Mi drogo per riempire il vuoto, ma più mi drogo e più mi svuoto

Per me che non ho mai fatto uso di sostanze e non ho mai provato il desiderio di farne uso è davvero difficile esprimere un’opinione originale al riguardo. Sono certa che la volontà abbia un ruolo determinante nel liberare la persona tossicodipendente, ma in qualche modo la volontà del tossicodipendente è inceppata. Per sbloccarla è necessario un aiuto esterno. Però, tale aiuto è a sua volta condizionato dalla volontà del tossicodipendente che, per accettarlo, si deve fidare.

Dunque la volontà e la fiducia sono due elementi fondamentali per uscirne. Credo di non sbagliarmi nell’affermare che uno appartiene alla sfera della razionalità e l’altro a quella delle emozioni, anche se non in termini assoluti. Infatti, l’esercizio della volontà, pur essendo un prodotto della sfera della ragione, non è esente da componenti e da condizionamenti emotivi e sentimentali, così come la fiducia, avvertita soprattutto a livello emotivo e sentimentale, non è esente da un processo razionale che ne legittima l’esistenza. L’intreccio è perverso. Come è pure perverso l’intreccio che si sviluppa nell’interazione tra droga come malattia e droga come scelta. Forse è lo stesso intreccio. Districarlo non è facile.

Ma perché si diventa tossicodipendenti? E qui mi si affaccia alla mente subito una parola: il vuoto. Forse dovrei dire che mi si affaccia alla mente un ricordo. Avevo appena cominciato a entrare a Bollate e tra i detenuti c’era Franco Legato. Un giorno, Legato mi disse: il dottor Aparo vuole che si portino testi per poterne parlare e per sviluppare riflessioni, ma io non posso portare un testo. Nella mia testa c’è il vuoto. Questa affermazione mi aveva fatto rabbrividire. E ieri nel dibattito è emersa più e più volte: “Mi drogo per riempire il vuoto”; “più mi drogo e più mi svuoto”.

La consapevolezza c’è, ma a quanto pare non basta per non cominciare e sicuramente non basta per uscirne. E allora ricordo anche quello che ieri ha detto Luciano per bocca di Tango: molti cominciano, perché sin da bambini vedono gente che si droga. Fa parte del panorama. E’ normale.

E allora, da ex insegnante, mi chiedo: Che responsabilità ha il contesto nell’indurre certi comportamenti, nel condurre a certe “scelte”? Possiamo ignorarlo se vogliamo affrontare il problema per risolverlo? Un’intera società si muove nella direzione quasi esclusiva del profitto. Educazione, nutrimento culturale e spirituale sono ormai opzionali quando non completamente sconosciuti o negletti. L’ignoranza riguarda anche il piano sentimentale e affettivo. Secondo me il piano sociale complica ulteriormente le cose, ma non può essere ignorato.

Nella mia pre-adolescenza e adolescenza mi sono molto annoiata, a volte mortalmente annoiata, ma non ho mai pensato, neanche per un attimo, che la soluzione potesse stare nella droga. Perché? Non credo sia una domanda banale, perché è la stessa che mi pongo quando di fronte alla responsabilità personale alcuni la esercitano e altri la negano, alcuni se l’assumono e altri la disertano.

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L’ultima volta

L’ultima volta, Manuela Matrascia

Le mie conoscenze sulla tossicodipendenza vengono principalmente dallo studio dei libri di testo. Non mi sono mai posta troppe domande a riguardo, ma partecipare agli incontri del gruppo, ascoltare i pensieri dei detenuti mi ha dato modo di riflettere.

Ho pensato alla mia adolescenza e alla compagnia di amici che incontravo ogni estate quando andavo in vacanza ad Agrigento. Molti di loro aspettavano con ansia di compiere i diciotto anni per provare la cocaina, “Ma solo per provare“, dicevano! D’altronde si annoiavano nel fare sempre le stesse cose ed erano alla ricerca di qualcosa di “forte” che scuotesse la loro vita monotona.

Per me drogarsi per puro divertimento non era normale, ma evidentemente non mi annoiavo quanto loro! Credo che dalla prova “per divertimento” alla malattia ci sia un passo davvero piccolo; si inizia per scherzo e ci si ritrova dentro un labirinto dal quale è difficile uscire, tanto più se ciò che ti ostacola nel trovare l’uscita è qualcosa che ti dà piacere. A questo proposito, nell’incontro con il gruppo di Bollate, mi ha molto colpito l’affermazione “ti droghi perché provi piacere“. Quando si è tanto attratti da una cosa è difficile allontanarsene. Inoltre, se si attraversa un periodo difficile, ogni pretesto è buono per ricercare piacere e, in assenza di mezzi legittimi per procurarsi la droga, si ricorre a mezzi illegittimi.

