Le due strade del potere

Le due strade del potere, Claudio Palumbo

Sinceramente, la cocaina non mi ha fatto sentire potente o importante nei confronti delle altre persone. Quando assumevo cocaina mi sentivo ben diverso da un uomo potente e, in particolare, mi isolavo rimanendo chiuso in casa perché mi dava fastidio stare in compagnia di altre persone e non volevo che mi vedesse nessuno per i deliri che la cocaina mi procurava. Mi sentivo in difetto e in imbarazzo, pensando di non portare adeguato rispetto ai miei familiari.

Di certo posso dire che la cocaina cambia l’umore anche dopo aver esaurito i suoi effetti. Quando sta per finire lo sballo, ci si sente più calmi e si rientra in se stessi, ma subentra comunque un’altra personalità che ti porta a essere più aggressivo. Ad esempio, se capita una discussione con qualcuno, la cocaina, ancora in parte in circolo, ti spinge ad arrivare anche alle mani, se non peggio. Insomma, due personalità: ora ti ritrovi solo e in fuga, ora aggressivo e senza freni. Ma non ricordo una sensazione di potere… quando ti credi potente, vi sono solo due possibili strade: quella che ti porta in galera e quella che ti porta al cimitero.

Anch’io vendevo le droghe, attività che portava a conoscere tante persone che mi rispettavano e ritenevo amiche (alcune). Purtroppo non era così. Era solo dovuto al fatto che gli vendevo la droga. Non si trattava di vera amicizia, ma solo falsità e tradimenti personali. In effetti, me ne rendo conto solo ora che mi trovo in galera. Pensavo di avere amici intorno a me, ma mi sono illuso per l’ennesima volta. Accanto a me ho solo la mia famiglia.

La cocaina porta ad avere tanti conflitti con i sentimenti e tanta trascuratezza nei confronti dei propri cari e, prima ancora, nei confronti di se stessi. Non ci si rende conto che la vita che si conduce è diversa dal mondo reale che ci hanno donato la natura e i nostri genitori.

E’ vero, è maledetta la cocaina. Ti porta assolutamente dove vuole lei. Tu vorresti non farlo, ma purtroppo c’è quell’omino dentro di te che noi chiamiamo a modo nostro “la lampadina che si accende”.

Di certo, di tutto ciò non sono fiero, ma non nascondo che quei periodi mi sono comunque serviti come esperienza di vita. Nel momento in cui l’assumevo mi piaceva, senza rendermi conto che faceva a me, e soprattutto ai miei cari, molto male.

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Colmo di solitudine

Colmo di solitudine, Saad Yahya

Non ho esperienza di droga, per mia fortuna sono sempre riuscito a starne lontano e dunque posso parlarne solo in base a discorsi avuti e sentiti con persone che ho conosciuto. Di sicuro ho capito che è un’esperienza molto forte e difficile. Sono molti i motivi per cui le persone cominciano a fare uso di stupefacenti, a volte banali e a volte perché si pensa di riuscire ad allontanare le proprie difficoltà e problemi, ma alla fine qualunque sia stato il motivo, ci si ritrova in un tunnel oscuro e colmo di solitudine.

Ciò che poi si cerca e si desidera è solo l’illusione di vivere al pieno delle proprie forze e lontano dalle proprie paure, senza rendersi conto che ci si sta uccidendo lentamente, rovinando la propria vita e quella delle persone vicine.

Io posso dire di aver vissuto un’esperienza simile con la dipendenza dal gioco, che mi aveva fatto allontanare da tutti. Ci lasciamo trasportare da un mondo irreale, dove la tecnologia ci avvolge con telefoni, computer e cose materiali.

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I racconti degli altri

I racconti degli altri, Maurizio Chianese

Nelle ultime settimane, al gruppo è accaduto che molti racconti di vita personale hanno dato a noi tutti grandi spunti di riflessione. Se Veronica, con il suo racconto, mi ha dato modo di notare quante cose in comune c’erano tra la sua esperienza e la mia tossicodipendenza; il racconto di Matteo mi ha portato a pensare al mio passato e alle mie scelte.

All’inizio Matteo, nel raccontare di sé e della violenza subita per anni, mi ha fatto provare una forte rabbia e non sono stato in grado di dirgli nulla. Tornato in cella, continuavo a pensare a lui, pensavo al coraggio che ha avuto a raccontarci il trauma che ha subito e ho provato ammirazione nel constatare che tutto questo (dolore, rabbia e delusione) non ha preso il sopravvento su di lui e non è riuscito a spingerlo in situazioni pericolose. Anzi, nonostante tutto, è stato in grado di diventare un professore, di fare nella sua vita qualcosa di positivo, di avere una vita normale.

