questo 2020 ci ha regalato, anche recentemente in diretta Zoom e sempre complice l’infaticabile Juri Aparo, testimonianze di padri che riescono a cogliere – nel tempo lungo della pena detentiva – l’occasione per tentare recuperare il loro rapporto con i figli (anche essi, in questo senso, vittime dei reati da loro commessi e congelati negli affetti di un tempo passato).

Ed è così che, alla fine di quest’anno così difficile per tutti (vittime o carnefici poco importa anche durante questa pandemia) e così inaspettatamente faticoso anche per me, ho pensato fosse utile ripartire da quelle parole rosa scritte da mia figlia per la Giornata della memoria e dell’impegno, rimaste appese sulla porta della nostra cucina nelle settimane successive del nostro lungo lockdown milanese.

E custodire tra le cose che mi hanno più utilmente sconvolto l’immagine di Ulisse in un letto di ospedale, alla quale – nel mezzo del mio cammino che è stato fortemente segnato dall’esperienza del Gruppo della Trasgressione e dall’incontro di molti Familiari di vittime – oggi posso anche io aggiungere un suono (potere della musica, altra medicina di questo triste 2020): “sono ancora in piedi”.

Una scena dell’opera lirica «Il ritorno di Ulisse in patria» di Monteverdi [allestimento di William Kentridge]

Ma, potendo scegliere, non voglio “sembrare un vero sopravvissuto” quanto piuttosto “sentirmi come un bambino piccolo” che è stato (ri)generato da una esperienza terribile. Perché – davvero – sono le nostre fragilità, se affrontate, a renderci più forti.

Con affetto e riconoscenza, nella speranza di rivedervi tutti di persona nel 2021 per continuare insieme il nostro viaggio finora così fecondo.

Esperienze che (in)Segnano

Andrea Martina Sinigaglia, Matricola: 848264
Corso di studio: Scienze e Tecniche Psicologiche
Tipo di attività: Stage esterno

Periodo: dal 5/10/2020 al 15/12/2020
Titolo del progetto: Il Gruppo della Trasgressione, Esperienze che (in)Segnano

 Caratteristiche generali dell’attività svolta:
istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

Il Gruppo della Trasgressione è una associazione che si occupa della tematica della devianza agendo sia all’interno degli istituti penitenziari che all’esterno. L’obbiettivo è quello di ideare e mettere in pratica progetti di prevenzione e contrasto alla delinquenza, ma anche quello di una ‘riabilitazione’ dei detenuti che, grazie al contatto umano e all’interscambio di emozioni ed esperienze, hanno la possibilità di interfacciarsi con una realtà extra-carceraria culturalmente e intellettualmente appagante così da costruirsi le basi per un futuro migliore. C’è tanta possibilità di crescita e di miglioramento, sia per i detenuti che per gli altri componenti del gruppo (professionisti del campo e famigliari delle vittime) ma anche, e molto, per gli studenti e tirocinanti che si affacciano a questa piccola realtà con un grande progetto, il Gruppo della Trasgressione.

Il tutto si fonda per lo più sulla partecipazione ad incontri settimanali di vario tipo. Al momento, causa pandemia, non è risultato possibile svolgere incontri all’interno delle carceri con cui il Gruppo collabora (Opera, Carcere di Bollate e San Vittore) ma si è rimediato a ciò tramite l’utilizzo della piattaforma Zoom. In particolare, gli incontri fissi svolti settimanalmente erano/sono: il Cineforum sulla Banalità e Complessità del Male il lunedì pomeriggio, il Progetto sulla Genitorialità Responsabile il martedì pomeriggio e, a settimane alterne, la Palestra della Creatività e il Mito di Sisifo il giovedì pomeriggio. Nel corso della settimana vengono poi saltuariamente svolte ulteriori attività di vario tipo legate al fatto che l’associazione è attiva sul territorio milanese e regionale e prende parte a diverse attività/progetti culturali di varia natura.

Elemento fondamentale di tutto è la comunicazione e condivisione dei propri pensieri, emozioni ed esperienze; non solo da parte dei detenuti/ex-detenuti ma anche di tutti gli altri componenti del gruppo, compresi gli studenti e tirocinanti passeggeri. È difatti richiesta e ben accolta la piena partecipazione di tutti in quanto è solo così che si può attuare, e anche solo pensare, una possibile crescita e miglioramento personale e sociale.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Ciò che viene chiesto, e caldamente consigliato, ai vari tirocinanti è di mettersi nel ruolo di partecipante attivo. Un vero e proprio membro che, assieme al gruppo, collabora nei vari progetti e può aiutare sia fisicamente tramite la stesura dei verbali dei vari incontri, la recitazione-improvvisazione all’interno della rappresentazione teatrale del gruppo, il Mito di Sisifo, eccetera; sia concettualmente condividendo le proprie idee, opinioni ed esperienze sulle varie tematiche affrontate dal gruppo.

La partecipazione attiva al gruppo non è una regola imposta ma una opzione alla quale si viene incoraggiati, pur nella libera scelta del singolo tirocinante. Io, per mio avviso, penso di essermi messa molto in gioco e mi sento di consigliare anche ad altri eventuali stagisti di fare lo stesso in quanto non comporta null’altro che un beneficio umano e professionale. Il gruppo nella sua totalità è in grado di metterti in contatto con te stesso come persona con le proprie fragilità e punti di forza e metterti anche in contatto con gli altri così da aiutarsi reciprocamente ed evolvere insieme.

Il ruolo che ho svolto è quindi quello di membro del gruppo e per il gruppo: partecipando attivamente agli incontri, contribuendo alla stesura dei verbali degli incontri, lavorando in gruppo per la realizzazione di alcune interviste, recitando-improvvisando per la rappresentazione teatrale ed infine contribuendo scrivendo e leggendo un testo personale per il progetto sulla violenza contro le donne in cui il gruppo è stato coinvolto.


Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Le attività concrete svolte dal/con il Gruppo della Trasgressione riguardano in primis la partecipazione agli incontri settimanali fissi, già precedentemente citati. In particolare, il lunedì pomeriggio si svolge il cineforum sulla Banalità e Complessità del Male. Questo è un progetto che consiste nella scelta e visione di alcuni film inerenti alle tematiche della devianza, del male e della fragilità umana e successiva discussione degli stessi tramite dibattito. Il periodo socialmente difficile che stiamo vivendo a causa della pandemia ha costretto allo svolgimento degli incontri settimanali in versione online, tramite la piattaforma Zoom. Vi è quindi un incontro in cui solitamente una ventina di persone si interrogano sul film visto cercando delle corrispondenze tra quest’ultimo è il tema principe del progetto che è la complessità e banalità del male.

Importante sottolineare come il titolo del cineforum viene estrapolato dall’omonimo libro di Hannah Arendt in cui con il termine ‘banalità’ non ci si riferisce al significato enciclopedico più conosciuto di superficiale, semplice, eccetera; ma si vuole invece far riferimento alla capacità del Male di essere così pervasivo e insidioso che, come una erbaccia infestante, si fa largo nella quotidianità di ognuno di noi.