Tuttavia, a mio parere, la delinquenza non può dirsi dipendenza o malattia, quanto invece uno stile di vita mirato, tra l’altro, a soddisfare e confermare la dipendenza da sostanze. Probabilmente il tossicodipendente entra in un circolo vizioso nel quale per far fronte alla mancanza diventa prassi normale delinquere.

“Tutti i tossicomani si illudono di potere smettere in qualsiasi momento. Il passaggio dall’uso saltuario a quello abituale è graduale e facile. Col tempo l’aggravamento dei sintomi fisici, l’isolamento familiare, sociale e lavorativo determinano nel soggetto un sentimento di amore-odio verso la sostanza della quale, però, non può fare a meno. Se prova a smettere sta male, e quando ci ricade avverte quanto sia stata inutile la breve ribellione. Egli è in preda a un profondo conflitto, che investe una parte della sua sfera psicologica, regredita a quella fase ambivalente in cui il bambino sente nel contempo il bisogno della protezione materna e l’opposto bisogno di respingerla per sentirsi autonomo. La droga assume un doppio ruolo: diventa la madre e allo stesso tempo lo strumento per autonomizzarsi da lei; lo stesso oggetto, la droga, si fa carico simbolicamente dei due bisogni contrastanti, generando nel soggetto un circolo vizioso che lo costringe a un uso sempre maggiore di questo oggetto falsamente risolutorio. Il bisogno di colmare vuoti affettivi lo porta a ricorrere alla “madre droga” e il contrastante bisogno di autonomia lo spinge all’uso del “mezzo droga” che seda le tensioni e lo illude di padroneggiare il mondo; in realtà gli conferma solo la sua situazione di dipendente. Non si può giudicare una vera e definitiva liberazione la sola astensione prolungata dalla droga, ma bisogna cercare di rafforzare la capacità di tollerare le frustrazioni, di rinviare i bisogni di soddisfazione immediata dei desideri e di modulare effetti contrastanti.”
(cit. Articolo “Rubrica Psichiatria”)

Pur non essendo una persona romantica, se penso alla dipendenza in relazione ai miei ventitré anni, mi viene in mente la “dipendenza da amore”. Nel famoso film “Twilight” il protagonista, vampiro innamorato di una giovane umana, esprime il suo amore dicendole “E’ come se tu fossi la mia qualità di eroina preferita”, quindi in una visione più “rosa” della questione, anche l’amore potrebbe essere vissuto come dipendenza.

Nel momento in cui devi disintossicarti da un amore malato o da una persona che ti fa star male è importante avere tanta forza di volontà e trovare un valido motivo, uno stimolo più forte che non ti dia modo di tornare indietro e di ricadere negli stessi errori. E’ necessario prendere consapevolezza del male che si fa a se stessi e imparare a distinguere ciò che è bene per la nostra vita e ciò che è male. Quando torni a farti del male è perché evidentemente non dai molto valore alla tua vita, perché non hai autocontrollo, perché quando sei alla ricerca di qualcosa che ti faccia sentire bene nell’immediato. Non ci sono promesse con te stesso o ad altri che possano abbattere il bisogno, quello che conta è soddisfarlo; “è l’ultima volta e poi non lo faccio più“, ma ci ricadrai altre mille volte.

Forse il problema è il nostro essere impazienti, l’essere abituati a volere tutto e subito senza la fatica dell’attesa per guadagnare qualcosa di buono e costruttivo; forse il problema è il nostro essere egoisti, l’idea di soffrire è impensabile perché si pensa di avere il diritto di stare bene a tutti i costi.
La droga, secondo me, sta qui. La droga c’è nel momento in cui crolli, ti coglie nell’istante in cui sei debole; nello stesso tempo ti dà sollievo e ti uccide. Allora la scelta resta al soggetto: trasgredire e soddisfare subito il proprio benessere o impegnarsi in un progetto che, se pur lungo e faticoso, può portarti ad un benessere più duraturo.

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La droga e l’altalena

La droga e l’altalena, Claudio Palumbo

Sinceramente questa è una domanda che non mi sono mai fatto, credo perché quando ho iniziato era solo uno sfizio e un gioco. Non potevo accettare di essere un tossicodipendente, perché i tossici erano gli altri, quelli deboli. Usando “solo” (si fa per dire) cocaina, non volevo riconoscermi nella veste del tossico, cioè di una persona che non ha il controllo di sé: inaccettabile, guardarsi allo specchio fa male!

Sono entrato e uscito dal carcere molte volte e, a causa della cocaina che assumevo, ho vissuto come su un’altalena tra un burattino e un burattinaio.