Ho molte domande da fare a Matteo, non sulla sua vita e tanto meno sul suo trauma, ma sugli aiuti e sugli strumenti che lui ha utilizzato per diventare quello che è oggi. Penso che le risposte a queste domande saranno per me molto utili per avere degli spunti costruttivi da utilizzare nel mio percorso.

Poi c’è lo scritto della prof.ssa Nuccia su quanto le parole possano essere dei fiori o delle pietre. Quante volte mi è capitato di sentirmi dire parole che mi hanno ferito, tanto che avrei preferito un pugno per sentire meno dolore; ma ho anche sentito parole da farmi piangere dalla gioia. Grazie al racconto di Nuccia, mi sono anche chiesto perché faccio tanta fatica a parlare al gruppo. Credo che sia dovuto al mio imbarazzo e alla paura di non essere capito. Molte volte sento di voler intervenire nel gruppo e dire la mia, ma non so perché mi blocco, sono sicuro che presto riuscirò a sbloccarmi… comunque ora cerco di scrivere i miei pensieri e poi leggerli al gruppo.

Non ho avuto modo di sentire lo scritto di Massimo, ma dalla discussione che c’è stata ho intuito che il dott. Aparo ha fatto un’altra domanda (cos’è il potere per il tossicodipendente?).

Io penso che per il tossicodipendente il potere è tutto della sostanza; la sostanza mi dominava e mi portava a fare cazzate, quindi io ero il dominato. Per spiegarmi meglio, uso la storia del burattinaio e il burattino: il burattinaio sono io, la sostanza sono i fili (cioè il potere) che fanno muovere il burattino che io divento con l’uso della sostanza. Senza i fili il burattinaio non ha nessun potere sul burattino. Credo che il potere è costringere l’altro a fare qualcosa anche contro la sua volontà, come fa quello che commette rapine.

Anche lo scritto di Diego mi ha emozionato. Siccome non ero arrivato al gruppo in tempo per sentirlo, una sera gli ho chiesto se aveva una copia del suo scritto e lui con molto piacere me lo ha letto. Devo dire che è stato bello sentire come si emozionava a leggerlo anche se eravamo solo io e lui. Sono stato contento che lui, anche se al di fuori del gruppo, ha voluto condividere con me il suo vissuto.

Sono contento di questa esperienza. Ogni volta, grazie ai racconti che si condividono, trovo strumenti utili da utilizzare nel mio percorso.

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Prima e oltre il confine

Prima e oltre il confine, Angelo Aparo

Il buio apre il suo manto al tuo cammino
Ti affida un sogno aperto con cui viaggiare
Ti lascia dentro il filo con cui legare
Le vele, il legno e il fiato per navigare

Prima sarà lo sguardo di chi ti ha chiamato
Le sue colline morbide, nelle sue mani il mondo
Ne inseguirai l’odore per mille sentieri
Voci, inganni e canzoni di oggi e di ieri

Carne tenera, luce chiara
Non ti spegnere, non diventare dura

E poi l’età dei giochi, poi maschere da duro
Per diventare figlio dell’uomo che hai sfidato
Per diradare il buio e conquistare cime
Da cui sposar con gli occhi le valli e alle colline

Occhi a vedere nelle spighe il pane
Occhi a smarrire strade fra i campi e le paludi
Mani dentro le pietre a cercare cattedrali
Mani a vendere polvere e a cancellare mani

Carne tenera, luce chiara
Non ti spegnere, non diventare dura
Quanti nodi tra fiori e spine
Albe ovunque, prima e oltre il confine

Albe curiose e incerte, albe da coltivare
E ancora notti e incubi da masticare
Nella speranza che la luce del mattino
Traghetti i sogni al giorno
Senza far troppo male

Carne tenera, luce chiara
Non ti spegnere, non diventare dura
Quanti nodi tra fiori e spine
Albe ovunque, prima e oltre il confine

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Non ti spegnere!

Non ti spegnere, Isaia Schena

La tossicodipendenza ti porta a vivere una vita non tua, che non ti appartiene, è una malattia che lentamente ti scava dentro e s’impossessa di te, dei tuoi gesti. Un tossico non ammette, non riconosce mai di esserlo; ma combattere contro qualcosa che non riconosci è impossibile.

Si parla soprattutto della dipendenza fisica, ma per me è stato il risvolto psicologico il problema più grande, più infido, più difficile da affrontare. Troppe scuse ho trovato pur di non smettere, anche di fronte ad azioni sconsiderate, alla vergogna di certi comportamenti, alla dignità persa. Non era mai abbastanza per dire basta! Troppo forti e piacevoli sono la disinibizione che ti permette la droga, il senso di onnipotenza, il coraggio e la forza che ti illude di regalarti e che ti portano ad azioni che da lucido mai avresti pensato di fare.

Inebriato da queste sensazioni, a nulla servono l’ansia, l’angoscia e i sensi di colpa del giorno dopo… già, la droga, serate d’eccesso in cui nulla è vietato, tutto è permesso e il vuoto, lo sgomento del giorno dopo non riescono a competere con tutto questo.

Nel trascinarsi stanco di quella che oramai è abitudine ci si dimentica di tutti, nulla ha più importanza, si lasciano per strada tutti i colori e le sfumature della vita vera, si crea un vortice che ti trascina sempre più giù, nel vuoto assoluto, dove smarrisci la cognizione del tempo e così, senza che tu te ne accorga, i figli che tanto dici di amare sono diventati grandi e arrabbiati, la tua famiglia un corpo estraneo, e le bugie che hai e ti sei raccontato presentano all’improvviso il conto. Vorresti tanto che loro ci fossero, ma tu non ci sei mai stato… Adesso non ti senti più così forte e, come al solito, la via più semplice è fuggire di nuovo.

Non riconoscendo la propria malattia, il proprio autolesionismo o il pressante bisogno di affermazione in un gruppo, il tossico non accetta di avere un problema e non riconosce di aver bisogno di aiuto. Di conseguenza, non solo vengono a mancare i motivi per smettere, ma talvolta, addirittura, ci si affida alla speranza che nella dipendenza ci sia la soluzione. Purtroppo, quel che accade è solo un ulteriore affossamento.

Che si possa uscire dall’assuefazione con uno sforzo di volontà è utopia, persino le varie forme di disintossicazione non bastano a liberare la persona dalle catene generate nell’anima dall’abuso. Per farcela, sono necessarie la piena consapevolezza di quanto dolore si è causato e della dignità persa, la voglia di cambiare e la piena disponibilità ad accettare l’aiuto e i consigli di persone preparate e capaci, la forza dell’amore delle persone care che, nonostante tutto, ci sono ancora vicine.

Queste possono essere le leve utili per invertire la rotta di questa strada, iniziata per chissà motivo, ma così sbagliata e distruttiva che solo per una grande fortuna mi ha concesso di essere oggi ancora qui.

Già, io sono uno dei tanti che, iniziando per gioco, si è fottuto la vita pensando di essere forte, intelligente e di poter gestire la droga: belle donne, “amici”, sempre al centro dell’attenzione, ma dentro un gran senso di vuoto, sempre alla ricerca di qualcosa di astratto, con l’idea di essere l’uomo invincibile e al di sopra di ogni cosa.

In realtà, non so ancora oggi cosa fosse, o forse sì, forse il bisogno di non sentirsi uno dei tanti. La società in cui viviamo ci porta a credere che l’importante è apparire, ci convince che conta di più piacere agli altri che a noi stessi, che è facile lasciare da parte le nostre paure e vivere la vita fingendoci quello che non siamo; in questo modo nessuno può farci domande a cui non vogliamo rispondere.

Ma in ognuno di noi sono presenti emozioni profonde che, pur se abbandonate e nascoste agli altri, ogni giorno si riaffacciano e ci pongono dinanzi a chi siamo veramente.

In un futuro non troppo lontano vorrei riuscire a incontrare la mia coscienza e dirle: scuotimi, fammi male, fammi diventare piccolo, perché ogni volta che mi dai tregua io mi rilasso e perdo di vista il senso prezioso della vita! Ma so bene che, lì vicino, perfida, mi deride la droga, mi mostra qualcosa che luccica e mi spegne la voce.

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Gioie corte

Gioie corte, Fabio Ravasio

Destinato, non so se dalla sorte,
Ad esser di me stesso la rovina
La mia vita l’ho giocata con la morte

La libertà l’ho persa una mattina
Ascolto il cuore che mi batte forte
E cedo il passo al tempo che cammina

Orizzonti vaghi e vie contorte
Illusioni antiche e mai risolte
Ho vissuto solo gioie corte

E ora, essendo carcerato,
il mondo distratto mi confina
in una solitudine assassina

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E poi ho visto te

E poi ho visto te, Francesco Capizzi 

Calzoni corti, magliette bucate
calzoni larghi, maglioni pungenti
braccio di ferro fra cose rubate
fra voglie e promesse tenute fra i denti

E poi ho visto te…
Ero il giullare dell’arte padrona
D’ogni granello di sabbia perduta
Notti di sballo e di vita cialtrona
Fra un sorso e l’altro di elisir di cicuta.

E poi ho visto te, e la ferita è diventata
l’insegna per curare la paura

E poi ho visto te, non più fango sono argilla,
plasma che scintilla da quando sto con te

E poi ho visto te, e la ferita la più rossa,
una croce che libera la scossa

E poi ho visto te, e alla mano che ho ignorato
adesso io chiedo di stare qui con me

Sono cresciuto, nel vuoto assoluto
rincorrendo parole che volavano via
Finché ho raggiunto il timone divino
Con l’obiettivo di governare il mio destino

E poi ho visto te…
E ora è notte, piove e un uomo è caduto
Con la sirena che fischia ricordo
Di quella volta quando ero fuggito
E adesso corro perché non sfugga la vita

E poi ho visto te, e la ferita è diventata
l’insegna per curare la paura
E poi ho visto te, ero fango e sono argilla,
plasma che scintilla da quando sto con te

Un’altra via non c’è, ora cerco nella notte
persone perdute e ferite come me

E poi ho visto te, e alla mano che ho negato,
adesso io chiedo, rimani qui con me

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Prigioniero dell’ebbrezza

Prigioniero dell’ebbrezza, Massimo Moscatiello

Ho iniziato a usare sostanze alteranti molto presto. Era un periodo di vuoto e lo colmavo rifugiandomi in miscugli alcolici. Così cominciai a provare l’ebbrezza di superare i limiti imposti dall’autorità, quella che avrebbe dovuto governarmi.

Pian piano iniziai a imprigionarmi in una sensazione di libertà guidata dall’eccitazione. Preso dalla foga del potere e dal bisogno di placare l’astinenza, iniziai a commettere reati. Stordendomi con sensazioni sempre più forti, entrai nel pieno della schiavitù della dipendenza.

Credo di aver cominciato per un senso di appartenenza e per un senso di mancanza che, con l’uso delle droghe e con la sensazione di tenere in mano le vite di chi veniva a comperare da me, riuscivo a zittire. Il bisogno di chi veniva a chiedermi mi esaltava.

Al gruppo ci siamo posti la domanda su quali conflitti si provano durante la tossicodipendenza. Pensandoci, c’è stato solo un periodo in cui mi ero imposto di smettere ma è durato solo 22 giorni perché quella voglia di potere mi rendeva fragile. Per continuare come prima, ho detto a me stesso che non spacciavo solo per me, ma anche per far vivere ai miei familiari una vita più agiata.

Io non concepisco la tossicodipendenza come una malattia; la vivo piuttosto come una prigione mentale e, se non arrivi a colmare il vuoto che hai dentro, quella prigione ti tiene sempre più stretto e fa sì che tu faccia altrettanto con chi viene da te.

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L’eroina, la spada e la stoccata

L’eroina, la spada e la stoccata, Diego Carponi

Mi affaccio per la prima volta a tutti voi per dirvi che mi ha colpito quanto ha detto Veronica in uno degli ultimi incontri e quello che in questo gruppo viene alla luce.

E allora, eccomi. Sono nato in una famiglia dove l’onore e il rispetto venivano inneggiati, ma dove tutto era coperto e non c’era spazio per un sorriso. All’età di nove anni la vita mi ha messo davanti la più grande difficoltà. Mia madre scappa di casa, lasciando nelle mani di mio padre quattro figli, di cui io e mia sorella gemella un po’ più piccoli. Ero lì davanti al televisore a guardare un cartone animato quando lei mi accarezza il viso per l’ultima volta e furtivamente corre verso l’uscita.

E così siamo cresciuti senza una madre. Mio padre, per disperazione, sfoga la sua rabbia contro di noi e per cancellare il vuoto di mia madre comincia a bere uccidendosi giorno dopo giorno. Passano gli anni sotto una dittatura che non finiva mai.

Per quanto riguarda la tossicodipendenza, non do alcuna colpa ai miei genitori, la droga era lontanissima da quello che i miei genitori avevano tentato di insegnarmi. A 14 anni lascio il primo anno di perito industriale e conosco la mia amante, l’eroina. Da lì il carcere minorile da dove esco a 18 anni. Raggiunti i 20 anni, altro carcere e poi altro ancora.

Il poco che ho vissuto fuori da queste sbarre, in realtà era un’altra galera; quello che io credevo di possedere in realtà mi possedeva. In ogni istante della mia vita sono in conflitto con me stesso, non solo per l’eroina, ma per tutto quanto c’è di vivo davanti ai miei occhi.