Il progetto prevede la possibilità di condividere gli incontri e ciò che ne viene estrapolato con gli studenti delle scuole così da poter essere strumento di dialogo, riflessione e prevenzione nei giovani, motori della futura società. Nel mio percorso di tirocinio ci sono stati 3 incontri che hanno visto coinvolti gli studenti del liceo artistico di Brera – Milano e, in uno di essi ha partecipato anche il regista del film scelto. Ritengo che per i ragazzi coinvolti possa essere un progetto molto interessante anche perché si fonda su due strumenti (il cinema e la tecnologia) entrambi a loro molto congeniali e ne evidenzia le possibilità di utilizzo e crescita.

Il secondo incontro settimanale fisso riguarda invece un progetto nuovo intitolato ‘Genitorialità responsabile’. Quest’ultimo si basa sul fatto che spesso il rapporto tra figli e genitori detenuti incontra molte difficoltà, in primis date le limitazioni spazio-temporali legate all’ambiente carcerario e strutturazione dei colloqui con i figli e, in secondo luogo, perché capita spesso che i figli di detenuti sviluppino un senso di odio e rancore verso le autorità penitenziarie, e non, e le istituzioni. È un progetto volto a sfruttare la condivisione di proposte ed esperienze personali al fine di trovare metodi per creare una migliore possibilità di rapporto genitoriale nelle carceri e per prevenire l’eventuale devianza dei figli di detenuti.

C’è infine l’incontro del giovedì pomeriggio dove vengono alternati due progetti: il Mito di Sisifo e la Palestra della creatività. Quest’ultima si pone come obbiettivo quello di confrontarsi su varie tematiche e dinamiche organizzative di gruppo per poter ideare nuovi progetti o eventualmente migliorarne di già avviati. Il Mito di Sisifo è invece una rappresentazione teatrale del Gruppo della Trasgressione. Nasce dall’idea che il mito greco di riferimento possa essere una buona rappresentazione del percorso di un adolescente, che commette prima atti delinquenziali e che poi intraprende un percorso che lo metterà di fronte alla propria coscienza e gli permetterà di ritornare un uomo nuovo e utile alla società.

Il mito permette di affrontare molteplici tematiche care al gruppo quali: l’arroganza dell’uomo, il conflitto con le figure autoritarie e genitoriali, la necessità dei genitori di essere figure credibili agli occhi dei figli, la seduzione e tentazione del male, il bisogno degli adolescenti di credere in un progetto futuro, eccetera. Il tutto si svolge attraverso la recitazione improvvisata dei vari membri del gruppo che, dopo aver conosciuto la narrazione del mito e compreso i concetti principali che devono trapelare all’interno del recitato, si immedesimano in un personaggio ed improvvisano dei dialoghi. Il fatto stesso di recitare una parte permette all’attore del momento e agli ascoltatori di comprendere e riflettere sulle tematiche prima evidenziate.


Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

Il coordinatore del Gruppo è il dottor Angelo Aparo che è la figura principale di riferimento per ciascun membro del gruppo. È per i detenuti colui che gli tende la mano e offre la possibilità di mettersi allo specchio e riflettere su sé stessi, ma anche mettersi di fronte agli altri e affrontare il proprio passato. Per gli studenti e tirocinanti è colui che coordina gli interventi all’interno degli incontri, che ci spinge alla partecipazione attiva e che nei suoi interventi condivide le sue conoscenze ed esperienze sulla psiche umana. In generale, il dottor Aparo è il collante del gruppo senza cui non sarebbero mai stati possibili tutti i progetti e interventi sociali avviati.

La modalità di verifica delle attività svolte si basa per lo più sulla partecipazione del tirocinante all’interno degli incontri del gruppo e sulla stesura dei verbali degli incontri che vengono condivisi in una cartella drive e controllati dal coordinatore.


Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

Tra le conoscenze acquisite all’interno di questo percorso di stage vi sono in primis quelle relative al contesto fisico carcerario e le dinamiche psicologiche e sociali che avvengono al suo interno. Su questo tema, all’interno del Gruppo, ne discorrono per lo più i detenuti/ex-detenuti portando al centro della discussione le proprie esperienze personali. Interventi di questa tipologia inoltre vengono spesso stimolati e intavolati dalle curiosità dei tirocinanti. A me in primis è capitato più di una volta di chiedere quali dinamiche si istaurassero nei rapporti tra i detenuti dopo che uno di essi entrava a far parte di una realtà come il Gruppo della Trasgressione.

Il dottor Aparo stesso è stata un’immensa fonte di conoscenza perché in ogni suo intervento inserisce nozioni e concetti psicologici su varie tematiche. Anche nella stesura dei verbali mi sono spesso resa conto che la trascrizione dei suoi interventi risultava un passo fondamentale. Ha la grande abilità di saper mettere la propria esperienza e conoscenza al servizio degli altri o, per meglio dire, al servizio di chi vuole e agisce per usufruirne.

Oltre a tutte le conoscenze generali e professionali strettamente legate al lavoro dello psicologo nelle carceri e nel sociale, ritengo di aver appreso anche moltissime conoscenze sulle dinamiche di gruppo, l’organizzazione che un gruppo può e dovrebbe avere, l’eventuale struttura gerarchica, il rispetto che ci deve essere all’interno di un gruppo e anche la forza della condivisione e collaborazione per un progetto comune.


Abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)

La principale abilità che ritengo di aver acquisito, non ancora del tutto, da questo percorso è quella di saper interloquire con gli altri e mettersi in gioco portando al centro dell’attenzione e della discussione sé stesso con le proprie opinioni, esperienze, proposte. Come già detto, il Gruppo sprona alla partecipazione e, se questa occasione viene colta, ciò permette al tirocinante di imparare a mettersi in discussione e magari acquisire anche maggiore sicurezza in sé stesso. Si impara in primis a parlare in pubblico con persone che non ti conoscono e che tu non conosci, fattore non scontato, e a condividere con loro in modo chiaro i propri vissuti e credenze personali.

Altro pacchetto di abilità che mi sento di aver acquisito grazie a questa esperienza riguarda tutto ciò che ha a che fare con le dinamiche e la vita di un gruppo. I gruppi richiedono dei modi di confrontarsi e relazionarsi con gli altri e di rispettare le persone che ne fanno parte e i ruoli che ricoprono. Saper lavorare in gruppo è un’abilità molto importante sia in ambito professionale che di vita sociale in generale. Altra abilità fondamentale nel lavoro di gruppo e negli incontri con il Gruppo è stata la capacità di ascolto attivo.

Non mi sento però di aver acquisito abilità complete in quanto c’è sempre da migliorare e da poter imparare ed è anche per questo che ho deciso di rimanere all’interno del Gruppo anche una volta terminato il mio percorso di tirocinio.


Caratteristiche personali sviluppate

Il Gruppo della Trasgressione ha la capacità di metterti di fronte a te stesso; grazie al Gruppo impari a conoscerti con le tue debolezze, fragilità e punti di forza e impari a conoscerti anche in relazione agli altri. Non sei da solo, sei circondato da persone che ti accolgono e si rendono disponibili a prenderti per mano e accompagnarti in una tua crescita professionale e umana. Soprattutto per i giovani penso che il gruppo abbia una potenzialità enorme sotto questo aspetto.

