La Chiamata al carcere di San Vittore # week 8

Il talento di pensare (penso dunque sono)

“In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. – Vedo, rispose”. (Platone, Repubblica, 514 a-b)

Reparto LA CHIAMATA

Gli occhi parlano

È tra gli occhi dei giovani detenuti che oggi mi ritrovo; quegli occhi così tanto acerbi che rendono difficile pensare che possano essere di già testimoni di orrori vissuti e sbagli commessi.

Attraverso quegli sguardi ho scorto fragilità, paure, limiti, dolore, caratteristiche che accomunano tutti gli esseri umani, eppure, se contestualizzati nella stanza a sinistra, in fondo ad un corridoio lungo e scarno, acquisiscono una intensità più consistente.

Penso, sono solo dei ragazzi.. ragazzi che hanno commesso reati per i quali le loro esistenze saranno segnate per sempre, ma sono comunque ragazzi i quali, una volta riconosciuta la responsabilità relativa agli errori compiuti, potranno permettersi di guardare al futuro con occhi diversi, arrivando a concepire la pena inflitta come possibilità di redenzione. Perché se è vero che questi giovani oggi smarriti vivono in preda alla fragilità esistenziale che avvolge totalmente le loro menti, è altrettanto vero che possono imparare a riconoscere dove hanno peccato.

D’altronde, entrano in carcere nel periodo in cui ci si accinge ad erigere quella che successivamente diventerà l’identità adulta. Non sarà evidentemente possibile ripartire dal punto zero, ma è ancora possibile una loro evoluzione attraverso il riconoscimento e l’accettazione di ciò che ha portato all’errore, arrivando anche a fare proprio il naturale timore che il rischio dell’ignoto comporta e scegliendo di ricominciare da se stessi.

Affinché questo processo possa attuarsi penso sia necessario guarire emotivamente, provando e acconsentendo a sapersi perdonare.

Lo smarrimento trapelato dal loro modo di comunicare è stato forte tanto quanto il timore e la voglia di volersi imporre, di voler esistere. La mancanza di ossigeno era viva quanto la ricerca stessa di aria pulita, della quale probabilmente da tempo avvertono l’assenza.

Forse in questo modo, quei sentimenti imprigionati possono finalmente essere liberi di germogliare; il delirio e l’onnipotenza ricercati e poi saggiati con feroce voracità potranno lasciare il posto al perdono ed alla richiesta di aiuto.

Gli intenti di questi giovani detenuti sono privi di dietrologie; quello che prevale è piuttosto l’esplosione dell’impulso che porta alla devianza.

Personalmente, posso dire di aver percepito una differenza sostanziale con i detenuti adulti: per questi ultimi ciò che predomina e risalta è la consapevolezza e l’accettazione della condizione che si sta vivendo; mentre per i giovani, pur pervasi dalla paura di quello che prima o poi per forza di cose sarà, prevale l’intenso desiderio di riprendere tra le mani quello che in questo momento manca loro più di ogni altra cosa, la vita.

Giorgia Olivadese

Reparto LA CHIAMATA

Saldare la terra con il cielo

Una toccante intervista nella quale Luigi Ciotti fa un cenno alla sua Chiamata e ci esorta – come è solito fare, con una espressione che trovo sempre di straordinaria efficacia- a “saldare la terra con il cielo“.

Verso il 21 marzo….

Un’altalena in cerca di albero

Questo “assegno” nasce da un debito nei confronti del gruppo. Sento di aver ricevuto tanto e di aver dato poco. Sicuramente non basterà ad andare in pari ma ho deciso di raccontare una breve storia, che poi è la mia storia. Sono contento di constatare che, attraverso vie per me non sempre chiare e comprensibili, si stia formando un gruppo di pari, uno spazio dov’è possibile parlare, confrontarsi, condividere pezzi di interiorità attraverso l’incontro/scontro di idee, visioni del mondo, esperienze di vita diverse. È molto arricchente e vi ringrazio. Ecco il mio piccolo racconto dal titolo:

Un’altalena in cerca di albero”

Non si capisce bene dove si svolga la vicenda né chi siano i personaggi. La notte è appena giunta al termine e già si intravede il crepuscolo mattutino. Un’ombra spunta dall’orizzonte. Sembra un’automobile. Ma no, è troppo squadrata e piccola. Un mini-frigo forse? No, è una semplice asse di legno. No, no a guardarla bene è qualcosa di più, un’altalena forse? Sì, direi proprio che è un’altalena quella.

