Il potere del sacro

L’uomo è da sempre e comunque alla ricerca del potere, anche se lo nega. La ricerca del potere si manifesta in molti modi, alcuni appariscenti, altri subdoli, alcuni consapevoli, altri inconsci.

Ma anche la costruzione dell’identità passa attraverso l’esercizio riconosciuto del potere e penso che la negazione di tale diritto sia una delle maggiori cause di destabilizzazione della personalità. Quando parlo di esercizio del potere naturalmente intendo esercizio di un potere legittimo.

La prima forma di potere legittimo spettante a ogni individuo è il diritto di esistere. Tralascio le più gravi limitazioni di tale diritto, come la mancanza di cibo, di spazio vitale, di cure parentali che garantiscano il passaggio dalla nascita alla prima infanzia, non perché risolte ma perché evidenti. Mi occupo delle altre.

Come e quando un uomo ha la prova di esistere? Quando può pensare, decidere, progettare, agire. Se non lo può fare (perché non ne ha la capacità o perché gli è impedito) o ha la percezione di non poterlo fare, reagisce. La reazione è tanto più violenta e animalesca quanto più forte è la sensazione d’impotenza, quanto più a lungo è stata subita senza che le venisse data una possibilità d’espressione.

E questo dell’espressione è un nodo cruciale. L’espressione è la manifestazione di ciò che un individuo pensa, sente, fa e avviene generalmente attraverso la comunicazione. Tanti sono i canali possibili: verbale, corporea, emozionale, scritta, figurativa, musicale.

Se la comunicazione non funziona, se il messaggio lanciato dall’uomo con la postura del suo corpo, con l’espressione dei suoi occhi, con le parole dette, con le parole taciute, non viene percepito, ascoltato, capito, tale uomo non esiste. Se tale situazione non è sporadica ma sistematica può costituire il prodromo di una reazione, per gli altri, insensata. In realtà è la reazione di chi esiste e pretende che tale esistenza venga riconosciuta. L’uomo esiste se lascia un segno. Se non gli sarà consentito di lasciare un segno umano ne lascerà uno bestiale. Lasciare un segno è, più o meno consapevolmente, un bisogno di tutti. L’adesione alla criminalità e alla tossicodipendenza sono, secondo me, i segni bestiali lasciati da chi non riesce a lasciarne altri, o così crede.

Dove ha origine il senso d’impotenza che poi dà luogo a tutto ciò? A mio parere l’impotenza, reale o percepita, trae origine nel rapporto falsato o mancato con l’autorità. Per questo si delinque, per questo ci si droga. L’autorità che non ha saputo farsi autorevole e dunque amorevole merita di essere punita.

Questo scritto non propone certo una chiave di lettura esaustiva, considera solo alcuni comportamenti, non tutti.

Ci sono anche altre dinamiche che possono portare a un comportamento violento, dinamiche più sotterranee che vengono da molto lontano nel tempo, da comportamenti ancestrali di cui si è persa memoria.

L’uomo ha bisogno di trovare un senso per la sua vita, per le sue azioni, per ciò che capita a lui o alla realtà in cui vive. Talvolta la scienza e la razionalità, con i loro contributi importanti e irrinunciabili, non bastano a darglielo. Così l’uomo va alla ricerca di spiegazioni che vengano da un oltre mondo, che esprimano una realtà non solo immanente ma trascendente. E questo è sempre accaduto.

L’uomo dei primordi, ma ancor oggi l’uomo appartenente a società primitive rimaste a un livello primordiale, era in contatto col sacro. Si spiegava la realtà come il risultato della lotta tra le forze del bene e le forze del male. Il bene, spesso conficcando un palo negli occhi del demone che lo contrastava, lo vinceva e dava origine al creato, spargendo all’intorno il corpo smembrato del demone. E allora ecco che l’uomo, a immagine della divinità, conficcava il palo nel terreno, eleggendo a sacro il territorio dove stabilire la propria dimora e differenziandolo dall’altro. La tenda drappeggiata intorno al palo, che gli avrebbe fornito la necessaria protezione dagli elementi, altro non era che una porzione della volta celeste. Poi sacrificava una vittima, ne smembrava il corpo, ne gettava le parti all’intorno e l’area così circoscritta si configurava come il recinto sacro in cui ospitare altre tende, originando in tal modo una comunità.