Penso di aver imparato una cosa molto importante dal Gruppo: non c’è bisogno di fare tutto da soli e non è sbagliato chiedere aiuto agli altri. Sono sempre stata molto reticente nell’affidarmi al prossimo in quanto spesso i risultati ottenuti sono stati il fatto che mi venissero rinfacciate determinate situazioni piuttosto che il rifiuto aperto. Ho però capito che il problema non risiede nell’affidarsi al prossimo e credere in lui ma piuttosto nello scegliere adeguatamente la persona/persone e ciò per cui chiedere aiuto. Il Gruppo è un’entità completa che si rende disponibile ad accogliere le richieste di aiuto dei suoi membri, anche le richieste non esplicite o che magari la persona in questione non sa nemmeno di avere. Ma il Gruppo c’è, sempre e incondizionatamente.


Altre eventuali considerazioni personali

Il Gruppo della Trasgressione è possibilità. Possibilità di crescita, cambiamento e maturazione. Non solo per i detenuti/ex-detenuti ma per chiunque ne entri a far parte.

La cosa più bella è che spesso gli studenti e tirocinanti iniziano questo percorso con l’idea di dover aiutare gli altri, del resto il progetto lavorativo legato alla psicologia si fonda spesso sul lavoro per il prossimo. Questo Gruppo però ti mostra come spesso sono gli altri ad aiutare te, anche quando questo aiuto non lo stai cercando.

Per concludere è stata un’esperienza molto bella e stimolante che mi sento di consigliare caldamente a chiunque stia cercando un percorso di tirocinio.

 

La finestra rotta di San Vittore

Carla Chiappini intervista Angelo Aparo

Aparo: sono nato a Ragusa nel ’51, la mia famiglia è piuttosto piccola, quand’ero bambino i pochi parenti di mio padre erano negli Stati Uniti; mia madre, invece, aveva genitori e sorelle che sono stati per me un allargamento della mia famiglia. Sono stato il primo figlio di tre sorelle e, fra l’altro, maschio in una famiglia dove abbondavano le femmine. Quando venivano le feste, Natale, Capodanno, i morti (A Ragusa i giocattoli li portano i morti e non Babbo Natale), avevo tutto l’affetto che un bambino può desiderare; insomma ho vissuto nel lusso.

Domanda: sei stato in Sicilia fino a quando? Hai studiato anche in Sicilia?

Aparo: Ho studiato in Sicilia fino al liceo, dove ho perso un anno. Dopo il diploma sono andato in Germania a studiare, ma, tra l’anno perso e il tempo speso in Germania per gli esami di lingua, non ho fatto in tempo a chiedere il rinvio per il militare, che ho dovuto iniziare quindi quando avevo ancora 20 anni. L’ho fatto a Roma dove ho frequentato anche l’università. Dopo la laurea, a 26 anni, sono venuto a Milano, dove vivo ancora oggi.

Domanda: hai cominciato la tua professione subito in carcere?

Aparo: il carcere è arrivato dopo due anni che vivevo a Milano. Conclusa l’università, nel 1977, mi sono dato da fare per lavorare e, tra le tante cose, ho anche avanzato la richiesta per lavorare in carcere. Inserito nell’elenco degli esperti ex art. 80, ho cominciato a fare lo psicologo a San Vittore nel ‘79. Prima, per guadagnare qualcosa, avevo fatto ricerche di mercato e supplenze nelle scuole medie.

Domanda: cosa hai trovato in carcere? Cosa ti è piaciuto e cosa no di quell’inizio del ’79?

Aparo: Per i primi due anni ho fatto delle ore anche nel carcere di Varese, poi solo a San Vittore. Non è che amassi particolarmente lavorare con i detenuti, ma, visto che ero là, ci parlavo e giorno dopo giorno mi sembrava di capirci qualcosa. Degli inizi ricordo qualche conflitto con un direttore, il dott. Cangemi. C’erano i vetri della finestra rotti nella stanza dove incontravo i detenuti e dove stavo 4 ore seduto con 13 gradi a congelare, ma lui diceva che bastava mettere la maglia di lana. Per fortuna c’era una vice direttrice della quale sono stato e sono molto amico, Giovanna Fratantonio; forse è anche responsabilità sua se ho continuato a lavorare in carcere. Negli anni ho sfiorato tanti direttori con cui avevo scarsi rapporti fino a quando è arrivato Luigi Pagano con il quale sono riuscito a comunicare meglio. Tra l’altro, il Gruppo della trasgressione è nato quando c’era lui; non fosse stato così, credo che non sarebbe mai partito.

Domanda: in teoria, sei quello che da più tempo frequenta San Vittore quindi è importante per me capire che cosa è cambiato in questi lunghi anni. Cosa ricordi dei primi anni e come è cambiato il tuo lavoro in questi anni in carcere?

Aparo: credo che il carcere sia un mondo in cui il direttore incide pesantemente su tutto; non è come un treno che, se deve fare la tratta Milano-Roma, la fa abbastanza indipendentemente dalle idee politiche del capotreno. Detto questo, c’è stato un tempo in cui qualche volta uscivo dall’ufficio e vedevo per terra un laghetto di sangue; era l’epoca in cui i conflitti fra detenuti venivano “risolti” a coltellate, ancor di più i contrasti tra detenuti comuni e detenuti per reati sessuali. I miei primi anni a San Vittore sono stati anche caratterizzati dalla presenza delle BR. Le BR non ammazzavano in carcere le persone, ma contribuivano a mantenere un clima vivace… una volta alcuni di loro mi hanno pure mezzo sequestrato per un paio ore. Poi mi hanno lasciato andare perché abbiamo concordato pacificamente che la cosa avrebbe comportato danni per tutti. 

Per quello che avveniva a quei tempi, nei miei primi 18 anni ho svolto il mio ruolo più o meno normalmente, cioè facevo con i detenuti dei colloqui in previsione di una relazione finalizzata al programma di trattamento; questo faceva lo psicologo ex art. 80! Oggi ci sono molti più psicologi e con i detenuti si può avere un rapporto meno frettoloso. Negli anni ho visto passare generazioni di psicologi e affini. Dico “affini” perché gli “esperti ex art. 80” potevano essere criminologi, psicologi e sociologi. Ma in pratica questi “esperti”, pur con professionalità nominalmente diverse, facevano la stessa cosa, o meglio, facevano quello che passava loro per la testa, senza alcuna indicazione su come procedere. 

Una cosa che da subito mi ha molto colpito in carcere è che non c’è mai stato qualcuno che indicasse cosa ci si aspetta da uno psicologo. Si dovevano produrre le relazioni, ma non si è mai discusso né sono mai stati indicati i criteri per scriverle. Non credo che adesso sia molto diverso. In 41 anni di esperienza non ho mai sentito di un gruppo di studio dove ci si chiedesse come procedere nel colloquio con i detenuti e poi nella stesura della relazione. Dopo i primi 18 anni di lavoro, mi sono detto che, per cominciare a capire cosa passava per la testa dei detenuti, sarebbe stato il caso di provare qualcosa di alternativo e da lì è nato il Gruppo della Trasgressione.

Domanda: A un certo punto tu hai cominciato a pensare al gruppo ma anche alla società esterna che entrava in carcere

Aparo: quello che nei primi 18 anni di esperienza avevo sentito dire ai detenuti mi suggeriva che loro sapessero e si chiedessero ben poco in merito alla vita delle persone che lavorano, tabaccai e cassieri compresi. E dunque, sì, fra i primi obiettivi del gruppo c’era e c’è quello di favorire un confronto costante e battagliero fra detenuti e comuni cittadini. In questo sono stato avvantaggiato dal fatto che nel gruppo c’era Sergio Cusani, che era un polo di attrazione un po’ per tutti, dentro e fuori. 

