Rieducare gli sgabellieri

Il carcere dovrebbe avere una funzione riabilitativa per il condannato ma in realtà diventa l’università del crimine. Come mai succede questo?

Guarda, in proposito bisogna fare un po’ di chiarezza perché, sì, è vero che il carcere o – come dice la Costituzione – la pena deve tendere alla riabilitazione del condannato, però prima dobbiamo metterei d’accordo su che cos’è la pena. Intanto la pena serve soprattutto prima di essere applicata, non dopo. Quando viene applicata vuol dire che quella sanzione, quella minaccia di cui ho parlato poco fa ha fallito il suo scopo. Se la pena dell’ergastolo viene comminata a chi commette un omicidio, ha un senso nel momento in cui viene minacciata perché si spera che con quella minaccia l’omicidio non venga commesso. Nel momento in cui l’omicidio viene commesso lo stesso, la pena, sotto il profilo della prevenzione (che è quello più importante) si è rivelata inutile.

E tuttavia deve essere applicata… perché altrimenti se non venisse applicata fallirebbe come minaccia. Bisogna applicarla perché una volta che è stata minacciata, una conseguenza necessaria è l’applicazione della pena, soprattutto perché altrimenti nelle altre occasioni non funzionerà. Almeno si sa che se anche in quel momento non ha funzionato come minaccia, però viene applicata, quindi si spera che la prossima volta, anche evidentemente con riferimento ad altri soggetti, funzioni veramente.

Questa è la vera funzione della pena, la pena ha una funzione soprattutto nel momento in cui viene minacciata, non nel momento in cui viene applicata.

La nostra Costituzione, tuttavia, ha imposto al legislatore di far sì che una volta che questa pena venga applicata perché deve essere applicata, questa pena abbia questo carattere rieducativo. Evidentemente un carattere rieducativo lo dovrebbe avere già di per sé una pena, comunque venga applicata. Perché è chiaro che quella persona, avendo subito una pena, dovrebbe avere ulteriori remore a commettere un altro reato. Di fatto però avviene, soprattutto in riferimento a coloro che delinquono per la prima volta, che il contatto che il carcere provoca – naturalmente con altri che hanno commesso dei delitti – fa sì che si affilino, anzi, le capacità di delinquere di questa persona. Qual è la ragione? La ragione è che l’amministrazione carceraria in Italia è tenuta in una situazione assolutamente precaria, nel senso che lo Stato spende per la giustizia (e anche per l’amministrazione carceraria, che rientra nell’amministrazione della giustizia) appena lo 0,8 o 0,6 per cento del bilancio statale: molto meno di quanto non dedichi alla Rai, molto meno di quanto non dedichi ad altre attività. Cioè, una percentuale infinitesimale del proprio bilancio.

Lo Stato italiano non si è mai preso veramente carico dei problemi della giustizia. Il nostro, rispetto a quello di altri paesi, è uno dei bilanci più miserevoli con riferimento ai problemi della giustizia. Non voglio scandagliare le ragioni, dico però che è così.

È chiaro che, quando si può spendere così poco, le carceri possono restare in questa situazione precaria di affollamento e di poca possibilità lì dentro, addirittura, di far scuola o di fare attività sportive o di fare cultura o di fare opera di rieducazione, di riabilitazione. È chiaro che le carceri diventano soltanto un posto dove si è privati della libertà e in più si sta assieme agli altri delinquenti, e quindi non ci si redime affatto, ma si diventa più delinquenti. Ma non sicuramente per mal volontà dei direttori delle carceri o degli istituti di sorveglianza.

Quando io vado a interrogare i detenuti nel carcere di Marsala debbo chiedere quattro sedie, siccome normalmente quando si interroga un detenuto si è almeno in quattro persone: un giudice, un segretario, l’avvocato che difende l’imputato e l’imputato. [Ebbene, ndr] nel carcere di Marsala, che è sede di tribunale, non ci sono quattro sedie a disposizione del personale, e la sedia deve essere chiesta in prestito, o qualche sgabello preso nella cella di qualche detenuto, e il detenuto deve venire nella zona interrogatori con lo sgabello sottobraccio. Questa storia va avanti da tre anni. E tu mi parli di rieducazione dei carcerati? Ma lì bisognerebbe iniziare a rieducare gli sgabellieri, che dovrebbero pensare a procurarsi uno sgabello per fare almeno un interrogatorio in modo decente. Questa è la situazione, e una scarsa, anzi punta attenzione dello Stato a questi problemi, una scarsa o quasi punta destinazione di risorse finanziarie a questi problemi.