“La tossicodipendenza è un altare su cui si sacrifica tutto ciò che non piace.” ho sentito dire a un detenuto tossicodipendente.

E ancora: nella strada della crescita il bambino spesso elegge uno degli oggetti che lo circondano a oggetto transizionale. Lo porta con sé, gli attribuisce il potere di infondergli sicurezza, quanto basta per tollerare di perdere di vista la madre e avventurarsi alla scoperta del mondo circostante. Tale oggetto emana energia positiva, lo aiuta a transitare verso il mondo. Talvolta, però, succede che un bambino, per motivi emozionali profondi e piuttosto oscuri, faccia di tale oggetto un feticcio, credendo che esso lo protegga ma solo a condizione di tributargli degli omaggi, in termini di beni materiali o di comportamenti. Il feticcio, così, invece di dare energia al bambino, gliela toglie, pretendendo da lui dei sacrifici.

Ma cos’è un sacrificio? Un rito che, uccidendola, rende sacra la vittima. La vittima è sacra in quanto subisce il sacrificio, senza sarebbe viva ma senza valore. Dunque nel gesto del sacrificio è insita una violenza che lo rende possibile e che trae da ciò legittimazione. Sacro e violenza sono uniti in un legame fondante e indissolubile.

L’uomo dei primordi compiva sacrifici per soddisfare il suo bisogno del sacro e ha continuato a compierli. Man mano i costumi si sono fatti più evoluti, i sacrifici meno cruenti, il legame col sacro meno tenace. La cultura da sacra si è fatta profana, l’uomo ha smesso di manifestare il suo legame col sacro, il suo bisogno di sacralità, ma non ha smesso di averlo e non ha smesso di essere violento.

La violenza collegata col rito, con la sua legittimità ma anche con il suo limite, non è scomparsa, si è trasformata in violenza surrettizia. L’uomo ha creduto di poter fare a meno di Dio, ma forse, se non può conficcare un palo nel terreno per rendere speciale lo spazio scelto per sua dimora, conficcherà il palo nel cuore di un altro uomo, anche senza motivo, perché nella sua ricerca di senso tale gesto gli consentirà di lasciare un segno.

Riti profani stanno prendendo il posto dei riti religiosi di un tempo. Non esistono più riti di iniziazione nella società occidentale evoluta, ma il fumare, il tatuarsi il corpo, il piercing, l’assunzione di sostanze, la perdita della verginità in senso proprio o allargato alla perdita dell’innocenza sessuale, l’adesione a confraternite o ad associazioni criminali non sono forse rituali sostitutivi?

Il rituale costituisce un modo per fronteggiare, risolvendolo sul piano simbolico, quelle contraddizioni insite nei rapporti sociali che non possono essere risolte in altro modo. Nell’impossibilità di rimuovere una contraddizione, essa viene proiettata sul piano dell’immaginario e “risolta” in modo illusorio attraverso il simbolismo rituale.

Forse dovremmo impegnarci nel trovare rituali sani, che pur se in modo simbolico aiutino l’uomo e la società, entrambi imperfetti, a vivere meglio, a portare a livello cosciente e ad esprimere i loro bisogni.

E così ritorniamo al nodo dell’espressione!

Ho sentito più volte i detenuti dire che si sono sentiti inadeguati, incapaci di fronteggiare l’incalzare del divenire, impotenti di fronte al cambiamento.

Se mi mancasse qui un labbro superiore, là il padiglione di un orecchio… ciò non sarebbe ancora un sufficiente contrappeso alla mia imperfezione interiore”. Queste parole appartengono a Kafka. Egli si considerava un’assenza, una lacuna, una buca che qualcuno aveva scavato. Fu ossessionato dal corpo che avvertiva come un ostacolo, e come estraneo; sentiva in sé un animale, aveva orrore di molti animali perché avvertiva in sé la belva potenziale che aspettava si rivelasse all’improvviso, facendolo scendere sotto il livello umano, nell’oscurità sotto la coscienza.