Il gruppo era appena nato e già arrivavano persone di ogni genere, cantanti del calibro di Ornella Vanoni, Enzo Jannacci, Roberto Vecchioni; presentatori televisivi come Fabio Fazio o Chiambretti; giornalisti come Enzo Biagi, filosofi come Gianni Vattimo e Massimo Cacciari, genetisti come Edoardo Boncinelli, teologi, medici, antropologi e tanti nomi importanti di diversi settori. Diverse volte era venuto anche un virologo di cui ero amico. Ognuno di loro parlava della propria materia e cercava insieme con me e con i detenuti quali collegamenti si potessero cogliere, quali analogie si potessero far fruttare, in termini di conoscenza o anche solo di pura suggestione, fra alcuni aspetti delle rispettive materie e la spinta dell’uomo a trasgredire. 

Di certo queste persone non venivano per me; a portarli dentro erano Sergio Cusani ed Emilia Patruno, giornalista di Famiglia Cristiana. Con loro due e con un avvocato, a sua volta detenuto e molto motivato, il gruppo è partito a tutta velocità. Sergio Cusani e l’avv. Spada hanno avuto un ruolo fondamentale nel motivare gli altri detenuti a impegnarsi in modo sistematico. Ogni settimana loro due scrivevano il verbale delle riunioni e ogni settimana, grazie anche a Emilia Patruno, arrivavano al gruppo nuovi stimoli importanti, spesso anche parenti di vittime: Paolucci, il padre di un bambino ucciso da un pedofilo; la Bartocci, moglie di un gioielliere assassinato; la Capalbio, sorella di un tabaccaio ucciso durante una rapina.

Domanda: Il carcere non ti ha mai dato obbiettivi perché non li dà mai a nessuno, però tu quando hai pensato al gruppo avevi sicuramente un obbiettivo o più obbiettivi, in particolare cosa volevi da quel gruppo in cui hai investito e investi un sacco di energie e competenze?

Aparo: accanto all’obiettivo di favorire il confronto col mondo esterno, direi che il gruppo è nato perché non volevo che i detenuti parlassero con me solo in funzione della relazione da inviare al magistrato. Uno che fa lo psicoterapeuta è abituato a parlare con persone che ti confidano i loro pensieri, le loro paure perché hanno bisogno di essere aiutate, non perché hanno bisogno di uscire dal carcere. Fare psicoterapia significa aiutare le persone a dialogare con i propri conflitti e questo all’epoca in cui a San Vittore c’era uno psicologo per oltre 1000 detenuti era certamente impossibile. Per il detenuto, anche in considerazione del poco tempo che c’era per parlarsi, risultava molto più facile raccontare o inventare quello che nella sua fantasia avrebbe dovuto indurre lo psicologo esaminatore a scrivere una relazione favorevole alla misura alternativa.

Mi si potrà osservare che uno psicologo bravo dovrebbe essere capace di andare oltre quello che il paziente gli dice. Sarà pure, rispondo io, ma, fin quando il detenuto è essenzialmente una persona che vuole uscire dal carcere, egli non potrà essere un paziente e lo psicologo non potrà essere uno psicoterapeuta, cioè il partner di una ricerca condotta in due. In pratica, sto dicendo che dovresti riuscire a motivare il detenuto, almeno nel tempo del colloquio, a comportarsi da paziente, nonostante le serrature che egli vede attorno a sé lo inducano a guardare il mondo da carcerato. Ma questo è molto difficile se l’unica ragione per cui detenuto e psicologo entrano in contatto è costituita dalla relazione per il magistrato e se a commissionare la relazione è la direzione del carcere.

Proprio per questo, un certo giorno del settembre del ’97, dopo avere raccolto con l’aiuto di Sergio Cusani una ventina di detenuti attorno a un tavolo, il gruppo è nato con un discorso esplicito e abbastanza rude, che suonava più o meno così: <<cari signori, da 18 anni ho colloqui con detenuti di questo carcere, ma vi sento dire cose superficiali, quando non vere e proprie fesserie, e questo perché sapete che devo fare la relazione su di voi. Capisco che ognuno cerca di uscire dal carcere il prima possibile, ma in questo modo non mi diverto io e non ci guadagnate niente voi. Se volete, possiamo fare un gruppo di discussione che ha come scopo quello di entrare nelle vostre storie, di tornare ai tempi delle vostre prime trasgressioni e di provare a capire voi, ancora prima di me, com’è possibile che, pur essendo partiti voi tutti con l’idea di diventare qualcuno e, all’occorrenza, commettere reati per migliorare la vostra condizione, oggi voi siete qua in galera e i vostri figli sono mezzo orfani>> 

In generale, l’attività del gruppo era anche un modo per far sì che il tempo del carcere non fosse solo il “tempo dell’attesa”. I 18 anni precedenti alla nascita del gruppo mi avevano fatto capire, infatti, che per i detenuti il tempo passato in carcere veniva conteggiato principalmente in relazione alla distanza dal fine pena. Di quegli anni a San Vittore ricordo ben poche iniziative, una era quella della Patruno, Il giornale “Il Due”; ricordo anche l’associazione di “Incontro e presenza”. 

Ma tornando al gruppo, i primi due obiettivi erano: fare in modo che i detenuti si interessassero a loro stessi e alimentare una comunicazione tra dentro e fuori. Poi c’era anche il terzo obbiettivo, quello di fare in modo che i detenuti, conoscendo meglio se stessi, potessero contribuire a migliorare il funzionamento dell’istituzione. Un obbiettivo ambizioso, forse velleitario, un po’ da don Chisciotte. D’altra parte, come potevo sopportare che sia i detenuti sia le figure istituzionali continuassero a ripetere che dal carcere si esce più delinquenti di quando si è entrati? 

E così, paradossalmente, un po’ per conoscere se stessi, un po’ per cambiare il carcere, una ventina di detenuti di San Vittore si sono messi a indagare sul perché delle loro prime trasgressioni e sono diventati miei alleati e partner di ricerca molto di più delle figure istituzionali. Alcuni di quei detenuti sono ancora oggi miei amici. L’istituzione, visto che non facevo male a nessuno, me lo ha lasciato fare, pur senza mai interessarsi, almeno per i primi 10/12 anni a quello che facevo. Negli ultimi cinque o sei anni qualche piccolo sostegno è arrivato con Siciliano, fino a tre anni fa direttore del carcere di Opera, e oggi con Di Gregorio, attuale direttore di Opera. Nel carcere di Bollate, l’attività del gruppo è finanziata dall’ASST Santi Paolo e Carlo, di cui sono consulente da una decina d’anni.

Domanda: chiunque stando in carcere peggiora, questo vale anche per gli operatori, i direttori. Io spesso mi pongo questa domanda, com’erano prima questi soggetti, prima di fare 10/20 anni dentro il carcere?

Aparo: quello del direttore è un mestiere che rischia, anche per le persone equilibrate, di far diventare chiunque una specie di Napoleone che si bea del suo potere, intanto che deve difendersi da attacchi che arrivano da tutte le parti. Ma è anche vero che di questi tempi esistono direttori che si appassionano al loro lavoro, che si adoperano per far si che il tempo del carcere sia di costruzione della propria libertà e non di attesa del fine pena. Anno dopo anno, almeno nelle carceri che frequento io, questo avviene sempre di più. 