Ho sempre creduto di riuscire a separare, illudendomi, lo sballo dalla famiglia. Sicuro di non tradire mai nessuno, mi accorgo adesso che già solo per il fatto di essere in carcere, ho tradito la mia famiglia. Mi sono illuso di essere un buon padre e un buon marito. Oggi mi rendo conto di quello che sono e di quello che potevo essere. Forse l’unica fortuna di questa situazione è potersi togliersi la maschera e chiedere aiuto a chi sarà disponibile ad aiutarmi.

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Una scelta che diventa malattia

Una scelta che diventa malattia, Maurizio Chianese

Negli ultimi incontri del Gruppo della Trasgressione, si è discusso sulla tossicodipendenza. Tutto è partito da una domanda che il dott. Aparo ci ha posto «la dipendenza, è una scelta o una malattia?»

Tutti noi abbiamo risposto, generalmente, in modo affermativo; qualcuno non la riconosce come malattia, ma più come un problema che può essere risolto trovando qualcosa di positivo, che possa in qualche modo sostituire la sostanza. Massimiliano diceva che in questo periodo lui si sente molto appagato dal suo percorso, che lo ha portato ad avere degli incontri con adolescenti, con i quali riesce a fare prevenzione grazie alla sua esperienza passata di tossicodipendente. In queste occasioni Massimiliano è contento di essere utile, si sente riconosciuto dai ragazzi e da questo ricava un appagamento che lo tiene lontano da ciò che lui ora riconosce come qualcosa di molto brutto e pericoloso.

Io credo che tutto inizi da una nostra scelta, i motivi sono vari: appartenere ad un certo gruppo di persone; il fascino che si prova a vedere persone più grandi con un certo stile di vita (divertimento, soldi, donne); la mancanza di affetto; il fatto che in famiglia la sostanza è di casa. Comunque sia, la scelta è stata presa da me, e il consumo nel tempo ha fatto sì che la sostanza diventasse parte integrante della mia vita, una malattia che senza accorgermi mi stava portando alla rovina.

Come me, molti la riconoscono come malattia, e come tale va curata. Ma come? Sicuramente con l’aiuto di operatori, psicologi che conoscono questa malattia. Il percorso per me sarà molto lungo, ma ho delle vere motivazioni che mi aiuteranno. Questo percorso col tempo mi porterà a vedere in modo molto diverso la realtà della mia vita.

Vorrei tanto ringraziare Veronica, perché raccontando la sua esperienza negativa, oltre ad avermi trasmesso molta tenerezza e tristezza, mi ha fatto notare, che ci sono molti punti in comune con la mia tossicodipendenza, infatti anch’io come lei, cercavo con varie scuse di andare nei posti dove ero sicuro di trovare la sostanza, dicendomi, e mentendo a me stesso, che avrei avuto la forza di farne a meno e di potermi controllare. Cosa che poi si è rivelata falsa.

Il dott. Aparo, l’ultima volta, ci ha suggerito di riflettere sulla nostra esperienza del conflitto. Credo che un vero conflitto l’ho avuto dopo un periodo di astinenza, dovuto alla mia carcerazione. In quel periodo, ricordo di avere fatto promesse alla mia compagna che una volta libero, non avrei più usato sostanze. Sono uscito dal carcere in affidamento, che grazie agli obblighi sono riuscito a portare a termine; in più per sette mesi, sono riuscito a non farne uso.

Poi, un giorno sono andato a trovare mio padre a casa sua, luogo in cui la cocaina si trova alla porta accanto. In quel momento sì è accesa la lampadina. Sono stato un’ora da mio padre, e in quel breve tempo sono riuscito a pensare «Ora vado di là e mi faccio un pippotto! Anzi no, perché ho promesso! Ma sì, solo uno che vuoi che faccia? No, mi conosco, è meglio evitare! No, ma solo uno non mi fa niente, poi torno a casa e nessuno sa niente!»

Alla fine quel pippotto l’ho fatto, e al contrario di quello che avevo pensato quel giorno, ho rotto un patto, e mi sono infognato di nuovo nella sostanza. Risultato: mi sono ritrovato fuori di casa, sono ritornato da mio padre e ho ricominciato a fare serate, e nel giro di poco, nuovamente in galera.

Oggi sono quattro anni che non uso sostanze, primo perché sono in galera; secondo a questo “giro” mi sono fatto un grande esame di coscienza e sono arrivato alla conclusione di farmi dare un mano, un aiuto molto concretamente. In più, dentro me c’è una grande volontà di cambiare, e ho una grande motivazione che si chiama Sofia. Non so se riuscirò a ricostruire la mia famiglia, ma voglio sicuramente avere la possibilità di essere un padre, giusto, bravo e serio, che possa essere un esempio positivo per la mia “principessa“.

