Caro figlio mio

Caro figlio mio, o figlio mio caro: spesso noi due scherziamo – ripassando la grammatica anche in questo faticoso inizio di prima media – su come il mio professore di italiano al liceo diceva che la diversa posizione di una virgola nella stessa frase può cambiarne radicalmente il senso.

Ma anche la diversa disposizione delle parole conta…. e così nel “figlio mio caro” l’accento non cade più sull’amore ma sui costi della faticosa sopportazione da parte del genitore, in questa tua preadolescenza sempre più inquieta.

Capita spesso che fin da bambino qualsiasi esperienza ci venga proposta sempre suddivisa in due categorie: bianco o nero, buono o cattivo. E forse per questo cresciamo nel dissidio interiore di dover dare ascolto solamente ad una voce: e, preferibilmente nelle intenzioni di mamma e papà, quella dell’angioletto piuttosto che quella del diavoletto.

Se mi volto a guardare indietro, il ricordo ancora nitido è quello di me diciassettenne nell’anno di Noviziato con gli scout di Sesto San Giovanni: oggi sempre di più posso dire che è stato proprio quello il tempo in cui ho imparato a mettere ordine dentro me stesso. Fino a quel momento mi guardavo intorno e, forse per superare la banalità della gran parte delle cose che mi circondavano, avevo iniziato a trascrivere a mano su dei quaderni rossi i testi delle canzoni (soprattutto quelle in lingua inglese) che più mi facevano sentire vivo. Perché, al di là dello scoutismo e dei legami forti generatisi all’interno dell’ambiente scolastico nel quale i miei genitori mi avevano sapientemente inserito, per me “era sempre difficile rimettersi in marcia e, ogni volta che ritornavo a casa, era tutto e solamente un aspettare la successiva uscita. La città da una parte, così indecifrabile e indigeribile;  il bosco dall’altra, così desiderabile e terapeutico”.

E così arrivai alla fine della route di quella mitica estate 1988 e i miei compagni di Noviziato mi affidarono in dono, come totem e pertanto segno caratteristico del mio essere, quello di Tigre Gioiosa. Dove, al di là della tigre che ancora oggi connota il mio carattere spigoloso, l’aggettivo gioiosa mi fu assegnato in termini “migliorativi”, come cioè un invito a collocarmi di più verso sfumature di colori sentimentalmente più caldi.

Già, le sfumature. Perché con il tempo mi arrivò in premio un’altra folgorazione, dopo il senso di quell’anno straordinario del Noviziato e dopo tutte quelle parole vitali delle quali mi nutrivo ricopiandole su quei quaderni rossi, come fossero un breviario laico per l’anima.

Fu ad un campo scout di “formazione capi” quando, durante una sessione serale e nel fiume in piena dei miei 22 anni, sentii pronunciare dagli educatori che avevano cura di noi l’elogio dell’equilibrista: colui che per rimanere in piedi sul filo, e non cadere nel baratro o nel vuoto che sia, deve continuamente sbilanciarsi da una parte e dall’altra. In quell’immagine, così semplice ma per me straordinariamente efficace, trovai la soluzione a tutti i miei residui mali. 

E iniziai a non tormentarmi più nella vana ricerca di un equilibrio stabile, perché solamente una sana instabilità poteva farmi andare avanti, un passo alla volta. Perché in ogni singolo passo c’è inevitabilmente il segno plastico di tutto questo: sbilanciarsi in avanti per non rimanere fermi.

Capirai allora perché quando, all’inizio del nostro cammino all’interno del Reparto La Chiamata, ho sentito il nostro comune amico Juri parlare dell’altalena, ho avvertito il cuore nuovamente battere forte come in quella sera di 30 anni fa. E ho realizzato che in questo ultimo viaggio nel sottosuolo del carcere di San Vittore sei sempre stato tu il protagonista dei miei pensieri. E proprio per questo ho deciso di vedere quali pagine dei miei quaderni rossi, giovedì dopo giovedì, tale nuova esperienza di comunità educante sarebbe riuscita a fare riemergere dopo tutti questi anni.

Perché la musica, ormai e per fortuna, fa parte anche della tua giovane vita. Non potrò mai dimenticare uno dei miei primi timidi approcci con te sul tema… quella sera quando, sdraiati sul lettone di casa e dopo averti fatto ascoltare l’assolo di Gilmour a Pompei, mi avevi confidato: “Non male papà, ma lo sai che anche Rovazzi sa suonare la chitarra?”.