Fino a una ventina d’anni fa, invece, il carcere era in prima istanza controllo, doveva innanzitutto evitare che i detenuti scappassero, si suicidassero, si ammazzassero fra di loro, introducessero all’interno oggetti illeciti, ecc. Insomma, per garantire che non succedesse nulla di male, molti direttori preferivano (e non escludo che in molte parti d’Italia sia ancora così) chiudere quante più porte possibile, pur se, in questo modo, ad essere garantita era soprattutto la morte della mente, la morte emotiva e quindi anche la morte del cittadino, dell’uomo. E’ chiaro che il carcere non può eliminare del tutto il controllo, ma si dovrebbe considerare che se tu affidi il compito di controllare a una persona dall’equilibrio un po’ precario, il controllo diventa una smania, una malattia autorizzata, che esaspera i rapporti e che fa impazzire sia l’agente che controlla sia i detenuti controllati. 

Insomma, il carcere è stato soprattutto un mondo che induceva operatori e detenuti più a difendersi che a progettare. Oggi si sta cominciando a capire, quantomeno da parte dei direttori che conosco io, che la migliore e più duratura garanzia viene da una progettualità di cui i detenuti stessi siano interpreti e, possibilmente, registi. E io conosco, effettivamente, molti detenuti che sono diventati in carcere registi di attività e delle loro vite, contribuendo in tal modo anche alla stabilità e all’evoluzione di altri detenuti.

Domanda: che cosa salvi del carcere e qual è il ricordo più positivo che hai in questi anni?

Aparo: del carcere salverei il fatto che dà un confine alle persone che non sanno fare della propria libertà un uso compatibile con quella degli altri, ma trovo indispensabile che, all’interno di questo confine, ci siano dei programmi studiati, organizzati e praticati assiduamente per condurre i ristretti a vivere entro confini più ampi e non imposti dall’esterno. È indispensabile che dopo una necessaria riduzione della libertà di azione, il carcere e le istituzioni ad esso collegate trovino il modo, e facciano assidui studi in tal senso, per motivare il detenuto a interpretare la propria libertà in modo più compatibile con quanto ci viene indicato dalla costituzione, dal buon senso e dalle ferite ricevute da chi aveva avuto in passato la disgrazia di incontrarlo. 

Come si fa, dopo essere diventati delinquenti, a diventare cittadini? Dove sono gli studi che si occupano di questo? Forse si confida nell’idea che la persona che sta in galera, una volta condannata, possa cominciare a interrogarsi su se stessa e da sola trovare la risposta, ancora meglio se posta in isolamento! Ma se uno è ignorante come una capra e per giunta abituato a comportarsi come un bisonte, da dove dovrebbe arrivargli la scintilla? 

In altre parole, apprezzo che il carcere riduca la possibilità di scorrazzare nella prateria del delirio d’onnipotenza, ma rilevo una sua colpevole miopia quando constato che l’istituzione si comporta come se dal delirio di onnipotenza, dalla coscienza polverizzata di chi uccide il tabaccaio, si potesse guarire semplicemente stando in cella ad attendere una luce divina che si fa strada fra le sbarre. Tutto l’apparato istituzionale che si occupa del reo (dall’arresto, al giudizio in tribunale, alla restrizione in carcere) sembra partire dal presupposto che chi pratica abitualmente il reato sia completamente consapevole, responsabile e intenzionato nel fare quello che fa e confida nel fatto che il delinquente, parlando con se stesso e con quelli che stanno in cella con lui, possa trovare dentro di sé tutte le risorse per cambiare sensibilità, idee, valori, intenzioni e comportamenti. 

Magari nessuno lo pensa in modo sistematico, ma nel loro complesso, sembra che le istituzioni che si occupano di devianza facciano riferimento a un adolescente che comincia a drogarsi, a odiare le divise, ad abusare del proprio potere, dopo aver deciso a tavolino che queste debbano essere le sue aspirazioni primarie nella vita. 

E si trascura che la pratica dell’abuso è il risultato di un complesso di fattori, fra i quali, uno dei principali è costituito da una sensazione fisica, umorale, che galleggia fra le palafitte del cervello dell’adolescente:  cioè la sensazione che chi incarna il potere (il padre, chi indossa la divisa, la toga o chi viaggia in macchina blu) non sia degno del suo ruolo e, pertanto, che non esistono impegni verso se stessi, tanto meno verso gli altri, da onorare. Qualcuno, per completare il quadro, si convince che gli unici impegni che vale la pena osservare sono l’omertà e il mantenimento della contrapposizione paranoica con tutto quello che somiglia a una divisa. 

Per quello che a me pare di aver capito, a far diventare delinquenti sono le sensazioni di un adolescente ferito, sfiduciato, arrabbiato e rancoroso, che poi, strada facendo, diventano idee deliranti, capaci di orientare l’azione di adulti che hanno perso la libertà di sentire, pensare e decidere, già a causa del loro rancore e della conseguente smania di vivere nell’eccitazione del potere e della droga.

In Italia abbiamo più di 200 carceri e ho ragione di credere che nella grande maggioranza di questi le problematiche di cui ho appena detto siano del tutto ignorate. E se questo è vero, capisco che tante persone, anche dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, finiscano per dire che il carcere non serve a nulla.

Da parte mia, credo che il carcere vada cambiato radicalmente, ma in qualche modo un sistema che impone confini a chi delinque in preda al proprio delirio ci deve essere. E il delirio, lo ribadisco, non è solo quello del boss mafioso; il delirio parte dagli umori dell’adolescenza che, strada facendo, si incancreniscono nello scontro con una realtà istituzionale che non sa motivare a cambiare rotta e che, anzi, contribuisce a rafforzare il delirio e a ossificarlo. 

E allora quali ricordi buoni ho del carcere, visto che sono così critico? Il fatto che lo vedo cambiare! Collaboro con reciproca stima con un numero crescente di direttori, agenti e magistrati e mi sembra di condividere con loro idee e principi. Ma le cose cambiano troppo lentamente e inoltre è sempre troppo difficile individuare chi ha, in definitiva, la facoltà di decidere e attuare il cambiamento che tutti sembrano auspicare.

Nel mio piccolo, ho comunque dei bei ricordi e, ancor più che bei ricordi, ho i risultati che continuo a coltivare ancora oggi in collaborazione proprio con i detenuti che ho conosciuto in questi anni. Hanno nome e cognome e sono tanti; si chiamano Romeo Martel, Luigi Petrilli, Maurizio Piseddu, Roberto Cannavò… e in questo periodo in cui il Covid 19 ci costringe a usare le piattaforme on line per comunicare, ho visto e ho ripreso a lavorare e a giocare con numerosi ex studenti del gruppo e, cosa ancora più gratificante, con questi ex detenuti, oggi nuovi cittadini, che sono passati dal Gruppo della Trasgressione nei suoi 23 anni di attività. 