Se oggi sono qui a scrivere queste mie considerazioni, è grazie a voi del gruppo, che con le vostre storie e scritti mi avete invogliato e spinto a proseguire nel mio percorso.

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Nelle mani del burattinaio

Nelle mani del burattinaio, Gaetano Viavattene

In uno degli ultimi incontri al gruppo abbiamo parlato della tossicodipendenza. Quasi tutti ritengono che il tossicodipendente sia una persona malata e, in quanto tale, vada curato. La tossicodipendenza è una malattia riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, un problema mentale che sfocia sempre in una malattia.

La metafora del burattino e del burattinaio è stata veramente molto efficace, perché noi tossicodipendenti al mattino siamo burattinai, alla sera, invece, burattini che si rimettono al volere del burattinaio. Da bravi burattini ci droghiamo col piacere di farlo, sentendo emozioni e brividi irraggiungibili se non con labuso della droga scelta dal burattinaio.

Ma il burattinaio è certo che sia proprio lui a scegliere cosa fare? Forse nemmeno lui si rende conto delle molle che lo spingono a fare ciò che fa con il suo burattino! Forse questo burattinaio non vuole proprio diventare adulto, forse lui crede ancora di essere il ragazzino incompreso che per sfuggire ai propri doveri si rivolge al primo burattinaio che incontra.

Ma se partissimo dall’inizio, da quando eravamo bambini, cosa ci è mancato? Forse i nostri genitori non erano abbastanza presenti e questo ci ha indotto a cercare un gruppo che ci accettasse… ma di solito questi gruppi sono formati da ragazzini con gli stessi problemi o peggiori… e allora… eccoci pronti a tutto pur di farci accettare.

La prima canna, il primo furto e subito dopo le prime giustificazioni: “è colpa loro, non mi hanno dato le attenzioni che meritavo”. Ma sapevamo bene che le mani delle nostre mamme e le schiene dei nostri papà erano spaccate dalla fatica. Ma non volevamo vedere, e allora: “io da grande non sarò come lui“… e vai col branco e cominci a drogarti.

Ora siamo diventati grandi senza paura, anche perché abbiamo già conosciuto la cocaina e l’eroina e allora non basta più la borsetta di mamma e nemmeno il piccolo furterello. Ora servono i soldi, quelli veri, e con la disinibizione della coca o della rabbia si va avanti… siamo grandi, siamo forti e ci diamo dentro di brutto.

Ma le sensazioni cambiano, ora non voglio neanche stare col gruppo, ora sono solo, la dipendenza è arrivata assieme alla paranoia, al chiudersi in casa con le tapparelle abbassate…

Il gruppo dov‘è? Il branco è lì pronto quando c’è da sfruttarsi a vicenda per fare soldi, per drogarsi e circondarsi di prostitute, alcool, belle macchine, bei vestiti… perché non si possono avere rapporti veri, sono costruiti ad arte dal burattinaio che tira le fila del burattino che sei diventato… e arriva, inevitabile, la sosta al “Grand Hotel“, sempre aperto e sempre con un bel posto letto che ti aspetta, caldo caldo.

Ora sono nei guai veri, ora cerco in me stesso le spiegazioni e non le trovo o non le accetto o forse, chissà, io non c’entro, è la vita!

Non accetto che sia stato quel bambino a farmi diventare un burattinaio… che a sua volta mi riduce un burattino nelle ore più buie, dovrei cercare nel mio profondo e questo mi fa paura, dovrei condividere tutto questo con un altro, mi tengo tutto dentro e… quando sarò fuori dal carcere si vedrà.

Ma il giro è breve… e, via via, entri ed esci, entri ed esci, ti sei quasi convinto che sia normale… incontri sempre le stesse persone: chi non accetta quel rompi balle del bambino che lo assilla, chi se la prende con la propria storia sentimentale e chi scarica addosso al sistema tutte le responsabilità, senza accettare che è in se stessi che bisogna guardare per trovare le risposte. Poi, dopo anni, ti svegli e vedi il mondo cambiato, chi si è costruito una famiglia, chi è all’estero e ce l’ha fatta, qualcuno è al cimitero, qualcuno è qui a lavorarci sopra.

Ma il carcere è una strada migliore della comunità? Per tanti sì, oggi le carceri sono popolati al 70% da tossicodipendenti, un rifugio per tutti quelli che non vogliono scontrarsi con la realtà, un buon 50% ora comincia a comprendere e a lavorare sulle proprie responsabilità ed è sempre più frequente la ricerca degli psicologi in gruppi di sostegno orientati al recupero, ma non tutte le strutture carcerarie hanno i mezzi per poter far fronte al problema.