Vi ringrazio per l’attenzione, sento che qui abbiamo l’opportunità di ascoltarci e di darci una mano l’un l’altro.
La spada non punge solo per far male,
con la giusta stoccata ci si può rinnovare.

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Scelta o malattia?

Tossicodipendenza: scelta o malattiaDenny Tosoni

Inizialmente, per come l’ho vissuta io, la tossicodipendenza è stata una scelta, una condizione in cui rifugiarsi per le carenze di affetto e altro di cui ho sofferto durante il mio periodo adolescenziale. Non sapendo come superarle, per sentirmi considerato e non farmi prendere in giro dai miei coetanei, avevo deciso di frequentare persone più grandi di me, i “bulli” della scuola.

Le cose cambiarono rapidamente, nessuno mi prendeva più in giro. Poi ho iniziato a fumare le prime sigarette per farmi notare, a fumare spinelli, per poi passare alla cocaina e all’eroina. Quando ho iniziato a usare la cocaina, cioè molto piccolo, all’età di soli dodici anni, mi sentivo una persona realizzata perché i miei “amici” venivano a cercarmi per uscire; non ero più la persona chiusa e timida di prima, non avevo più nessun tipo di difficoltà ad approcciare le persone… insomma era tutto più semplice.

Con l’eroina ho raggiunto il massimo del piacere, non avevo freni, non m’interessava più di nessuno, sembrava che con quella maledetta droga mi fossi “sposato”. Mi sentivo protetto sotto una cupola di vetro, nessuno poteva ferirmi e questo mi faceva sentire un dio. All’inizio sentivo la cosa del tutto gestibile; quando la usavo ero convinto che non mi creasse nessun tipo di dipendenza, con il passare del tempo mi sono accorto, invece, che ero finito in un tunnel senza via d’uscita.

Da lì, dopo svariati arresti e svariate esperienze comunitarie, notando che anche dopo tanto tempo di astinenza fisica andavo ugualmente a ricercarla e ci ricadevo, ho cominciato a pensare che fosse una malattia e ho scoperto che è veramente così perché, se non risolvi i problemi che ti hanno portato a usare sostanze, è molto difficile guarire.

Se ti fratturi una gamba, e non la curi a dovere con fisioterapia e riabilitazione ma ti affidi solo ai farmaci per annullare il dolore, rimarrai inevitabilmente zoppo. Ecco, io sono rimasto zoppo! Fino a ora non ho mai curato la malattia ed ho solo illusoriamente annullato il dolore che poi è ricomparso. Oggi, comunque, posso dire che, con un buon lavoro e molta volontà, tutto questo si può realmente curare.

Il conflitto interiore che mi porto ancora oggi dentro di me è relativo al senso di abbandono che ho vissuto nei confronti di mia madre. All’età di 5/6 anni passavo molto tempo con mia nonna perché mia mamma era sempre impegnata con il lavoro. Mia nonna mi portava sempre a prendere il gelato ed era lei che mi comprava i giocattoli e che mi portava sempre fuori. Quando, per motivi di salute, è stata portata al ricovero, ho provato come un vuoto, un senso di malinconia, come la si può provare nei confronti di una madre.

Dopo un paio di anni, mia mamma, ha iniziato a lavorare in casa come baby-sitter; accudiva un paio di bambini di 3/4 anni più piccoli di me. In quel periodo avvertivo un senso di abbandono, solitudine e mancanza di considerazione che mi portavano a starmene sempre in disparte. Quello che mi procurava più sofferenza erano i gesti affettuosi che rivolgeva a quei bambini e non a me. Da quel momento ho provato un senso di rabbia e delusione per come si è comportata. Inoltre, da quando ne abbiamo parlato, mia mamma è diventata sempre più iper-protettiva; mi sentivo soffocare, non avevo più i miei spazi e mi controllava continuamente. Ancora oggi lei pensa che, senza un suo aiuto, io non ce la possa fare ad autogestirmi.

L’altro mio conflitto interiore avviene tra la mia parte adulta e la mia parte bambina. Credo che la parte bambina esca quando mi sento solo, abbandonato e poco considerato in quello che faccio. Da quando ho incontrato la psicologa, che mi ha aiutato a comprendere questi lati del mio carattere, ho cambiato atteggiamento; adesso mi sento una persona più matura e adulta rispetto a prima. Questa parte bambina, che è presente ancora in me, sto imparando a gestirla; adesso affronto i problemi in maniera diversa ed ho imparato ad avere anche più pazienza.

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