Dopo aver dondolato per un po’, l’altalena si ferma davanti a delle alte mura. Ecco che intravede un massiccio portone di bronzo semi aperto. Entra. Improvvisamente le mura scompaiono come per magia e si trova immersa in un grande campo. Pensa: “che bel campo, mi stabilirò qui”. Con il passare degli anni l’altalena si accorge che in realtà il suo campo non è poi così accogliente: è pieno di pietre, erbacce e rovi; le raffiche di vento sono continue e rovinose. Ha bisogno di un luogo sicuro dove legare le sue funi.

Un giorno finalmente intravede una possente quercia con una chioma molto rigogliosa, è proprio lì in un angolo. Era sempre stata lì ma lei non era mai riuscita a vederla, per quanto si sforzasse di guardare. Quella quercia diventa per l’altalena rifugio, luogo sicuro dove aggrapparsi e dove poter riposare dalle fatiche del campo. Questo è l’albero sul quale aveva sempre desiderato attaccarsi.

Un giorno quell’albero fu colpito da un fulmine e si incendiò velocemente. L’altalena uscì viva dalle fiamme ma era di nuovo in cerca di un albero. Vagava dondolandosi su e giù senza una meta in balìa dei venti e incontrava spesso sul suo cammino degli avventurieri che, passando, la spingevano forte, non curanti che in fin dei conti era solo un’altalena. Ogni tanto qualche bimbo decideva di salirci sopra e giocare. Lei era contenta perché si sentiva utile e donava loro un sorriso. Quei sorrisi le davano forza. Sì, la forza di darsi la spinta e tendere di nuovo verso un nuovo albero. Sapete però come sono fatte le altalene: più spinta dai in avanti e più ricevi una spinta uguale ma contraria verso l’indietro. Per l’altalena era molto frustante vedere come, appena tentasse di toccare con la punta della sue assi i rami più esterni di un albero, subito si attivasse il moto che la spingeva indietro, non al punto di partenza ma ancora più indietro!

Passarono gli anni e i tentativi dell’altalena proseguirono con gli stessi scarsi risultati. Un bel giorno, stanca di tutto questo dondolare e con un forte capogiro decide di fermarsi e di riflettere. Che cosa stava facendo? Aveva davvero bisogno di un nuovo ramo? Per la sua natura era in grado di darsi una spinta che non la facesse ritornare indietro? Aveva passato così tanto tempo a cercare un nuovo albero da non sapere più se fosse davvero necessario trovarne uno.

Si rese conto che il suo animo aveva ricevuto tutto il nutrimento necessario per affrontare il campo, che ora poteva proseguire da sola. Non restava che accettare la sua condizione di perenne dondolio: le altalene non sono fatte per stare ferme una volta per tutte, neppure sulla quercia più bella del campo. Nei momenti difficili, sapeva che poteva sempre pensare a quella vecchia quercia che l’aveva salvata ma che non aveva più bisogno di averla come sostegno. In fin dei conti, era già stata un’altalena tanto fortunata ad incontrarla.

Pensò: “Forse la vera condizione delle altalene è quella di dondolare infinitamente ma tutte le altalene dovrebbero poter trovare nella propria strada un albero come il mio a cui tendere, un albero da cui tornare, dove ricevere il nutrimento dell’anima, nutrimento che dà forma a quell’insieme di valori, affetti, pulsioni del cuore e tensioni della mente che chiamiamo interiorità. L’interiorità che ci rende altalene”.

Gabriele Ambrosio

Reparto La Chiamata

 

La Chiamata al carcere di San Vittore # week 7

Pausa.

A volte non sono i tre minuti di musica e parole a contare. A volte sono le pause, i silenzi. Quell’istante prima, quell’istante dopo che ci rapisce, che ci riconduce per mano al senso di tutto” (Massimo Bisotti, Foto/grammi dell’anima)

Reparto La Chiamata

Un carcere utile per cosa?