La piaga che ci siamo inflitti è grave, molto più di quello che si possa pensare. Spero che i giovani di oggi possano capire che le droghe non risolvono nulla, anzi aggravano il problema e, poco a poco, ci consegnano nelle mani del burattinaio.

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Sulla Tossicodipendenza

Bollate, 11/02/2016 – Verbale dell’incontroManuela Matrascia

La riflessione sulla tossicodipendenza prende avvio da una domanda: La tossicodipendenza è una malattia? Sicuramente la questione è complessa: nella tossicodipendenza vi è un incrocio tra libertà e schiavitù, fra libera scelta e bisogno dell’organismo indotto dall’assuefazione. Il modo di interagire con il tossicodipendente cambia in base a come si intende la cosa: per la malattia, la risposta prevista è la cura; per la libera scelta, no.

Questo tema è stato discusso all’incontro del Gruppo a Bollate, dove i detenuti hanno cercato di rispondere a tre precise domande:

  • Cos’è la tossicodipendenza?
  • Qual è la risposta opportuna alla tossicodipendenza?
  • I reati connessi alla malattia vanno considerati parte integrante della malattia?

Di seguito, una parte delle risposte della giornata alle domande formulate dal dott. Aparo.

 “E’ importante riconoscere la malattia e intraprendere un percorso, essendone convinti e facendolo per se stessi. La tossicodipendenza è un problema al quale vanno date delle risposte; ma queste risposte non sono le stesse che si danno a una comune malattia (i farmaci); la tossicodipendenza va curata con esperienze positive e obiettivi.”

“La tossicodipendenza è una malattia a livello mentale. Perché provo piacere”

Dott. Aparo: riteniamo che fare uso di droghe sia una scelta,  un’espressione della nostra libera volontà o il risultato di una malattia che riduce i nostri margini di scelta? O riteniamo si tratti di una condizione alla quale non ci si può sottrarre e nella quale i nostri margini di scelta sono azzerati? Il tossicodipendente è un individuo che ha perso la propria libertà o è una persona che ha la facoltà di guidare la propria vita?

“La tossicodipendenza è un disagio mentale che nasce in determinate situazioni. Si può intervenire stimolando il cervello di una persona”

“La tossicodipendenza è una malattia SCELTA dalla persona, si può curare con la volontà!”

“Dire che siamo malati è brutto, quindi diciamo che è una scelta, ma in questo modo non riusciamo nemmeno a riconoscere la necessità della cura”

“Quando ho chiesto aiuto in galera mi sono sentito libero, perché la droga ti svuota, ti senti vuoto dentro”

“La tossicodipendenza non ti lascia uguale a come eri, ti svuota e ti toglie sempre più le risorse; quindi l’intervento da effettuare è sempre più importante”

“Le persone iniziano a drogarsi perché hanno un vuoto dentro, ma considerarla una malattia vorrebbe dire potermi arrogare dei diritti per il fatto di essere malato, la userei come scusante”

Aparo: si è parlato dell’importanza di nutrirsi di altro, di trovare dell’altro che riesca ad appagare il soggetto più della droga, ma è stato anche osservato che occupare il tempo per scacciare il pensiero non basta…

“Lavoravo dodici ore al giorno ma pensavo solo alla droga, è necessario scavare dentro se stessi e scoprire nuove parti di sé.”

“Non accettiamo la parola “tossico” e quindi non riconosciamo la malattia, quando riconosci di essere tossico, capisci che è una malattia. Quando sei tossico non vedi più la luce, quindi per garantirti la droga o vai a rubare o ti prostituisci. Poi cresci, arrivi in carcere, ma ancora non lo accetti e non ti fai aiutare. Con la maturità e quando riconosci la tua condizione, incontri le persone giuste che ti indirizzano a non vergognarti. Se scelgo di farlo per qualcuno non funziona, funziona quando inizi a farlo per te stesso”

Aparo: che ci voglia la volontà del soggetto è sicuro, ma basta la volontà? In ogni caso, malattia o no, i reati che si commettono per provvedere alla dipendenza, li consideriamo parte integrante della malattia?

“Per fabbisogno, per riempire la mancanza, se non hai sostegno economico, devi trovare i soldi delinquendo, spacciando, così hai anche la droga per te.”

“Ci sono dei miei amici che rapinano senza drogarsi, è malattia o no? Rubano anche quando non hanno esigenze di soldi.”