Sicuramente l’Hotel California nel quale un tempo cercavo rifugio, trasportato dalle note della mia chitarra bianca, può avere lo stesso significato della Swishland del cantante che oggi preferisci: un luogo di evasione.

Ma io ti auguro di trovare qualcuno che sappia poi dare voce al tuo dáimōn, affinché quella naturale ed innata voglia di evadere non ti porti all’autodistruzione ma sia capace di farti realizzare il disegno che la vita ha in serbo per te. Non sarò geloso nei suoi confronti, ma infinitamente grato: del resto il nonno e la nonna, che tu ben conosci, hanno avuto la capacità di coltivare il terreno, prepararmi la strada indicandomi una direzione di senso (nonostante la naturale timidezza del primo e qualche milligrammo di ansia – ugualmente naturale – della seconda) con l’esempio e senza tanti giri di parole. Ma sono stati poi altri, diversi dai mei genitori, a raccoglierne il testimone e a fare con me e su di me “il lavoro sporco”: una maestra elementare e a seguire una manciata di altri bravi insegnanti, un prete e una suora, alcuni capi scout, un amico di famiglia.

Quando, ancora oggi, devo affrontare qualche momento di difficoltà e sconforto, mi fermo ad ascoltare le loro voci che ancora tutte risuonano dentro di me. O rileggo le parole messe in poesia che mio papà ha pubblicato prendendo spunto dalle lettere che ci scambiavamo quando ancora non sapevamo come parlare alle nostre reciproche anime. O ripenso a qualche bigliettino che, ancora oggi, mia mamma non si stanca di lasciarmi infilato in qualche sacchetto.

Perché anche tu scoprirai, con il tempo, che essere te stesso non significa tanto ritrovare dentro di te il tuo vero io quanto sapere fare sintesi della molteplicità di voci che necessariamente abitano in te. E, come un direttore di orchestra, saper far suonare insieme tutti gli strumenti. Certo, avendo il coraggio di ascoltarli tutti, nessuno escluso, e di accordarli nel modo migliore affinché il suono così generato sia quello più utile e proficuo per l’occasione richiesta.

Confesso anche che credevo, nel mio strampalato senso giovanile di onnipotenza, di poter trarre da tutte le parole che con cura trascrivevo su quei quaderni non solo nutrimento interiore ma anche ispirazione per una canzone che avrei voluto scrivere io, e che sarebbe per ciò solo passata alla storia. Da anni sorrido di tutto questo anche perché ormai mi è chiaro che, se rinasco, non voglio più essere un cantautore ma un sentimental dj, sempre pronto a trovare – in ogni occasione della vita – quel disco capace di far star meglio una persona attraverso l’invito a curarsi, facendo risuonare dentro di sé parole di altri. E, proprio grazie a quella cura, saper ritrovare le proprie parole e riuscire finalmente a pronunciarle, come atto creatore capace di dare il vero nome alle cose.

Ma, a pensarci bene, è questo anche l’impegno che voglio prendere oggi – in questa festa del papà cosi particolare e quantomai sentita – con te e con tutti i giovani adulti del Reparto la Chiamata.

Per amore del mio popolo non tacerò”, e per aver invitato altri a non tacere più qualcuno ha anche perso la vita: il suo nome è don Peppe Diana, ucciso un 19 marzo di tanti anni fa (era il 1994) nella sua Chiesa, a soli 36 anni e nel giorno del suo onomastico, da un killer del clan dei casalesi. E ancora oggi sono molti a rimpiangerlo, perché in lui erano riusciti a trovare un padre.  Ma, come era solito dire ai suoi parrocchiani, “non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di aver paura, il coraggio di fare delle scelte”.

Caro figlio mio, “la vita è un bivio”: così ci ha ricordato – in maniera tanto semplice quanto efficace – Mattia durante uno dei nostri primi incontri a San Vittore. Quando anche tu ti sentirai prigioniero, ricordati quel pezzo di via Francigena che abbiamo voluto fare insieme – io e te soli – la scorsa estate: dopo 9 ore di cammino e portando anche il tuo zaino di fronte all’ultima fatica, imprecavo al cielo come un pazzo invitando il Sindaco di Monteriggioni a costruire un tapis roulant al posto di quella impervia salita che conduce all’ingresso delle mura medioevali.

 

Non abbiamo mai riso così tanto, perché anche tu sapevi che stavo scherzando: lo scoutismo infatti ci insegna che la strada più larga ed in piano difficilmente è quella che porta più lontano.