Oggi sono questi nuovi cittadini a motivare e a fare appassionare gli studenti universitari attualmente in tirocinio con la nostra associazione: da una parte, si studiano insieme le problematiche, il divenire, la complessità degli intrecci che inducono l’adolescente a scivolare nel degrado; dall’altra, progettiamo iniziative capaci di sostenere il detenuto e l’adolescente a rischio di devianza nel suo cammino, nell’impegno e nella collaborazione con gli altri. Sì, la mia maggiore soddisfazione è quella di constatare che persone che hanno fatto parte del gruppo in carcere 8, 15 o 20 anni fa, oggi, pur avendo una famiglia e un lavoro e senza chiedermi soldi, collaborano con chi è ancora detenuto, con alcuni familiari di chi è morto per mano della criminalità e con gli studenti in tirocinio per trovare le parole e i mezzi per prevenire e contrastare il degrado soggettivo e ambientale che porta ad annichilire la propria coscienza e alla cosificazione dell’altro.

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Il Gruppo e la società

Elisabetta Vanzini, Matricola: 828123
Corso di studio: Scienze e Tecniche Psicologiche
Tipo di attività: Stage esterno

Periodo: dal 15/06/2020 al 20/11/2020
Titolo del progetto: Il Gruppo della Trasgressione, linfa per la società

 Caratteristiche generali dell’attività svolta:
istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

Il Gruppo della Trasgressione è un progetto creato dal Dottor Angelo Aparo più di 20 anni fa, che si avvale del lavoro congiunto di professionisti psicologi e avvocati, ex-detenuti e detenuti, parenti di vittime di reato, artisti, studenti e cittadini che decidono di dare il loro contributo, sostegno e punto di vista. Il Gruppo è costituito da un’Associazione che si occupa di molte iniziative: incontri settimanali con ex-detenuti che hanno portato a termine la loro pena o detenuti che hanno il permesso di uscire dal carcere, studenti e parenti di vittime, durante i quali ci si confronta con i temi portanti del Gruppo, quali l’arroganza, il delirio di onnipotenza, il riconoscimento dell’Altro, gli “Strappi” subiti durante la propria infanzia e adolescenza, il rapporto con l’Autorità e l’importanza di un adulto-guida durante l’adolescenza.

Oltre a questi incontri svolti nella sede in via Sant’Abbondio, a Milano, vengono condotti degli incontri all’interno delle carceri milanesi di San Vittore, Opera e Bollate. Altro braccio portante del Gruppo è la Cooperativa Sociale che, con la vendita di frutta e verdura nella sede e a domicilio, contribuisce a due aspetti fondamentali: permette al Gruppo di sostenersi economicamente e, cosa di più alto rilievo, offre un lavoro a ex-detenuti ormai in libertà che hanno portato avanti per molti anni un percorso di presa di coscienza . Non è da dimenticare la Trsg.band, un complesso musicale i cui spettacoli sono un mix costituito dalle storie sbagliate dei detenuti, da canzoni originali create per il gruppo e dalle canzoni di Fabrizio De André.

Obiettivo portante del Gruppo è il lavoro su se stessi, sul proprio passato e sulla propria coscienza e l’intima elaborazione delle proprie fragilità e dei sentimenti negativi, attraverso l’arricchimento permesso dall’ascolto delle altrui esperienze e il mutuo aiuto. Lavorare sulle fragilità è di fondamentale importanza perché sappiamo che, se non vengono esternate le emozioni negative e non si riconoscono le fragilità insite in ogni essere umano, questo mancato riconoscimento può portare alla messa in atto di comportamenti di tipo sintomatico o addirittura deviante. Questo percorso di analisi e sintesi, svisceramento delle fragilità per comprenderne ogni sfaccettatura possibile è necessario per l’evoluzione sia della persona non deviante, che riesce più o meno, nel corso della sua vita, a continuare a percorrere la retta via, sia per la persona che, per mancanza di una guida o per le più svariate ragioni, si sia allontanata dalla vita civile. Questa figura-guida assume le sembianze del Gruppo della Trasgressione, nello specifico del Dottor Aparo, ma anche di qualsiasi altra persona volenterosa appartenente all’Associazione che riesce ad accogliere mentalmente l’Altro.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Purtroppo, a causa dell’emergenza sanitaria in atto, ho avuto modo di partecipare fisicamente ad un numero ristretto di incontri presso la sede del Gruppo, che però sono stati sostituiti, per il momento, da incontri su piattaforme online, durante i quali ho avuto la possibilità di conoscere ex-detenuti, detenuti con permesso di uscita dal carcere, parenti di vittime di reato, professionisti e altri tirocinanti. All’interno di queste sedute ho potuto raccontare la mia esperienza, rivelare e affrontare le mie fragilità e ascoltare quelle altrui, esprimere la mia opinione riguardo gli argomenti più svariati e conoscere l’esperienza di vita di tutti componenti. Ho partecipato attivamente, attraverso la collaborazione con altri tirocinanti, alla redazione dei verbali degli incontri del martedì e del cineforum che avvengono periodicamente in sede e sulle piattaforme digitali. Nonostante non ci sia stata la possibilità di assistere e partecipare agli incontri all’interno delle tre carceri milanesi, mi si è presentata fin da subito l’occasione di trascrivere brevi testi e pensieri di detenuti e di interrogarmi sui loro vissuti anche grazie ai loro scritti presenti sul sito “vocidalponte.it”. Inoltre ho assistito alla progettazione del “Laboratorio della creatività”, progetto rivolto a tutti gli abitanti del quartiere in cui si trova la sede e non solo. Infine ho partecipato anche ad interviste al Dottor Angelo Aparo e alla progettazione di ulteriori interviste rivolte ai membri del gruppo, artisti, politici ed Istituzioni.

In quanto tirocinante in psicologia ho avuto la possibilità di osservare come vengono affrontati i vari vissuti psichici e le fragilità di ogni persona e come sia possibile tirare fuori da esperienze di devianza gravi come quelle raccontatemi un percorso positivo e funzionale di ripresa di coscienza e di costruzione di una persona nuova, che non solo possa rientrare a far parte della società ma possa anche contribuire attivamente allo sviluppo di questa. Ho avuto modo di confermare quanto più volte studiato durante il mio percorso ovvero che la figura di una guida, che sia un genitore o una figura adulta positiva, sia fondamentale nell’infanzia ma soprattutto nel momento di formazione dell’identità in quanto, se il ragazzo si sente tradito dalla società, dall’autorità e in un senso lato da una qualsiasi figura che funge da padre, ideale o reale che sia, sarà portato a compiere atti, come comportamenti legati al bullismo, che inizialmente sono di portata ancora arginabile ma che possono poi facilmente aggravarsi con l’uso di sostanze, fino ad arrivare al compimento di reati veri e propri che portano la persona ad essere sempre più assuefatta al male e a non riconoscere più il Sé e l’Altro.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Ho partecipato attivamente agli incontri avvenuti nella sede del Gruppo recentemente acquisita e agli incontri online di cui ho redatto i verbali, insieme ad altre tirocinanti. Ad oggi, vengono realizzati due tipi di incontri. Quelli del lunedì rientrano nel progetto del cineforum, realizzato durante i mesi di lockdown per far sì che il Gruppo mantenesse uno pseudo-contatto mediato dalla tecnologia, nonostante la pandemia. Protagonista di ogni incontro è un film votato direttamente dai componenti del Gruppo che cambia settimanalmente e che è legato al tema portante del progetto: la banalità e la complessità del male. Tale concetto, come si può facilmente intuire, è stato ripreso dallo scritto dalla Arendt, in cui il termine banale non è da intendere secondo il significato quotidiano con cui viene utilizzato, ovvero nel senso di superficiale, semplice, facile, ma nell’accezione secondo cui diventa banale tutto ciò che viene gradualmente e assiduamente ripetuto nel tempo, anche l’azione più vile e barbara, tanto da diventare “normale” e non più straordinaria agli occhi del singolo o dell’intera società. Ogni film viene quindi ricondotto a questo binomio banalità-complessità per poi tentare di capire i nessi fra il soggetto del film e le esperienze vive dei componenti del gruppo. Durante gli incontri del martedì, a partire dalle riflessioni di qualcuno, dagli articoli pubblicati sul sito Voci dal Ponte, dai fatti di cronaca o ancora dai progetti che il Gruppo organizza, vengono affrontate tematiche di varia natura quali la relazione genitori-figli, il rapporto con l’autorità, il risveglio della coscienza e l’importanza di una guida durante il periodo delicato dell’adolescenza.