Ma Kafka non si è drogato né ha commesso violenza. Ha invece scritto, dato vita alla più potente forma di straniamento mai espressa dalla narrativa. Lo scarafaggio che Gregor diventa non perde completamente la sua umanità. Preferisce lasciarsi uccidere e morire da figlio che fuggire da insetto.

Si sacrifica!

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Conversando su autorità e limiti

Roberto Cannavò: La realtà della finitezza è la nostra realtà. C’è chi lo riconosce, e chi invece non lo riconosce e si ritrova con l’ergastolo. Se non mi avessero arrestato, io non avrei mai capito i miei limiti. Fuori dal carcere, non ho mai riconosciuto le mie finitezze.

Gemma Ristori: (riferendosi ai grandi personaggi citati che hanno fatto la storia dell’arte, della letteratura e della scienza) Lavoro e fatica hanno fatto sì che le loro scoperte rimanessero nel tempo e che noi oggi ce ne possiamo servire per il nostro benessere quotidiano, come la lampadina. Altre mire invece, aumentano solo il senso d’eccitazione, che se fine a se stessa, non è utile alle generazioni future, ma solo a se stessi.

Voler superare i limiti non è necessariamente qualcosa di negativo, ma solo se viene accompagnato dal lavoro e dalla dedizione. Il detenuto e lo studente vogliono arrivare lontano, ma lo studente lo fa lavorando duramente, il delinquente fa come Icaro: punta al sole direttamente. Vi è nel delinquente il desiderio di arrivare in fretta, dimenticandosi che l’unico modo per arrivare da qualche parte è studiare.

Roberto Cannavò:  Se avessi avuto un papà non avrei sconfinato i miei limiti, perché lui mi avrebbe indirizzato verso la scelta giusta. L’ignoranza mi ha portato a essere l’opposto della normalità per la gente comune. Ero spregiudicato in questo, superavo tutti i miei limiti. Da ragazzino non avevo nessun recinto e nessun limite. Oggi a pensare a ciò che sono stato, beh ho paura di quel ragazzino.

Massimiliano De Andreis: Da giovane non vedevo una continuità in quello che facevo; quindi arrivavo alla cresta e pensavo: che senso ha tornare indietro? Io ero arbitro della mia vita, le regole le mettevo io e proprio per questo le istituzioni erano escluse dalla mia vita.

Ivano Moccia: Il ruolo dei genitori è molto importante. La mia barca era carica di odio e alla fine ho ridotto a pezzi tutta la barca e sono affondato. I genitori ti consegnano la conoscenza che dovrai dare poi ai tuoi figli.

Mario Buda: Io non avevo nessuno che mi desse una carezza. La prima rapina che ho fatto è stata a 16 anni, avevamo paura. Ma dopo la prima rapina in banca ci abbiamo preso gusto e ho provato il delirio di onnipotenza. Mi sono bruciato la vita, mi sono costruito la mia gabbia. Voi ragazzi mi state aiutando tantissimo a crescere. La mia disperazione è che mio figlio faccia i miei stessi errori, e faccia delle scelte sbagliate.

Massimiliano Rambaldini: per me qualsiasi regola mi fosse imposta era un limite. Anche i segnali stradali. Tutto. E quindi bisognava combatterla.

Massimiliano De Andreis: Io superavo i limiti per raggiungere i miei obbiettivi, ma non ne ho raggiunto nemmeno uno. Mio padre si faceva di cocaina, picchiava mia madre, spacciava.. potevo scegliere se seguire la strada di mio padre o non farlo. Ho scelto di seguire la sua stessa strada perché il mio obiettivo era essere riconosciuto in famiglia; ma non ci sono riuscito. Oggi i limiti mi fanno crescere. L’autorità però deve essere credibile, per me oggi l’autorità credibile è importante.

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