Paolo Borsellino, 26.1.1989

[incontro con i ragazzi di un liceo di Bassano del Grappa, dal min. 41.20 – trascrizione tratta da P. BORSELLINO, Cosa nostra spiegata ai ragazzi, PaperFirst, 2019]

Il peso del passato e la nostra sfida

Il giorno 5 giugno noi detenuti del Gruppo della Trasgressione di Opera, durante un incontro con i nostri familiari, abbiamo molto parlato del pentimento morale di Vito Cosco. In quell’occasione molti di noi sono stati invitati dal dott. Aparo a raccontare ai nostri ospiti quello che facciamo al gruppo.

Una parte centrale del lavoro riguarda la ricerca sulla consapevolezza. Oggi mi rendo conto di aver vissuto con l’ideale di falsi miti e so che mi sono servito di maschere per dare senso alla mia vita.

Mi accorgo che faccio fatica a ricostruire e criticare il mio passato. Quel passato mi ha accompagnato per tanti anni, ci sono cresciuto… Da un po’ di tempo ho cominciato a criticarlo, ma non è facile togliersi la maschera, occorre tempo per rinnovarsi; non basta schiacciare un pulsante.

A questo riguardo il Gruppo della Trasgressione ci rivoluziona la mente, dandoci strumenti per poterci rinnovare pur continuando a sentirci noi stessi. E’ difficile riuscirci per chi, come me, si sentiva se stesso quando viveva una vita diversa, con valori e obiettivi completamente diversi.

Ma dobbiamo imparare a trasformare una situazione difficile in un’arma a nostro favore; non sentirci sopraffatti dalla pena! Queste non son altro che sfide ed è il nostro atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza! Non dobbiamo chiuderci nelle nostre debolezze per giustificare le nostre sfortune. Se impariamo a conoscere chi siamo veramente, saremo più liberi e forti e non più burattini nelle mani di altri.

Al Gruppo della Trasgressione imparo a sostituire la libidine della grandiosità con il piacere della normalità. Una rivoluzione che si sta scatenando dentro di me e che oggi mi fa vedere con lucidità cose che prima erano coperte dalla nebbia dell’arroganza. Anch’io, come Vito Cosco, non ho mai incontrato quel pulsante rosso o forse non l’ho mai cercato.

Francesco Castriotta e Angelo Aparo

Francesco Castriotta

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Per farsi coraggio

Per farsi coraggio, allora bisogna restare in contatto con sè stessi, con la propria autenticità, e averne cura, per non rischiare di inaridirsi. È necessario, poi, coltivare la speranza e mantenere lo sguardo su un futuro desiderabile nel nome del quale agire e vivere, serve custodire e nutrire la passione per qualcosa, perché sarà il bacino a cui abbeverare il coraggio quando vorremo lottare proprio in nome di quella passione, circondandoci di coloro che condividono e sostengono questo stile di vita e questo modo di vedere il mondo. Per questo serve anche riconoscere dei modelli di coraggio positivi per noi, da imitare guardando i valori che esprimono, per poterli incarnare a nostra volta”: L. Campanello, Diventare coraggiosi (senza essere eroi), Corriere della sera, 3 settembre 2016, p. 33.

Immagine tratta da: Gianluca Buttolo, La scelta. Giorgio Ambrosoli, Renoir Comics, 2015

Queste parole di Laura Campanello mi accompagnano da quando, pochi giorni prima di entrare nel carcere di Opera con Marisa Fiorani, mi hanno folgorato per la loro lucida ed efficace sintesi di quello che ogni giorno cerco faticosamente di rincorrere.

Dopo averle regalate a Marisa, madre coraggiosa quanto la figlia, non smetto di abbinarle con uguale riconoscenza a coloro che ho avuto la fortuna di conoscere in questi ultimi anni, dentro il loro cammino tracciato dall’esempio indelebile di padri, sorelle e fratelli coraggiosi perduti troppo in fretta.

Grazie Francesca, stasera ci saremo anche noi…

Francesco Cajani con Juri Aparo

 

(il discorso di Francesca e di suo figlio Stefano durante la commemorazione pubblica in via Morozzo della Rocca, luogo dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli)

L’incontro con i nostri familiari

Mi chiamo Marcello Cicconi e sono un componente del Gruppo della Trasgressione. Il cinque giugno noi detenuti abbiamo avuto la possibilità di stare con i nostri familiari prima in teatro e poi nell’area verde, dove abbiamo pranzato insieme. Questo incontro si ripete da qualche anno ed è ogni volta più coinvolgente, soprattutto perché in questo modo i nostri parenti vengono a conoscenza di parti della nostra vita che per timore o per vergogna abbiamo sempre nascosto.

Quel giorno si è parlato della presa di coscienza di un detenuto, Vito Cosco, che davanti alla moglie e ai due figli ha letto una lettera nella quale parlava del proprio reato e del proprio pentimento per il male fatto. Il figlio di 13 anni a un certo punto è scoppiato a piangere e tutti noi lo abbiamo seguito. L’esperienza è stata molto forte.

Inizialmente avevo ritenuto eccessivo parlare di queste cose  e in modo così aperto davanti ai figli ma, confrontandomi poi col resto del gruppo, ho capito che quel giorno è stato restituito al figlio un padre. Sicuramente il figlio ha capito che non deve emulare il padre per quello che ha fatto, ma che oggi può rispettarlo per la forza che ha avuto nel parlare del proprio errore e nel gridare il suo desiderio di riscattarsi: la giornata è stata per me una freccia al centro del bersaglio e, per il gruppo, un altro passo della nostra rivoluzione.

Anche a me quel giorno è successo qualcosa di nuovo. Io ho sempre vissuto in guerra con me stesso, distruggendo me e chi mi stava accanto. Frequentando il Gruppo della Trasgressione, ho cominciato a prendere confidenza con le mie emozioni, arrivando in qualche modo anche a capire cosa mi ha spinto a stare sempre in guerra e a commettere reati.

Da quando sono in carcere io non ho mai parlato ai miei cari del mio cambiamento e soprattutto non ho parlato di come ero quando ero in libertà; non ho mai raccontato a mia madre o ai miei fratelli la reale vita che conducevo e ciò che la mia voglia di distruggere mi portava a fare.

Per qualche ragione avevo bisogno di distruggere la mia vita, forse perché speravo che la mia distruzione potesse diventare motivo di rimorso per chi ritenevo responsabile della mia vita scellerata, cioè i miei genitori. Ma in carcere ho cominciato a conoscermi meglio. Certo, bisogna lavorare molto per arrivare sentire il cambiamento; nel caso mio, devo ammettere che non sono stato io a cercarlo, ma è stato il cambiamento a trovare me, anche se oggi convivo meglio con la persona che sono.

Comunque, il giorno dell’evento il dott. Aparo mi ha invitato a dire la mia sul tema del giorno. Io non mi sono tirato indietro, ma mi sono messo a raccontare di me come se in sala non ci fossero stati anche i miei familiari. Ho detto quello che avevo sempre tenuto sotto silenzio, cioè che a mia volta ho contribuito a sporcare questo mondo e che mi piaceva fare quello che facevo.

Mia madre, non avendo mai sentito queste cose, ha cominciato a piangere. Lei ha sempre saputo solo una piccola parte della mia vita. Comunque, dopo avermi sentito e mentre io stavo camminando col dott. Aparo, mia madre si è avvicinata e con tono di rimprovero mi ha detto: “Perché a me queste cose non le hai mai dette?”

La risposta vera non la so neanch’io. Non volevo deluderla… mi vergognavo… Oggi invece, dopo alcuni anni di carcere e di Gruppo della Trasgressione, sento il bisogno di dirglielo. Perché oggi sento questo bisogno che prima non avevo? So per certo che il carcere può peggiorarti, distruggerti o cambiarti radicalmente. Ma perché?

Spero comunque che di eventi come quello del 5 giugno ce ne siano di più in futuro. Sono occasioni che ci permettono di avere con i nostri familiari e con noi stessi una relazione più vera.

Marcello Cicconi e Angelo Aparo

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Marcello Cicconi

Bagliori dal carcere

Sono Giorgio Ciavarella, componente del Gruppo della Trasgressione da circa 4 anni. Il 5 giugno scorso abbiamo avuto l’incontro collettivo con i nostri familiari, un evento dove noi detenuti cerchiamo di comunicare ai nostri congiunti quello che facciamo col gruppo. I temi che affrontiamo durante l’anno sono tanti (l’arroganza, il senso di onnipotenza, la bulimia della grandiosità, la presa di coscienza), ma in quella giornata, parlando con le nostre mogli, i nostri figli e i nostri genitori, cerchiamo soprattutto di buttare giù le maschere dietro le quali ci siamo nascosti per anni.

In quella giornata un componente del gruppo, raccontando il suo percorso in relazione al reato commesso, si è reso protagonista di un evento fuori dal comune e tale da commuovere anche la persona più dura. Alcune testate giornalistiche, però, hanno travisato la lettera da lui scritta e l’hanno riassunto in modo da suscitare scalpore e, soprattutto, rigetto fra i parenti della vittima.

Quando facciamo sentire la nostra voce al di là delle mura (scuole, centri culturali, teatri) non lo facciamo per comperare la nostra libertà; il nostro principale interesse è valorizzare il lavoro sulla coscienza effettuato in questi anni. Non è compito nostro decidere qual è la giusta punizione o se è giusto perdonare; il nostro obiettivo è dare valore all’uomo di oggi e al lavoro che ognuno di noi fa per riconoscere le proprie responsabilità e i propri errori.

Questo non equivale a cancellare il passato; sappiamo bene che non è possibile per le vittime dei nostri reati e non lo è per noi! Ma proprio perché impossibile, è da qui che inizia il nostro impegno sia nel riconoscere le nostre responsabilità sia nel recuperare quello che di buono c’è in noi e metterlo a frutto. Ricostruire come siamo arrivati ai nostri reati e dove abbiamo lasciato le nostre prime aspirazioni è quello che facciamo principalmente al gruppo. Credo che in questo modo riusciamo a recuperare la dignità e l’autostima che ci servono per tornare in società in modo responsabile.

Spesso penso alle vittime che si chiedono: “Perché proprio a me?”. Non c’è una risposta, non c’è una ragione. So di essere legato alle vittime dei miei reati, sono stato io a propagare il male senza nemmeno sapere il perché e a causare il loro male solo perché in quel momento eravamo sulla stessa strada. Progetti come quello del Gruppo della Trasgressione ci sono utili a ricucire, nei limiti del possibile, lo Strappo che abbiamo prodotto. Non ci sono pulsanti rossi, forse solo ago e filo, per chi ha voglia di usarli.

Giorgio Ciavarella e Angelo Aparo

Giorgio Ciavarella

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I bambini del 5 giugno

Sono sei settimane che frequento questo corso e quello che ho provato il 5 giugno è stato indimenticabile. Non vedevo bambini da 8 anni e ho ancora quella bellissima giornata davanti agli occhi. Il tempo ci insegna tante cose. Dopo tanto tempo ho capito che, dicendo la verità, ti senti libero anche se sei chiuso.

Antonio Parisi e Angelo Aparo

Antonio Parisi

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Un progetto su Vito Cosco

Il Gruppo della Trasgressione e Vito Cosco

Non possiamo fare a meno di chiederci come mai le prime aspirazioni di un bambino finiscano a volte per prendere la forma dei soldi che si ricavano da una rapina, della pace o della inconcludente eccitazione procurata dalle droghe. Se siamo sicuri che chi cerca l’oro e la droga sta sbagliando indirizzo, allora è doveroso chiedersi quali informazioni mancano a chi ha perso la strada. Se sbando mentre cerco me stesso, ho bisogno di qualcuno che non si limiti a punirmi ma che aggiunga un’indicazione utile per rintracciare l’indirizzo giusto (Angelo Aparo)

Vito Cosco, detenuto con la pena dell’ergastolo per l’omicidio di Lea Garofalo, si è presentato al gruppo mercoledì 29 maggio con uno scritto contenente le sue riflessioni sul reato commesso. Nel testo si percepisce l’evoluzione da uno stato precario di delinquenza sino alla individuazione della strada che conduce a una maggiore consapevolezza di sé.

Le sue parole hanno scosso ed emozionato tutto il gruppo e anche i famigliari dei detenuti, presenti il 5 giugno nel teatro di Milano Opera, giorno in cui il testo è stato letto e commentato pubblicamente. Gli stessi famigliari di Vito, compreso il figlio tredicenne, hanno manifestato dolore, gioia e orgoglio in merito alla trasformazione che un padre, marito e detenuto può avere. La giornata è stata piena di emozioni forti, pianti e sentimenti che hanno lasciato un segno tangibile nell’anima dei presenti.