A differenza di Mattia e di tanti altri giovani adulti che non riescono più a trovare la via di casa, le scelte della tua vita tu le hai ancora tutte davanti. Buona strada allora: insieme a tua mamma e a tua sorella, sai che facciamo il tifo per te.

E io faccio il tifo anche per i giovani adulti del Reparto la Chiamata, perché ti auguro anche di scoprire sulla tua pelle che quando poi diventi padre le persone a cui vuoi bene le guardi e le ascolti come se fossero tutti figli tuoi.

Casa circondariale di Milano San Vittore, 12 gennaio 2023 – 16/19 marzo 2023

Reparto LA CHIAMATA        Genitori e figli

La Chiamata al carcere di San Vittore # week 10

Relazione di appartenenza.

Una vostra parte è dentro il carcere, e questa siamo noi” (Armando Xifaj, sottosuolo del carcere di San Vittore, 9 aprile 2005 – Workshop Agesci “Chi è dentro è dentro, chi è fuori fuori?”)

Reparto La Chiamata

Se avessi avuto un coach

Delinquo quindi sono
perché di me altro non trovo
Ci sta che chiedo scusa
ho imparato a bluffare con chi mi accusa
Vorrei un progetto che mi faccia salire l’anima sul tetto
Sentirmi onnipotente senza fare male a me
e alla gente.
Respirare l’aria di pensare
per scegliere dove minchia andare
Ci sta che non capisci perché dentro ci finisci
Me ne fotto del calmante
e di una vita barcollante
Non mi basta un’altalena
mano buona sulla schiena.
Vorrei l’alba chiara e un fiore
al posto del dolore
Un’esistenza persa
dimmi tu coach come potrebbe essere diversa

Lucilla Andreucci

Reparto La Chiamata   – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Don Claudio Burgio e i giovani

Non sono pochi i ragazzi che all’interno del carcere minorile o in comunità ti nascondono la loro vera identità: un adolescente rom solo dopo quattro anni di vita comune mi rivelò il suo vero nome. Mi spiazzò, rimasi perplesso per qualche giorno; poi, capii. Non è solo la difficoltà a consegnare la propria storia personale e familiare; c’è anche la fatica del nascere a se stessi, dell’abitare il proprio nome. Ragazzi orfani di identità.

Sono la paura e la diffidenza a segnare la vicenda di molti adolescenti che incontro: paura di non essere accolti per come sono, paura di non valere agli occhi degli altri, di rimanere invisibili, paura di essere misconosciuti e traditi da un mondo adulto sempre più assente e insicuro, più incline a escludere che a includere.

Ragazzi trasgressivi che, abbandonati a se stessi, sconfinano in comportamenti antisociali e perdono il controllo della loro impulsività, fino a diventare pericolosamente violenti; minori che tentano di soffocare dentro il dolore che li accompagna da quando sono nati.

Li chiamano «ragazzi a rischio», «bulli», «delinquenti», «ragazzi di strada», «giovani devianti», «mostri»: per me sono ragazzi e basta. Li incontro nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano e nelle comunità di accoglienza Kayrós, li ascolto nei colloqui personali, per strada, nei dibattiti pubblici, negli oratori e nelle scuole. Con quella tremenda voglia di gridare al mondo il loro esserci, da un po’ di anni sono diventati i miei compagni di viaggio.

Sono cuori violenti spesso per disperazione. Più vado avanti, più mi convinco di una cosa: non esistono ragazzi cattivi. Mi capita più volte, in occasione di incontri pubblici e di colloqui privati con persone adulte, di avvertire intorno a me ammirazione mista a commiserazione, come se stessi svolgendo un compito ingrato, come se occuparsi di ragazzi difficili fosse impresa straordinaria per uomini fuori dal comune. C’è un po’ in giro questa sensazione, che l’educazione debba essere opera di persone particolarmente eroiche e necessariamente sante.

Non è così. L’educazione è compito di ogni adulto, è responsabilità a cui non ci si può sottrarre; chi come genitore, chi come insegnante, chi come politico, chi come operatore sociale, chi come uomo di sport e di fede… Ognuno deve avvertire l’urgenza e la gioia nel consegnare ai giovani il mestiere di vivere, permettendo loro di incontrare il senso del mondo e trasmettendo loro prospettive di valore e di impegno per cui valga la pena di vivere e, se necessario, di morire.