Al Gruppo della Trasgressione si crede nel reinserimento in società di persone che nella vita hanno commesso dei reati, gravi e no. Il detenuto non viene pensato come un criminale per il quale non è possibile alcuna salvezza, ma piuttosto come una persona con esperienze diverse dalle nostre, per la quale esiste una via d’uscita, che necessita e merita aiuto.

Parliamo soprattutto di ragazzi cresciuti troppo velocemente, ai quali è mancata una figura credibile, rispettabile, capace di offrire loro gli strumenti per affrontare la vita nel modo corretto: ragazzi arrabbiati, fragili, insicuri, privi di obiettivi, e che, al contempo, chiedono aiuto.

Il reparto  “La Chiamata” prevede un ambiente dove si respiri crescita, motivazione, trasformazione, creatività e autenticità: un contesto nel quale i ragazzi, mediante il confronto continuo con figure di influenza positiva e lo svolgimento quotidiano di diverse attività, abbiano la possibilità di sperimentare ed esprimere se stessi attraverso la meraviglia dell’arte e della parola: dalla musica alla poesia, dal dipinto alla recitazione. I giovani detenuti potranno qui occupare le loro giornate in modo costruttivo, così da imparare e interiorizzare obiettivi e metodi del progetto.

Penso al reparto come ad un “luogo sicuro in mezzo al caos”, a un contesto al quale detenuti e operatori sentiranno di appartenere e il cui fine sarà quello di far sentire il soggetto in questione ben voluto, coccolato e amato. È fondamentale per i giovani detenuti avere un fine da raggiungere, un ruolo che faccia sentire loro di esistere, di essere utili e di valere qualcosa.

Durante un incontro con giovani detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni, è stata posta una domanda, ossia: “Se il carcere potesse essere utile, quale utilità dovrebbe avere per te?”.

Le risposte sono state: un clima costruttivo, un accompagnamento e un aiuto quotidiano;  essere visti per ciò che sono realmente e non solo per ciò che hanno commesso; riduzione della dose di psicofarmaci;  essere aiutati a interpretare il ruolo di genitori (essendo divenuti tali troppo precocemente); essere aiutati a diventare più responsabili, a trovare le cause delle loro azioni devianti, così da poter cambiare la loro visione della realtà in positivo.

Molte figure istituzionali sostengono che ciò che manca ai giovani detenuti è una reale motivazione a migliorarsi. Io credo che la volontà non sia qualcosa che c’è o non c’è. Penso che se è presente in modo evidente, occorre semplicemente nutrirla, ma se è presente in porzione minima o quasi nulla, andranno create le condizioni che la stimolino e che rendano le persone consapevoli della sua esistenza.

Ilaria Pinto

Reparto LA CHIAMATA

Due fratelli

Penso alla domanda posta da Aparo giovedì scorso al reparto La Chiamata: Quando qualcuno si interessa del detenuto, sta tradendo i famigliari della vittima? La cura nei confronti di chi ha abusato sminuisce o tradisce la cura verso vittima o i suoi famigliari?

Personalmente, ad oggi rispondo: assolutamente NO!

Mi rendo conto che è frutto di un cammino di conoscenza di me e di vita giocata grazie alle provocazioni, sfide, contrasti, reazioni -espresse bene o male, non importa- di tanti ragazzi che mi hanno indotto (e mi inducono tutt’ora) a scavare dentro me stessa per trovare risposte che non siano ‘frasi fatte’, frasi scontate, ma la verità di me.

Mi fa riflettere sulla mia vita: Non ho passato una bella infanzia e adolescenza tranne che a scuola o con gli amici fuori casa. Sono nata rifiutata e non potevo capire -come tutti i bambini- i problemi degli adulti (i miei genitori). Incassavo e cercavo di proteggere la mia sorella gemella e un’altra sorella, ero molto molto timida e certamente insicura. Nella pre-adolescenza e adolescenza mi sentivo e credevo ‘un nulla’. Ci facevamo forza -come non so- io e la mia sorella gemella.

A 21 anni ho iniziato il cammino per diventare suora, Qualcuno inaspettatamente mi ha scelta: un nulla graziato.

A 34 (2001) anni ho perso mia sorella gemella, sposata da 5 anni, con tre figli piccolissimi (un mese e mezzo; due anni e mezzo e tre anni e mezzo) per un Tir pirata che le ha stretto la strada a senso unico e l’ha trascinata.