Per via dello scalpore suscitato dallo scritto (non esattamente in sintonia con gli obiettivi e con lo stile del Gruppo della Trasgressione), il dott. Aparo ha deciso di raccogliere le considerazioni che componenti del gruppo ed esterni produrranno sul tema. In questo modo esse potranno divenire materia di riflessione e di dialettica e permettere a chi segue il nostro lavoro di farsi un’idea dell’operato del Gruppo.

Il progetto vuole provare a scuotere un’opinione pubblica ancora troppo ancorata al reato in sé e poco propensa all’idea che sia possibile l’evoluzione anche di chi ha commesso gravi crimini.

L’obiettivo primario è quello di comprendere che cosa la società si aspetta da persone che in seguito a un reato si trovano oggi con l’ergastolo o con lunghe pene da scontare; che cosa la Costituzione e le Istituzioni si aspettano da chi ha commesso errori in passato e quali strumenti offrono loro per farlo. Ci si propone, in definitiva, di cercare strade e alleanze utili a far sì che, a fronte della punizione, l’evoluzione del condannato e l’acquisizione di responsabilità verso l’altro non rimangano pura teoria o iniziativa lasciata esclusivamente a chi tale responsabilità ha dimostrato di aver dimenticato o di non avere mai avuto.

Valentina Marasco

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La montagna sgretolata

Prima che mi arrestassero avevo già cominciato a sentire la montagna sgretolarsi. Ho iniziato a frequentare questo gruppo con qualche dubbio, che poi col passare delle settimane è andato sciogliendosi e mi sono convinto che mi avrebbe fatto bene. Per questo voglio chiamare la mia esperienza col Gruppo della Trasgressione “la montagna sgretolata”.

Avevamo organizzato per mercoledì 5 giugno questo incontro con i nostri familiari nel carcere di Opera dove siamo detenuti. Lì Vito Cosco ha condiviso con i suoi figli e anche con i nostri parenti quello che aveva detto la settimana prima durante la riunione interna del mercoledì. Ha parlato davanti a tutti della sua bruttissima azione contro la vittima (Lea Garofalo). Ci sono stati molti interventi di noi detenuti e anche dei suoi figli e a un certo punto mi sono girato e ho visto mia moglie e molti dei nostri parenti con le lacrime agli occhi.

Ho ripensato a quel giorno e mi sono detto che con questo gruppo ognuno di noi sta sgretolando quella famosa montagna. E allora le persone interessate devono trovare il sistema per farlo. Molti dei nostri familiari hanno questo interesse e, passo dopo passo, spero che anche altri credano in questo progetto.

Paolo De Luca e Angelo Aparo

Paolo De Luca

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Sul pulsante rosso

“…dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fiori

Lo scorso 5 Giugno noi componenti del Gruppo della Trasgressione, assieme ai nostri famigliari, ci siamo incontrati presso il teatro della C.R. di Opera, come facciamo da tempo una volta l’anno. L’incontro è stato coordianto come al solito dal dr. Angelo Aparo. La giornata, che ha colpito profondamente noi e i nostri famigliari, è partita con una lettera scritta al gruppo da Vito Cosco, detenuto da circa 10 anni in regime di alta sicurezza presso il carcere di Opera.

Il testo della lettera ha suscitato in noi una grande emozione. Nel corso di questi anni di reclusione il percorso di Vito è stato molto travagliato, ma da circa un anno ha cominciato a dialogare con la propria coscienza, intraprendendo un cammino che ai nostri occhi, ma credo anche a quelli degli altri componenti del gruppo, appare sincero e profondo.

Non sappiamo come Vito sia arrivato a commettere un crimine così grave. La portata del delitto è tale che nessuna analisi riesce a spiegare la cosa. E però sembra che oggi la sua coscienza abbia finalmente preso una svolta significativa.

L’obiettivo del carcere dovrebbe essere quello di rieducare la persona che ha sbagliato e che, giustamente, è stata privata della libertà. È importantissimo che la Legge dia alla persona condannata, oltre alla punizione, una speranza e non un “Fine pena mai”. Chiunque, pur essendo detenuto, rimane un essere umano e, in quanto tale, deve potere avere la possibilità di evolversi. Diversamente, a cosa servirebbe la pena?

Vito vorrebbe pigiare quel “pulsante rosso” per poter tornare indietro, ma nessuno ha il potere di cambiare il passato. Certamente da questa lezione ha imparato e abbiamo imparato anche noi quanto sia importante poter dare una carezza a un figlio e qualche volta riceverla. In questo modo diventa più facile acquisire man mano la consapevolezza del male fatto e dei tanti ostacoli da superare per potere raggiungere la pace con se stessi e con il mondo, dopo il dolore inflitto a entrambi.

Vincenzo Solli, Sebastiano Giglia e Angelo Aparo

Vincenzo Solli, Sebastiano Giglia

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Restituzioni

Mi chiamo Giovan Battista Della Chiave, faccio parte del Gruppo della Trasgressione.

Mercoledì 05/06/2019 al teatro della C. R. di Milano Opera, il Gruppo della Trasgressione si è riunito con i familiari dei detenuti. Si tratta di una sorta di festa che viene fatta una volta all’anno per dare la possibilità alle famiglie di capire cosa avviene all’interno del gruppo negli incontri settimanali.

Come al solito, ad aprire la giornata è stato il Dott. Angelo Aparo, psicologo e moderatore del gruppo. L’incontro in teatro è partito con la lettura di uno scritto che Vito Cosco (da circa nove anni in carcere e da quasi un anno componente del Gruppo della Trasgressione) aveva presentato alla nostra riunione del mercoledì la settimana prima dell’incontro con i familiari.

Mentre Vito leggeva il suo scritto pubblicamente, erano presenti anche i suoi familiari: la moglie, il figlio di tredici anni e la figlia di venti. Lo scritto è molto forte, Vito ha cercato di mettersi a nudo e lo ha fatto davanti ai suoi figli, uno dei quali, stando a quanto diceva la madre, non sapeva nulla circa il motivo per il quale il padre si trova in carcere.

Conclusa la lettura, il Dott. Aparo ha chiamato molti dei detenuti e anche i familiari a commentare lo scritto e a esprimere le proprie impressioni. Ne è nato un bel dibattito al quale tutti hanno partecipato con interesse. Subito dopo il dott. Aparo ha chiamato il figlio tredicenne di Vito, chiedendogli di leggere un commento di Elisabetta Cipolloni. Il ragazzo con difficoltà ha letto il commento, ma l’emozione era alle stelle, tanto che alla domanda che gli è stata fatta: “ma tu sei orgoglioso oggi di tuo padre?” è scoppiato a piangere. Un pianto, credo, liberatorio del piccolo che certamente sapeva, ma che finalmente aveva udito dalla voce del padre il motivo per il quale lui si trova in carcere.

Ecco, la giornata è stata piena di emozioni rare, emozioni che fanno crollare tutte le barriere che molti di noi si costruiscono, una giornata dove Vito si è confrontato con molte persone a lui estranee e dove anche altri detenuti si sono sforzati di entrare nei panni di Vito.

Ecco cosa avviene quando la persona detenuta, anche se in regime di ostatività, trova il coraggio, la capacità, gli strumenti per mettersi in gioco. Nel nostro caso, lo strumento è un gruppo che, come dice il dott. Aparo, ha come principale obiettivo l’evoluzione dell’uomo. Vito, come tanti altri che frequentano il gruppo, è riuscito a tirare fuori, o meglio, a riportare alla luce delle diapositive archiviate e segregate in una parte remota del suo e del nostro cervello. Con il lavoro di gruppo al servizio dell’introspezione dentro ognuno di noi si possono ottenere risultati significativi e restituire alla società persone migliori.

Ecco, credo che Vito, dopo tanti anni, stia cercando proprio questo: sta cercando qualcuno che lo ascolti; lui con il suo scritto non sta chiedendo la grazia, ma sta cercando di rianimare l’uomo che è in lui. È chiaro che per crescere non si può e non si deve dimenticare il passato.

L’immenso lavoro che svolgono alcune persone volontarie nel fare evolvere l’uomo non è altro che quello che dice l’art. 27 O.P. *, ma che purtroppo viene realizzato solo in pochissimi penitenziari italiani. Quindi credo che in quel giorno 05/06/2019 sia stato fatto un enorme passo avanti da parte di Vito e che sia stato restituito un padre a un figlio.

° Art.27
Attività culturali, ricreative e sportive
Negli istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo. Una commissione composta dal direttore dell’istituto, dagli educatori e dagli assistenti sociali e dai rappresentanti dei detenuti e degli internati cura la organizzazione delle attività di cui al precedente comma, anche mantenendo contatti con il mondo esterno utili al reinserimento sociale.

Giovan Battista Della Chiave e Angelo Aparo


Giovan Battista Della Chiave

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