Improvvisamente questi ragazzi diventano scrittori poeti della vita. In queste pagine si nasconde la loro intimità e un’incredibile sapienza e come se il carcere ridesse a questi giovani la voglia di pensare e di tradurre per iscritto pensieri più veri.

I nostri ragazzi, urlano in modo violento il dolore che non riescono più a contenere dentro, cercano adulti interessati a raccogliere il grido d’aiuto, adulti capaci di governare il caos evolutivo che li stordisce. Il reato, più che scelta consapevole, è segnale di fragilità, sintomo doloroso di un disagio.

Il percorso della consapevolezza e della responsabilizzazione è ciò che permette all’adolescente di ritrovarsi. Troppi genitori, insegnanti, educatori, in nome di un malinteso concetto di educazione, evitano lo scontro per non esasperare il conflitto.

È difficile pensare a una ripresa evolutiva, se l’adolescente non viene chiamato per nome ad assumersi nuove responsabilità. Per lasciare la tomba delle paure alle spalle è indispensabile che egli si senta coinvolto in progetti importanti di vita, in avventure educative di ampio respiro dove possa sperimentarsi come soggetto attivo e possa vivere un protagonismo sano. Per far sì che questo avvenga occorre pensare a ripensare politiche giovanili nell’ambito pubblico e progettualità pastorali nell’ambito ecclesiale improntate sulla serietà.

I giovani non si lasciano affascinare da chiamate poco esigenti e prive di carica. Non c’è espiazione che tenga se non avviene prima questo recupero della coscienza, forse meglio ancora se non si incomincia a formare una coscienza. Non c’è alcuna possibilità di riprese evolutiva senza l’assunzione di responsabilità nei confronti di sé e degli altri. Solo così molte crisi adolescenziali trasformano in risorse un periodo doloroso e difficile di crescita.


Estratti da: ISBN eBook PDF 9788831560825,  Burgio Claudio. Non esistono ragazzi cattivi. Esperienze educative di un prete al Beccaria di Milano. Edizioni Paoline. Edizione del Kindle. Prima edizione digitale 2013.
https://www.kayros.it/don-claudio

Vi presento Cesar

Vi racconto l’impegno e i risultati di una settimana con Cesar, un “pischello” romano che ama la musica, perché questo modo di procedere costituisce un esempio pratico degli obiettivi e dei metodi che caratterizzano il Reparto La Chiamata.

Era il 25 Maggio 2022 e il Gruppo della Trasgressione, insieme ai detenuti, si trovava a Roma presso il Senato della Repubblica, dinanzi all’allora Ministro della Giustizia Marta Cartabia, per il Convegno “Una mappa per la pena, ridurre la libertà per ampliarla”.

Alla fine del Convegno e prima di dirigerci verso il ristorante per la cena, insieme a Rosalia decidiamo di condividere un taxi per un rapido passaggio dall’hotel in cui alloggiavamo. E in quel momento ha inizio l’intreccio delle nostre strade con Cesar.

Accomodate nel taxi, ci ritroviamo nel caos dell’ora di punta, l’intenso traffico si mescola alla bellezza e all’imponenza dei monumenti romani. Alla guida, un signore di mezza età, che con garbo ci intrattiene con alcune poesie da lui scritte. Il nostro è uno scambio piacevole ed arricchente ma sentiamo che qualcosa lo tormenta.

È un padre addolorato e impotente per le possibili conseguenze di azioni del figlio, agli inizi di un’avventura in percorsi devianti. Ci salutiamo lasciandogli i riferimenti del Gruppo della Trasgressione e nel cuore la speranza di non incontrare suo figlio Cesar come detenuto, semmai come libero cittadino portatore di qualche ricchezza.

È passato quasi un anno da quel giorno e la settimana scorsa, durante uno degli incontri, abbiamo visto il volto di Cesar sullo schermo. Si era collegato via zoom, anche se non come libero cittadino.

Durante l’incontro (l’ordine del giorno era sul Reparto La Chiamata), vengono condivise riflessioni sui sentimenti di invincibilità e di impotenza e su come ridurre i danni e gli effetti distruttivi dell’oscillazione tra questi due sentimenti.

Il giovane ed estroverso ragazzino romano, di sua iniziativa, interviene nel discorso sostenendo che nel mezzo di tale oscillazione, esiste un fulcro centrale di cui bisogna tener conto. Ascolto l’impegno e la foga combattiva con cui parla e comincio a chiedermi come canalizzare questa sua energia oppositiva in forme più appropriate e gratificanti, per permettergli di sentirsi riconosciuto ed apprezzato.