Ha salvato i tre figlioletti che erano in macchina e ha lottato tra la morte e la vita senza farcela. I becchini quando sono venuti ad aprire la camera mortuaria, trovandomi dentro da sola con lei, mi hanno detto: ma quell’autista del Tir riuscirà a dormire sapendo della morte prematura di una mamma che ha lasciato tre figli e il marito?

E io risposi loro spontaneamente: quell’uomo chissà quali problemi aveva per non essere lucido nella guida, avrà la sua responsabilità ma ne rimarrà segnato per tutta la vita, purtroppo. Invece il questore che, oltre ai 17 giorni di indagini, ha voluto attendere troppi giorni dopo la morte con la scusa di cercare ‘il colpevole’ che non ha mai cercato… lo sarà forse meno (la corruzione, abbiamo saputo poi, aveva avuto il sopravvento).

Ne ho viste e sentite tante sulla mia pelle e ho imparato tanto a forza di sbattere ‘la testa contro il muro’ e -come già accennavo- ho imparato a farmi domande e a cercare il confronto anche attraverso un percorso di conoscenza intrapreso a 24 anni. Questo mi ha aiutato a mettere in campo risorse che non sapevo di avere e ad acquisire qualche strumento per rileggermi … un percorso bellissimo! Mi ha dato le basi per la scelta di vita sempre in movimento e per continuare a camminare dentro gli eventi e le situazioni in divenire e non prive di tempeste.

Dal 2010 frequento il carcere e da suora sono stata a tempo pieno in periferie di Pavia, Roma e Milano, e questa palestra di umanità ha trasformato il mio sguardo, che ha iniziato a vedere prima di tutto e sopra tutto la persona, l’uomo che mi sta davanti sia nell’autore del reato, sia in chi lo subisce; anche perché queste due dimensioni sono presenti anche dentro di me: grano e zizzania.

Ho imparato a ri-conoscere i mostri e le miserie che sono in me assieme ai doni e a ri-conoscere quanto sia difficile metterli in dialogo perché dentro di me non facciano a pugni, ma possa prevalere la risorsa sul danno.

Per me è importante chiedermi quanto e come io sono capace -per es.- di riparare e ricucire una relazione fallita o rifiutata da me, come posso tenere ‘in equilibrio’ dei macigni ereditati o causati dalla mia storia personale assieme alle risorse e ai cambiamenti maturati in bene? Rimangono la lotta e l’impegno per farli interagire perché diventino ‘amici’. Impossibile? NO, frutto di un cammino che non finisce mai!

Se ogni persona è prima di tutto persona, conta la cura della vittima o dei familiari della vittima di reato tanto quanto la cura di chi lo ha commesso perché solo così si toglie potere al male che in ciascuno di noi abita assieme al bene.

Se non sono nessuno per ‘togliere’ la vita o anche solo la dignità ad una persona, sono forse qualcuno per toglierla a me stesso?

Più rivedo e riconosco le tempeste passate e presenti dentro di me assieme alla cura immeritata, gratuita, ricevuta e più credo che sia possibile, anzi necessaria, una cura per ogni persona sempre e comunque!

Inoltre penso ai due fratelli della parabola del Padre Misericordioso e proprio lì trovo la bellezza della giustizia riparativa che i due fratelli dovrebbero mettere in atto tra loro, uno apparentemente bravo e l’altro dissoluto, ma entrambi persi.

È il Padre che mette in atto e inizia la riparazione, aspettando a braccia aperte il figlio scappato di casa e facendo festa con lui, ma anche uscendo a supplicare l’altro che, sentendosi a posto, non vuole partecipare alla festa del fratello che non considera più tale e che definisce ‘tuo figlio’ rivolgendosi al Padre.

Questo mi dice che le nostre forze umane, se isolate, faticano tanto, ma Qualcuno non si stanca mai di raggiungerci perché guarda al cuore di ciascuno di noi -persi e ritrovati anche quando non lo riconosciamo- e non vuole che nessuno si perda. Da Padre, ci vuole figli e fratelli sempre!