Aparo: comunque s’intenda la questione, sappiamo che la dipendenza genera una mancanza alla quale il soggetto cerca di provvedere con la sostanza. Ma quali sono i confini di questa mancanza o di questa malattia? E inoltre, in un progetto terapeutico, che ruolo ci sembra possa avere la persona portatrice di questa mancanza? Che ruolo diamo a chi risponde alla sua mancanza con delle azioni che ledono gli altri e portano in galera? Che ruolo diamo al malato per tirarlo fuori da questa malattia?

“E’ l’influenza di chi è più grande di te”, “E’ il vuoto che provi dentro”, “E’ che sei arrabbiato”.

“Ma lei, dott. Aparo, cosa ne pensa?”

Aparo: per il momento, preferisco lasciare a voi e porre a me stesso una serie di domande:

  • Acquisito che il reato con cui si cerca di procurarsi ciò che manca è un danno per il soggetto e per la collettività, quali strumenti ho per rispondere a questo danno?
  • E quale ruolo dovrebbe avere il tossicodipendente nella risoluzione del problema?
  • Se, come diverse persone hanno detto, è necessario che il soggetto abbia un alleato, come deve essere questo alleato?
  • Come deve essere quest’alleanza, questa relazione fra alleati? Perché l’alleanza fallisce così spesso?
  • E’ utile per il tossicodipendente essere considerato una persona che ruba non perché ha deciso di farlo ma perché costretto da una mancanza? Dobbiamo considerarlo il burattino della sua mancanza? Un burattino pilotato da una mancanza che però ha preso corpo quando non si era ancora burattini e magari ci si sentiva o si sperava di diventare burattinai
  • Fra burattini vinti e burattinai di cui si sono perse le tracce, con chi dobbiamo provare a formulare un’alleanza utile? A chi chiederlo se non a voi che conoscete sia l’uno che l’altro?

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Tossicodipendenza: quale malattia?

Che la tossicodipendenza sia una scelta potrei anche escluderlo.

C’è un sistema sanitario che la considera e tratta quale malattia e un sistema giudiziario che fa lo stesso, anche intersecandosi con il primo e molto più di quanto non accada per altre malattie. Ad esempio, si ritiene opportuno e si legittima (in almeno due leggi) un trattamento extramurario, spesso come priorità rispetto alla custodialità per colpevolezza. Questo non accade con altre malattie (al più trattate nei centri clinici o infermerie degli istituti). Perché???

Sempre nel sistema giudiziario (mi aiuta tenerlo come riferimento) la tossicodipendenza è riconosciuta come malattia, ma non di quelle che incidono sulla capacità di intendere e volere (per le quali c’è l’opg o l’impunibilità), nemmeno parzialmente. Il tossicodipendente è imputabile e dunque responsabile.

Allora se il tossicodipendente è malato ma imputabile, cioè la sua malattia è incistata in qualcosa e può avere quale conseguenza anche i reati, questi si scelgono. Questi non sono parte della malattia, nemmeno sono sintomi. Il tossicodipendente, anche se delinquente, non ha la malattia di commettere i reati e non è quella che si cura.

Se la tossicodipendenza è malattia allora non si sceglie di averla, tuttavia si  possono scegliere stili di vita e/o abitudini e consuetudini che sono agenti favorenti la tossicodipendenza. Ma questo è vero anche per l’infarto, il cancro, le malattie respiratorie ecc. ecc. Però se la tossicodipendenza non incide sulla capacità di intendere e volere allora si può curare e si può scegliere di curarla. Nemmeno altre malattie si scelgono, ma si curano. O forse la differenza sta proprio in questo? Nella possibilità di volere la cura? Di rinunciare alla sostanza? La tossicodipendenza  lede la volontà, l’autonomia? Non lede la capacità di intendere, ma lede la capacità di volere? Oppure coglie chi ha un difetto della volontà?

Il pilota della Wizz-air era malato, ma non incapace di intendere e volere (per come è stato premeditato, organizzato, eseguito l’atto credo che lui intendesse e volesse, e difficilmente, seppur malato, sempre secondo me, sarebbe rimasto impunito per vizio di mente). Egli voleva morire e voleva uccidere, il tossicodipendente (non il consumatore, non l’abusatore bensì il dipendente, il malato) vuole drogarsi?

Detto questo, il mio tormento è: che malattia è la tossicodipendenza? Si può definire? Si può concettualizzare con tutti gli elementi del concetto di malattia? E se sì, che definizione ne esce?

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Sulla tossicodipendenza

Bollate, 11/02/2016 – Verbale dell’incontroNuccia Pessina

Il dibattito si è snodato a partire da una prima domanda e da alcune riflessioni a margine di questa: la tossicodipendenza è una malattia o una scelta? E’ importante rispondere perché un elemento, una situazione, un problema, a seconda di come viene definito, induce differenti reazioni. Secondo alcuni dei presenti, la tossicodipendenza può avviarsi e/o consolidarsi come una libera scelta; per altri inizia come scelta e diventa successivamente una malattia. Come si vede, la relazione tra scelta e malattia non è lineare; al convegno in programma è perciò opportuno che le esperienze di ognuno vengano ben documentate e comunicate dopo un’adeguata riflessione.

Massimiliano: Mi drogo da quando avevo 15 anni. Non so dire se è una malattia, ma so che, come il diabete, dovrò curarla per tutta la vita. Ma per me non ci sono pastiglie, ho bisogno di progetti, di cose intelligenti da fare, di cose e persone in cui credere. Sono 8 anni che non mi drogo, da quando ho ammesso di avere bisogno di aiuto e ho accettato di riceverlo; per la prima volta in vita mia, pur se in galera, paradossalmente, mi sono sentito libero.

Alessandro: Più che malattia, la chiamerei dipendenza.

Luciano: Penso che la prevenzione possa funzionare e debba essere stimolata.

Gianni: E’ una malattia che uno decide di prendere.

Dott. A: Malattia, disagio, libera scelta? Ogni diversa definizione dà luogo a risposte diverse; e questo vale per i diretti interessati, per le persone con cui i tossicodipendenti hanno relazioni, per le autorità legali e sanitarie.

Maurizio: Diciamo di aver fatto una “scelta” perché in realtà “malattia” è un termine che non ci piace.

Diego: Trovare qualcosa che ti dà piacere come te lo dava la droga è la risposta, ma non è così facile che questo accada.

Massimiliano: La droga ti svuota. Più ti droghi e più ti svuoti. Devi nutrirti di altro, ma ti ci vuole uno stimolo, un aiuto.

Massimo: Non riesco e non voglio considerarla una malattia, perché ciò potrebbe indurre ad adagiarsi nella cosa. Comunque, la droga ti svuota, ma spesso quando cominci è per riempire un vuoto che c’è già.

Gaetano: Per me è una malattia. Noi non accettiamo la parola “tossico”. Se non la accetti, non accetti di essere malato e dunque non ti curi. Ho cominciato a 15 anni, con la “maturità” dei 15 anni. E a 15 anni rifiuti l’aiuto, vivi solo per quello e ti svuoti. Poi maturi e “scegli” di uscirne, ma devi sceglierlo tu, devi sceglierlo per te.

Giuseppe A: Fare cose non basta per distrarsi dalla droga. Bisogna avere stimoli diversi.

Franco: La vera medicina per uscire dalla droga è avere un diverso nutrimento.

Roberto Dambra: Mi sono drogato a fasi alterne. Pulito dal 1996 al 2004. Vero che gli obblighi imposti dalla mia situazione (analisi presso il SERT e via dicendo) mi hanno aiutato, ma sono stato pulito per circa 4 anni dopo la fine degli obblighi. Poi ci sono ricascato. Perché? Non lo so.

Dott. A: Quali sono i confini della tossicodipendenza? Le azioni da essa indotte come il furto, la rapina, come vanno considerati? Sono parte della malattia?

Gianni: Un drogato è offuscato. Serve la mano di qualcuno e la propria volontà. Se commetti una rapina mentre sei in crisi di astinenza, è una conseguenza della malattia.

Maurizio: O rubi e poi ti droghi perché fa parte dello stile di vita delinquenziale o ti droghi e poi rubi per sopperire alla mancanza di soldi.

Gaetano: A proposito di ludopatia, molti reati sono commessi da persone tra i 50 e i 60 anni. Se sei malato, anche le azioni compiute sono conseguenza della malattia.

Massimiliano: Ho fatto furti anche quando non avevo necessità di drogarmi. E allora?

Esposito G: Mio figlio è drogato da quando aveva 13 anni. Io non ho mai toccato sostanze. La malattia è il vostro cervello. La fascinazione che provate per la droga è frutto del vostro cervello malato.

Alessandro: Anche mio padre ragiona come Giuseppe. Se io lavorassi, avessi una bella moglie, un figlio, alla sera, stanco per il lavoro della giornata, potrei anche farmi una canna. Che male c’è?

Gianni: Ma lei Dott. A che ne pensa?

Dottor A.: Ho cominciato a scrivere ciò che penso su “Voci dal ponte”, vi aggiungeremo quel che direte voi, cercando di ottenere un quadro progressivamente più organico delle nostre considerazioni sul tema.

Luciano: (per bocca di Tango) Qualcuno forse si droga perché fin da piccolo vede gente drogarsi.

Gianni: Il dottore non ha risposto!