Oltre ai verbali dei cineforum e degli incontri, ho trascritto testi realizzati da alcuni detenuti che tutt’ora stanno scontando la loro pena. È proprio a partire da questi testi che ho cominciato ad interrogarmi intimamente sul vissuto di chi in passato era stato guidato da valori completamente diversi da quelli attuali.

Per evidenti ragioni legate alla situazione di estrema emergenza in cui ci troviamo da mesi, non è stato possibile realizzare le rappresentazioni teatrali del Mito di Sisifo in cui recitano ex-detenuti e detenuti, come non è stato possibile partecipare agli incontri in presenza all’interno delle carceri. In questi mesi non sono stati realizzati nemmeno i progetti di prevenzione alla devianza che da tempo il gruppo conduce all’interno di numerose scuole su tutto il territorio lombardo. Nonostante questo, uno dei suddetti progetti di prevenzione è stato realizzato in concomitanza con il cineforum e, per quattro settimane, ci è stato possibile interrogarci sui diversi film guardati insieme a due classi del Liceo di Brera e ai loro insegnanti. Questo mi ha permesso di comprendere quanto sia utile mettere in contatto ex-detenuti con i ragazzi anche molto giovani, soprattutto per aiutare loro a comprendere che nessuno è completamente al riparo dalla seduzione dei risultati facili e che il disconoscimento graduale dell’Altro prende avvio tante volte da piccole azioni apparentemente innocue.

Uno dei pochi aspetti positivi dell’isolamento che stiamo vivendo è che abbiamo familiarizzato con strumenti tecnologici esistenti già da decenni ma mai utilizzati in maniera così assidua. Grazie a questi mezzi siamo riusciti a portare avanti i progetti del Gruppo anche a distanza, ed io e gli altri tirocinanti abbiamo avuto la possibilità di entrare in contatto con ex-detenuti, psicoterapeuti, politici e artisti residenti in altre regioni, sempre nell’ambito del progetto del “Laboratorio della Creatività”.

Per concludere, ho partecipato attivamente alla realizzazione di un progetto che prevede la pubblicazione sui siti dell’associazione e sui canali social di una serie di testimonianze che vedono come protagoniste tutte le persone che nel corso degli anni sono entrate in contatto con il Gruppo della Trasgressione. L’obiettivo è quello di colmare l’enorme mancanza di informazioni e interesse che c’è tra chi abita all’interno delle carceri e gli altri cittadini.

Uno dei tanti punti di forza dell’Associazione è la metodologia con cui vengono condotti trasversalmente tutti gli incontri, che prevede l’ascolto, la partecipazione attiva, l’apertura mentale, lo sviluppo della capacità di creare uno spazio mentale per l’Altro e la voglia di continuare a lavorare su se stessi.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

La figura del coordinatore del Gruppo, lo psicologo Aparo, svolge una funzione fondamentale in quanto permette, anzi, costringe il detenuto a mettersi davanti alle proprie emozioni e a svelare i pensieri più reconditi per poi, come si suol dire, farci i conti. Per quanto mi riguarda, mi ha spronata ad esprimere le mie emozioni e i vissuti più profondi rispetto a ciò che emergeva nel corso di ogni incontro. La mia partecipazione attiva, oltre ad essere provata attraverso i miei interventi, è stata verificata anche dalla stesura dei verbali e dallo sviluppo di possibili idee per i progetti del gruppo.

 

Conoscenze (generali, professionali, di processo, organizzative) e abilità acquisite (tecniche, operative, trasversali)

Grazie a questo percorso di tirocinio mi è stato possibile implementare numerose conoscenze e abilità: ho conosciuto, anche se solo in parte, la realtà e i vissuti di ex-detenuti e parenti di vittime, esperienza che non avrei potuto vivere in maniera altrettanto facile in assenza di questo Gruppo; ho migliorato l’ascolto attivo; ho sviluppato la mia capacità di coordinamento con altre persone per poter realizzare un obiettivo comune; ho realizzato e avanzato alcune proposte personali riguardo a diversi progetti e questo è stato reso possibile grazie all’ambiente fecondo che ho trovato; ho potuto osservare come si possa aiutare le persone ad elaborare i loro vissuti più dolorosi per permettere loro un cambiamento che può avvenire soltanto attraverso un percorso lungo anni; ho imparato quanto sia importante riconoscere e affrontare le fragilità per non lasciare che queste diventino il punto di partenza di pensieri che, nei casi più gravi, possono dare vita ad azioni devianti.

 

Caratteristiche personali sviluppate

Questo percorso mi ha permesso di superare la mia iniziale timidezza e di esporre le mie opinioni davanti ad altre persone che mi hanno aiutata ad analizzare l’origine delle emozioni che provavo; sono stata in un ambiente stimolante e disponibile a dare spazio ai nuovi arrivati che, come me, hanno poca esperienza e un numero ridotto di conoscenze teoriche; mi è stato possibile dare un mio contributo al gruppo e servirmi dei contributi degli altri componenti per raggiungere un obiettivo comune; mi sono trovata in un contesto accogliente che mi ha spronato ad esporre le mie fragilità e ad affrontarle. In definitiva, posso dire di aver trovato un terreno fertile e accogliente in cui mi è stato possibile esprimere le mie potenzialità.

 

Altre eventuali considerazioni personali

Sono entrata nel Gruppo della Trasgressione con la convinzione personale che questo mi avrebbe dato delle risposte a domande che mi incuriosivano da tempo, sia riguardanti la realtà carceraria, sia personali. In parte è stato così, ma tutte le persone con cui sono entrata in contatto mi hanno permesso di incrociare tantissimi altri quesiti a cui non riesco a dare una risposta univoca e certa. Come insegna il Gruppo infatti, la realtà umana è estremamente complessa e non ci è data la possibilità di recludere i mutevoli fenomeni di questa in categorie rigide. Ed è da qui che ho capito che è impossibile, se si è aperti al dialogo e al confronto e se si è pronti ad accettare la complessità, assumere posizioni estremistiche, dal pregiudizio che sia meglio “buttare la chiave” alla finta lungimiranza di chi propone di “concedere la libertà a tutti”. Comprendere questa complessità della natura umana penso sia alla base del mio percorso di studi.