Suor Anna Donelli

Reparto LA CHIAMATA – Incontri con i familiari delle vittime

L’inverno dentro

Un uomo che partecipa alla storia dei suoi figli con una passione che è tanto rispettosa, quanto autentica e profonda, è un Padre che rende liberi e vuole far partecipare tutti della festa” [Carlo Maria Martini, Ritorno al Padre di tutti – lettera pastorale 1998/99]

L’esercizio di lettura di uno tra i più noti quadri di Rembrandt è stata una delle mie prime affascinanti esperienze  durante la ventennale frequentazione del Gruppo della Trasgressione.

Ma, ai tempi, avevo di esso una sola visione “bidimensionale”: in quel dipinto mi ci vedevo dentro solo come figlio, non essendo ancora nato come padre.

Questa mattina invece – mentre ero seduto accanto a mio figlio – ho ascoltato una straordinaria rilettura domenicale della parabola del figliol prodigo, tale da motivarmi a uno sguardo “tridimensionale” sulle dinamiche tra i diversi interpreti della relazione. Complice di tale rilettura quanto avvenuto giovedì scorso a San Vittore quando il dott. Angelo Aparo ha iniziato i lavori al Reparto La Chiamata rendendo pubblici i miei commenti a caldo via WhatsApp relativamente ad una sua  “relazione” su un componente del Gruppo:

Una “relazione scritta”, in qualità di psicoterapeuta e coordinatore del Gruppo della Trasgressione, sicuramente importante (in una prima prospettiva soggettiva che però qui non è interesse né intenzione mia approfondire, essendoci peraltro un processo per omicidio in corso) non fosse altro perché diretta – nelle intenzioni di chi gliela aveva richiesta – ad un Giudice della Repubblica italiana.

Una relazione scritta  importante (anche in una prospettiva collettiva, sulla quale vorrei invece ancora soffermarmi) in quanto avente lo guardo diretto ad una persona che ha ucciso un’altra persona. Uno sguardo che io avvertivo essere non tanto quello dello psicoterapeuta quanto quello di un padre innamorato di uno dei (tanti) figli per i quali la vita gli ha richiesto di occuparsi.

E, nonostante tale innamoramento o forse proprio in virtù di tale innamoramento, una relazione scritta piena non solo di affermazioni certe ma anche di domande di senso, ugualmente importanti. Alle quali, dopo averci meditato per una buona ora, mi permettevo di aggiungere anche una mia.

Nel ricordare a tutti i presenti questo nostro scambio – tanto rapido quanto intenso – avvenuto il giorno prima, il nostro coach Juri chiudeva il suo intervento, al solito volutamente graffiante, con parole che più o meno suonavano così: “se io mi dedico a lui, questo equivale a trascurare la vittima?  Se cerco tra le sue dinamiche, le sue pene e i suoi conflitti, questo significa mettere in secondo piano la pena per la vittima? Il dolore, i sentimenti dei familiari della vittima? ”.

Che è poi – a ben vedere – il dilemma esistenziale in relazione al quale la parabola del figliol prodigo ci invita a riflettere come padri, prima che come cristiani. Da una parte il figlio più giovane che ha arrecato il danno e chiede di essere ritenuto nuovamente degno di ritornare a casa. Dall’altra il figlio meno giovane, che ha subito anche lui l’offesa dell’abbandono e che ancora ne risente gli echi lontani, mai del tutto riparati.

Ecco, pensando in Chiesa stamattina per un lunghissimo secondo a tutte queste cose, immaginavo come sarebbe stato bello avere ancora qui a Milano Carlo Maria Martini. Per chiedere, come ultima pecorella del suo gregge, alcuni minuti della sua infinita saggezza nel sottoporgli, in Arcivescovado, un quesito oggi sempre di più stretta attualità: è possibile – come io ritengo – “tenere insieme” il sostegno al carcere duro ex art. 41-bis e contemporaneamente praticare la speranza dei percorsi di giustizia riparativa nell’incontro tra reo-un-tempo-mafioso e vittima? Oppure l’una idea è ontologicamente incompatibile con l’altro agire?

Chissà se, anche semplicemente rileggendo alcune sue parole, ci arriverà mai una risposta sul punto o quantomeno un segno da lui inviato, prima che questa primavera abbia inizio …

Reparto LA CHIAMATA – Incontri con i familiari delle vittime