In sintonia con gli obiettivi e lo stile del gruppo, e soprattutto con il lavoro pratico che verrà svolto al “Reparto la Chiamata” del carcere di San Vittore, propongo a Cesar un lavoro da svolgere “a 4 mani”, con l’intento di allontanarlo da azioni lesive e di canalizzare le sue energie in qualcosa di positivo che possa anche metterlo in contatto con le sue emozioni.

Facendo leva sulla sua passione per la musica, gli propongo la stesura di un testo che abbia come traccia di base: “Insignificanti o padroni del mondo”. L’obiettivo finale è trasformare il testo in una canzone.

Cesar accetta la proposta e inizia a scrivere, rapito dal flusso di pensieri che prendono forma e riempiono le sue pagine bianche.

Condividiamo riflessioni, mi permette di conoscere la sua storia ed il suo vissuto, sembra un fiume in piena ed in pochissimo tempo, la stesura del testo è pronta.

Leggendone il contenuto, emerge chiaramente il tema delle “micro scelte”, quelle piccole scelte che apparentemente non sembrano così gravi agli occhi di chi le commette, piccole scelte costanti e quotidiane che possono condurre l’individuo verso il punto di non ritorno, scelte che si fanno senza aver consapevolezza delle conseguenze future e che creano le basi, come fossero pezzi di un puzzle, verso la “macro scelta” che andrà a restringere, come in questo caso, la libertà dell’individuo.

Il testo, infatti, parla del passato di Cesar, delle scelte fatte che lo ergevano verso quelle sensazioni di “onnipotenza” e che, nello stesso tempo, lo hanno condotto verso il presente, la detenzione.

Uno stato di reclusione in cui convive con estenuanti emozioni, nella costante ricerca di un’identità e nell’attesa di quel desiderato futuro. Un futuro senza catene, da afferrare con grinta quasi famelica e con la consapevolezza del bisogno di essere sostenuto in questo nuovo cammino.

In poco meno di una settimana, con determinazione e tenacia, Cesar trasforma il testo in canzone e raggiunge l’obiettivo concordato.

Non nego che ho avuto delle difficoltà a comprendere alcune parti impregnate di “slang” giovanile. Non volevo assolutamente alterare il suo brano, ma nello stesso tempo sentivo l’esigenza di tradurne alcune parti per renderlo comprensibile a tutti, soprattutto ai non più tanto giovani come me. Di seguito il testo:


      Me-stesso

Tu non lo sai che vuol dire avere fame, non cambia nulla e tutto resta uguale.
Mi sono messo sotto, ho preso i primi grammi con in testa un obiettivo: non vivere drammi.

Tiro avanti, vogliono arrestarmi. È insignificante ma questo Stato schiaccia.
Sputo veleno e spacco (realizzo) questa traccia.
10k (10 mila euro) in una serata, mi sentivo up, foga esagerata ma poi vai in down, basta una retata.

Il carcere uccide, mette il culo a terra e penso solo ad uscir dalla merda.
Ho dormito per strada, lontano da casa.
Mamma ci pensa (mia mamma pensa alle conseguenze delle mie azioni) ma io cerco rispetto.

Cammino di notte cercando me stesso.
Non dico cazzate. Stringo il crocifisso, passo le notti a pensare, aspettare recluso, come se fosse colpa di qualcuno, cercando la svolta ed un nuovo futuro.
La fame mi mangia, ansia che non passa, mi guardo dentro… che cosa mi resta?

Fanculo lo Stato, canto per protesta!
Fratelli bucati rinchiusi in festa, almeno non penso, almeno non cado.
Ognuno ha il suo ruolo, ed io non sarò mai palo.

Voglio una figlia che abbia suo padre, che viva bene e non di speranze riposte male in risposte vaghe.
Se sbagli paghi, se combatti vivi!
Se resti mi ami, se vai non ti importa!

Sai che cerco? cerco una risposta ma forse è meglio non sentire.
Sono incazzato e lo spacco sto beat (realizzo questo ritmo),
sconto la pena poi droppo una hit (lancio un nuovo album).

Mi preparo al peggio, infami e pentiti che parlano dietro, poi vorranno il feat (una collaborazione).
Sputo ste barre lo faccio nel chill (in tranquillità) ma in testa ho la guerra, colleziono kill (omicidi).
Non vince il più forte ma quello più duro, chi usa la testa e migliora il futuro.