Il Gruppo della Trasgressione dà la possibilità di riscattarsi, ma attraverso un percorso lungo e faticoso, senza mai assumere un atteggiamento compassionevole che è fine a se stesso e senza mai dimenticarsi quali azioni sono state commesse.

In definitiva credo che, per poter parlare concretamente di società civile, è necessario rivoluzionare il mondo delle carceri. Uno dei pochi pensieri certi che ho sviluppato fin dai primissimi incontri è che l’istituzione carceraria viene vissuta dai cittadini “liberi” come un luogo in cui rinchiudere tutto ciò che fa paura alla società, e quindi in primis, le persone che hanno commesso reati socialmente pericolosi. E una volta che chi è stato giudicato colpevole è stato recluso in quattro mura? Cos’ha risolto la nostra società? Egoisticamente si potrebbe pensare che è un bene essersi liberati di persone pericolose, che hanno rapinato, commesso reati, ucciso. Ma una volta che hanno scontato la loro pena, quando ritorneranno a vivere all’interno della società che cosa succederà? E ancora prima, com’è il mondo all’interno delle carceri, come si vive dentro quelle quattro mura? Questo Gruppo permette due cose fondamentali: in primo luogo permette ai detenuti e agli ex detenuti un percorso di risveglio della loro coscienza assopita, che nasce innanzitutto dall’elaborazione del reato commesso e procede con il riconoscimento degli strappi subiti durante la propria infanzia e adolescenza; in secondo luogo permette alla società e alle persone “libere” di entrare in contatto con il mondo del carcere e rende possibile un dialogo tra cittadini, studenti, parenti e detenuti così da favorire l’evoluzione del singolo e della comunità. Per questo motivo definisco il Gruppo linfa per la società e credo che il Gruppo non dovrebbe rappresentare l’eccezione delle carceri milanesi ma la regola degli istituti penitenziari italiani. Questa mia prima esperienza concreta mi ha toccata profondamente a livello professionale, intellettuale ed affettivo e di questo non posso fare altro che ringraziare ogni persona che ho incontrato in questo mio breve ma intenso cammino.

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Studiare con i detenuti

Jessica Abbascià

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Percorsi intrecciati

Simona Ferraresi

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Il male si può arginare, il bene no!

di Elisabetta Cipollone
Elisabetta Cipollone al TEDx di Barletta

L’altro guarirà, non perché gli hai detto il suo errore, ma perché, mentre parlavi, ha sentito il tuo amore e gli è venuta nostalgia anche a lui di amare
Don Oreste Benzi

Sono una mamma che ha perso metà del suo cuore in un gelido pomeriggio di quasi dieci anni fa. L’ho seppellito lì, insieme ad Andrea, sotto qualche manciata di terra. Vittime noi, privati del suo amore, Vittima lui, portato via dalla scelleratezza umana di chi non rispetta la vita con il suo valore inestimabile, con la propria preziosissima unicità.

Sono una mamma che da quel preciso e dolorosissimo momento ha dovuto compiere la scelta più difficile ed affrontare la sfida più ardua: tentar di vivere.

Tentai di vivere dunque e facendolo vinsi diverse battaglie. Con tenacia ottenemmo l’istituzione di una nuova fattispecie di reato per gli omicidi stradali. Con forza inseguii il sogno di mio figlio Andrea e in Africa, da allora realizziamo e continuiamo a realizzare pozzi profondi per l’accesso all’acqua potabile per popolazioni rurali massacrate da siccità e carestia. Ad oggi ne esistono già 30.

Però i conti continuavano a non tornare. Nulla colmava il vuoto e nulla placava l’ira. Ero arrabbiata, aggressiva. Sentimenti negativi che si erano impossessati di me e mi avvolgevano in una spirale che soffocava la mia anima e tutti coloro che mi stavano intorno.

Ad un certo punto del mio cammino in salita arrivò l’incontro con la realtà carceraria e i detenuti del carcere di massima sicurezza di Opera. Allora pensai si trattasse di pura casualità. Ma ora so perfettamente che nulla accade per caso e tutto si incasella nella vita come tessere di un mosaico predefinito. Fu così che venni coinvolta in un progetto di giustizia riparativa di respiro internazionale, che accettai senza esitazione e senza neanche troppa convinzione. Non sapevo e non potevo prevedere che quell’incontro potesse diventare importante e fondamentale affinché io virassi la direzione che stava assumendo la mia vita.

I detenuti, le loro storie, il loro quotidiano dietro le sbarre. Trovai occhi pieni di lacrime e trovai solidarietà. Trovai dolore rendendomi conto che siamo due facce della stessa medaglia.

Senza buonismo inutile, tentiamo da allora di camminare insieme e di curarci le ferite entrando l’uno nel patimento dell’altro, sicuri che da qualche parte troveremo la luce delle nostre rinascite. Senza giudizio e senza pregiudizio. Mai dimentichi del passato. Il mio colmo di un dolore subìto. Il loro, di un dolore provocato.

Nacque così per me una attività di volontariato quasi totalizzante che mi appassiona e mi pone dinanzi a continue sfide e continui obiettivi da raggiungere.

Collaboro da anni con il progetto Sicomoro, dapprima come Vittima, successivamente, dopo essermi opportunamente formata, come mediatore, e portiamo nelle carceri di tutta Italia una attività di giustizia riparativa che mette a confronto vittime con autori di reato. Un confronto duro e doloroso che però produce veri e propri miracoli, poiché entrare nel cuore anche del peggiore dei detenuti permette di conoscere l’uomo e ciò che ha condotto al percorso criminale e con la conoscenza si stemperano odio e rabbia e nascono nuove relazioni.

Con il “Gruppo della Trasgressione” incontro successivamente un’altra meravigliosa e virtuosa realtà presente ormai da 23 anni nelle tre carceri milanesi. Da quasi tre anni collaboro anche con questo progetto, con il Dr. Aparo, psicologo di lunghissima esperienza, che del gruppo è fondatore e direi forte motivatore.

Innumerevoli ed estremamente importanti le attività proposte dal gruppo e che seguo sempre con rinnovata passione. Dal mese di settembre, il Comune di Milano ha assegnato al gruppo una sede in Via Sant’Abbondio nella quale organizzare le varie proposte culturali ed educative, sempre volte alla progressiva emancipazione dall’identità deviante, e che portino giovamento anche al quartiere che lo ospita.

Si è in procinto di partire con attività di supporto alla popolazione anziana, e ben presto la nostra “Squadra anti-degrado” proporrà incontri a tema in sede ma anche nelle scuole secondarie e negli atenei per la prevenzione al bullismo e ad ogni genere di dipendenza.

Insomma, un fermento continuo ed un laboratorio permanente che, sottraendo manodopera alla criminalità, ha e avrà sempre un solo obiettivo: cambiare il corso della storia e rivoluzionare ogni stigma affinché Caino e Abele riescano a dialogare e a collaborare affinché da quel dialogo nascano nuovi equilibri.

La Vittoria chiara ed inequivocabile del Bene sul Male perché, come sono solita dire e come è sotto gli occhi di tutti
“Il male si può arginare ” ma il bene no!
Il bene una volta innescato, provoca una reazione a catena tesa all’infinito, inarrestabile e incontenibile!

Grazie Andrea per avermi indicato la strada che ora sto percorrendo.

La tua mamma

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