Dott. Aparo: Credo sia opportuno considerare il tossicodipendente una persona che sceglie la malattia. Ma quali sono i confini della tossicodipendenza? Dal momento che la tossicodipendenza comporta un danno per la persona e per la società quali sono le reazioni appropriate a questo danno? Esiste un’alleanza che il tossicodipendente possa considerare valida e nei confronti della quale possa ritenersi ed essere ritenuto responsabile? E se l’alleanza fallisce e il danno ricomincia, cosa facciamo? Il tossicodipendente va considerato l’autore del furto o un burattino guidato dalla tossicodipendenza? Qual è l’atteggiamento più produttivo da parte dello psicologo? Nelle mie aspirazioni, io vorrei essere l’alleato di un burattinaio dimenticato che prova a restituire al burattino la libertà che gli ha tolto.

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Non ci basta!

Non ci basta è un libro on line sulla tossicodipendenza, la cui architettura è costituita soprattutto da:

  • le osservazioni, le curiosità, le domande dei componenti del gruppo che partecipano all’indagine sulla tossicodipendenza;
  • il riassunto e la storia delle teorie più diffuse e delle prassi terapeutiche più accreditate sulla tossicodipendenza;
  • le affermazioni che non li convincono;
  • i punti di contatto fra quanto si dice sulla tossicodipendenza, le dipendenze adiacenti (alcol, gioco) e i vizi meno dichiaratamente patologici  delle persone comuni;
  • le risposte che gli studenti mettono insieme consultando quanto è stato già scritto sulla materia;
  • i punti che rimangono comunque insoluti.

Il libro dovrebbe essere “fotografato” con scadenze periodiche, così da permettere agli studenti di riconoscere facilmente quanto, a fine corso, sarà cresciuta la loro competenza sulla materia.

 

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La dipendenza: scelta praticata o malattia subita?

Interrogarsi su cosa è la dipendenza non risponde solo a mera curiosità. Di fatto, ci si rivolge al tossicodipendente in modo diverso a seconda che lo si consideri un malato o una persona che sceglie più o meno liberamente di fare quel che fa.

Anche le norme penali che riguardano la dipendenza e, in particolare, la tossicodipendenza, sono inevitabilmente collegate al fatto che il comportamento in oggetto venga inquadrato come malattia o libera scelta.

Ma la questione è anche più complessa. Va infatti contemplato che il comportamento tossicodipendente possa nascere in virtù di una libera scelta e diventare nel tempo malattia. Il tossicodipendente è prigioniero della propria malattia o è responsabile di essersi consegnato alla malattia?

Il cittadino che abbia margini di scelta per aumentare o ridurre il proprio stato di malattia, a maggior ragione quando tale malattia comporti gravi conseguenze per la collettività di cui egli fa parte, ha diritto di alimentare la propria malattia?

La storia del tossicodipendente di solito parte da un equilibrio precario, per rispondere al quale occorrerebbe una guida capace di sostenere e di insegnare a guardare lontano, e si insabbia progressivamente in una relazione con se stesso e con gli altri per cui l’orizzonte progettuale diventa sempre più ridotto e la persona sempre meno incline a fare investimenti sulla realtà.

Si finisce dentro un loop! Ma quanto è utile al soggetto essere trattato come vittima del loop che egli stesso ha attivato? Quanto giova al progetto terapeutico che il loop della tossicodipendenza venga considerato una malattia?

E infine,  in quale ambito è utile considerare malattia la tossicodipendenza? Quello del rapporto del soggetto con se stesso e con la propria inclinazione a restringere la propria facoltà di scelta o quello dell’abuso di potere che il tossicodipendente compie quando commette reati?

Il pilota russo che ha deciso di suicidarsi portando l’aereo con 150 passeggeri a schiantarsi contro una montagna, se fosse sopravvissuto, sarebbe stato considerato un omicida che, in quanto malato, avrebbe potuto godere delle attenuanti relative alla malattia? Quanto siamo tenuti a rispondere delle malattie che ci procuriamo se queste malattie portano ad abusare del nostro potere sugli altri? Abbiamo il diritto di procurarci o di lasciarci prendere dalle malattie se continuiamo ad avere con gli altri delle relazioni che vengono pesantemente investite dalle nostre malattie?

Il tossicodipendente agisce per provvedere a una mancanza che lo fa soffrire; agisce mosso dalla mancanza quasi come un burattino mosso dalle fila. Ma quanto è utile al partner del progetto terapeutico rivolgersi al tossicodipendente come a un burattino? Cosa possiamo fare per rintracciare e motivare il burattinaio che, dopo essersi legato mani e piedi alle fila, è sparito dalla memoria, lasciando al loop della droga e delle relazioni che la circondano il compito di restringere sempre più la spirale del burattino? E che ruolo è opportuno che abbia in questa ricerca il tossicodipendente?

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