Ho la capa tosta e tu vienila a rompere, step by step, non potrò più scendere.
Vendevo pezzi e sfamavo cracker (tossici di crack),
contro me stesso ma sono Mayweather (pugile statunitense).

Nel mio futuro non voglio catene.
Ho la testa leggera, non posso cadere,
e le palle pesanti tu vienile a reggere (serve aver coraggio e tu sostienimi).


A conclusione di questo lavoro, non possiamo prevedere la costanza che avrà Cesar nel frequentare il gruppo, ma sono certa che sarebbe per lui una grande occasione di scambio e di crescita. L’eterogeneità dei componenti, la condivisione delle esperienze e delle emozioni consegnate dai detenuti che frequentano il gruppo da più tempo, la sollecitazione a interrogarsi insieme, la realizzazione di prodotti creativi e stimolanti all’interno della “Palestra della creatività” potrebbero giovare all’evoluzione di Cesar, al riconoscimento delle sue azioni e, soprattutto, fungere da positivi conduttori che potranno sostenerlo durante la costruzione del suo futuro.

Katia Mazzotta e Cesar

Reparto La Chiamata   – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

La Chiamata al carcere di San Vittore # week 9

Dáimōn o demone?

L’anima discende in quattro modi: attraverso il corpo, i genitori, il luogo, le condizioni esterne.
Per prima cosa, il corpo: discendere, cioè crescere, significa ubbidire alla legge di gravità, assecondare la curva discendente che accompagna l’invecchiamento.
Secondo, accettare di essere un membro della tua famiglia, di fare parte del tuo albero genealogico, così com’è, con i suoi rami contorti e i suoi rami marci.
Terzo, abitare in un luogo che sia adatto alla tua anima e che ti leghi a sé con doveri e usanze.
Infine, restituire, con gesti che dichiarano il tuo pieno attaccamento a questo mondo, le cose che l’ambiente ti ha dato” (James Hillman, Il codice dell’anima)

Reparto La Chiamata

Il mio progetto

C’è bisogno di pensare
in quale modo star meno male.
Ho la cazzimma, sono potente,
io la controllo la mia mente!
Posso schiacciare questa vita infame,
il mio progetto?
Farmi valere fra la gente che non capisce
quanto è triste chi subisce.
Subisce dal padre o dalla madre
che il mondo e la vita l’hanno subita
e non vissuta.

Penso a me, solo a me stessa,
tutto il resto è acqua fresca.
Forse ho bisogno di sapere
che nel mondo c’è calore.

Un progetto, quello si,
che mi rende grande e potente,
non mi schiaccia, mi sorprende
ma fa di me una delinquente.

Sono pillole, polvere e macerie
sono scarti di potenza,
è una misera esistenza.
Mi sollevo, ricado e piango,
in silenzio, mi vergogno.

Vorrei essere sicura
che l’amore si allontani,
perché altrimenti il mio dolore
fa soccombere l’onore.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Chi gli crederebbe?

Se l’inverno dicesse:

“Ho nel cuore la primavera”,

chi gli crederebbe?

 

(Khalil Gibran, Sand and Foam, p. 16)

Giorgio Michetti, Inverno e Primavera (particolare da Le quattro stagioni, 1988, acrilico)

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

 

Chi voglio essere?

Chi voglio essere? A chi voglio somigliare?
Amo la libertà e la libertà voglio evitare

Pidocchio irrilevante o pilota d’aeroplano?
Non penso, non ascolto e dal mio cuore mi allontano

Oscillo avanti e indietro, come fanno le altalene
La rabbia e il pentimento mi attraversano le vene

Delinquo e quindi sono, non mi servono catene
Ho ammesso i miei reati e il carcere non mi appartiene

Ho capito l’errore, sono il responsabile
Ho capito che delinquere è una strada impraticabile

Mi sono chiuso in trappola e ad altri ho fatto male
Oggi sto dietro le sbarre, dentro la mia gabbia personale

Ho perso l’esistenza, dalle mani mi è scappata
Ti ho chiesto scusa, o mà, mentre ti lasciavo
Ma ero solo, diffidente, e da solo dove andavo?

Beatrice Ajani

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Andavo a scuola per bellezza

Per bellezza andavo a scuola,
non facevo una parola.
Molto meglio una rapina
ch’era pura adrenalina.

Non riesco a fidarmi,
piuttosto allontanarmi
e magari, poi trovarmi,
prima ubriacarmi
poi riprendere a curarmi.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa