La trasformazione vale più del perdono

Giustizia riparativa, Paolo Setti Carraro: “La trasformazione vale più del perdono”

Il fratello di Emanuela – uccisa dalla mafia nel 1982 insieme al marito, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa – racconta il viaggio interiore intrapreso dopo la morte della sorella, nella convinzione che un cambiamento, sia nei parenti delle vittime che nei carnefici, è sempre possibile

Incontri con le vittime

Un reparto d’atmosfera

In un reparto che nasce per i giovani carcerati, ritengo siano almeno due gli elementi che non possono mancare per una giusta partenza: un’atmosfera di libertà e di responsabilità, come dovrebbe essere fuori, nella società dei “normali”, se le cose andassero per il verso giusto.

La libertà dev’essere nell’aria, si deve respirare a cominciare dall’inizio: la libertà di aderire all’ingresso nel reparto. Nel reparto ci entra chi vuole e deve sapere che molte saranno le attività proposte e quelle richiedibili ma che tutte dovranno convergere verso un obiettivo imprescindibile: la costruzione della responsabilità.

Dopo la scelta iniziale, la libertà dovrà manifestarsi nella possibilità di interazione con gli interni ma anche con gli esterni. Interazioni con coetanei ed educatori, con esperti e insegnanti, con psicologi e volontari, interazioni che presuppongano ascolto e collaborazione, impegno individuale e coinvolgimento di gruppo, formulazione di obiettivi in cui riconoscersi e per cui lavorare e  valutazioni del percorso condivise.

Un lavoro immane ma anche entusiasmante! Il confronto deve essere continuo e, per essere stimolante, dovrà basarsi su attività varie: letture da comprendere, interpretare e su cui dibattere; composizioni personali spontanee o guidate; visione di filmati e osservazioni di immagini; ascolto di musiche, messa in scena di canovacci proposti o frutto delle varie discussioni o rielaborazione personale….

Chi sarà a fare le scelte e a guidarle? Un educatore? Uno psicologo? Un carcerato? Un triumvirato? Questa domanda e le risposte che le si daranno sono importanti quanto il punto di partenza.

Due, secondo me i pre-requisiti perché il progetto abbia le gambe: il desiderio di partecipare e la capacità di ascoltare sé e gli altri, da parte di tutti i soggetti coinvolti.

Sicuramente ci sarà molto da discutere e da lavorare per individuare obiettivi di breve, medio e lungo termine. Per poterlo fare bisogna sapere quali soggetti esterni e con quali competenze parteciperanno ai lavori, quali i tempi e le disponibilità delle istituzioni, quali le aspettative.

Un punto di partenza ma anche una stella polare per orientarsi nel percorso potrebbe essere l’affermazione del dottor Aparo che “si suicida chi non ha obiettivi credibili e porta dentro un rancore profondo”, giusto per non dimenticare che il percorso non potrà essere solo culturale ma anche psico-pedagogico.

Reparto LA CHIAMATA

Protagonisti del proprio destino

REPARTO LA CHIAMATA

“Investire su un sistema di negazioni e di divieti non ha senso; lavorare sulla qualità della vita in carcere, sui limiti e i punti di forza della persona, sul recupero di una progettualità per il futuro, ne può avere moltissimo” – Giacinto Siciliano

 Durante questi anni di collaborazione con il Gruppo della Trasgressione ho avuto modo di comprendere l’importanza del dialogo, della comunicazione, del confronto tra persona detenuta e società esterna e della creazione di progetti di vita per contrastare il rischio di recidiva.

Il confronto attivo e la riflessione sul proprio vissuto, con la presa di consapevolezza dei propri agiti e una conseguente assunzione di responsabilità, permettono di giungere al Cittadino che, una volta uscito dal carcere, potrà effettivamente contribuire al benessere della società. Per contro, la detenzione, priva di stimoli e di opportunità di confronto e contatto con la società, è fine a sé stessa e non assolve alla funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione Italiana.

Il cambiamento nelle persone è possibile, se vengono loro offerti gli strumenti adatti per una presa di consapevolezza e una attiva responsabilizzazione: “La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” – Giorgio Gaber

La libertà di mente, come la chiamiamo al Gruppo, il vero indice di cambiamento, viene raggiunta solo attraverso un lungo percorso che inizia all’interno del carcere per poi continuare all’esterno, un confronto attivo tra detenuti e società, fatto di comunicazione, scambio di riflessioni, introspezione, riconoscimento delle proprie azioni devianti e delle proprie e altrui fragilità.

“L’uomo è una meraviglia che ha bisogno di fiducia, di sentirla, di meritarla, magari anche di perderla, sapendo che in quella scommessa diventa protagonista del proprio destino” – Giacinto Siciliano 

 Il Gruppo, come sua prassi quotidiana, fa in modo che il detenuto si interroghi su sé stesso, aiuta studenti e detenuti a comprendere che esiste qualcosa in comune in tutte le esperienze, che sia la devianza o anche le difficoltà, le conflittualità ed i sintomi che si sviluppano in risposta al disagio, poiché questi non sono esclusivi dell’esperienza di chi delinque ma anche di quella degli studenti. Il confronto costante tra studenti e detenuti porta a un arricchimento reciproco, alla riscoperta di una vicinanza di vissuti ed emozioni che difficilmente si sarebbe potuta immaginare prima.

Il lavoro del Gruppo consiste nell’andare in cerca della coscienza che era stata messa da parte durante i primi anni di vita e con l’adolescenza, quando i conflitti e le sofferenze portavano spesso la persona a sviluppare un’immagine di sé compatibile con il reato.

Il carcere, purtroppo, per come è strutturato, è un ostacolo alla comunicazione. La persona detenuta non deve perdere invece il contatto con la società esterna, di cui fa parte e dove tornerà a essere cittadino una volta uscito. Come scriveva Beccaria, “Non c’è libertà finché le leggi permettono che, in certe condizioni, una persona cessi di essere persona e diventi un oggetto”.  L’esperienza detentiva, infatti, molto spesso porta all’alienazione e all’incapacità di riadattarsi al mondo esterno dopo il rilascio.

Occorre abbandonare l’ipotesi che condizioni estreme di disagio dei detenuti possano fare da deterrente a futuri comportamenti antisociali, perché la violenza genera violenza, e il degrado fisico e ambientale contribuiscono ad aumentare o creare il degrado morale. La pena scontata interamente in carcere, senza stimoli né contatti con il mondo esterno, è disfunzionale: rinchiudere una persona, già in partenza portatrice di rabbia e rancori, in una cella senza alcuno stimolo e senza la possibilità di confrontarsi con la società, non la potrà portare a riflettere e prendere coscienza del proprio percorso. Anzi, vivrà come ingiusta l’istituzione, maturando ancora più rabbia nei confronti dell’Autorità.

“La pena è utile quando il tempo in carcere viene impiegato in modo proficuo partecipando attivamente alle attività e agli incontri proposti, sfruttando le offerte formative e scolastiche e imparando un lavoro. Così i detenuti possono ricevere mille stimoli e scoprire di possedere abilità diverse da quelle che li hanno portati dove si trovano. Una pena utile non si può scontare in un carcere che non sia adeguato. […] sovraffollati, vecchi, fatiscenti, hanno troppe mura, troppe sbarre, pochi spazi per le attività responsabili. È compatibile tutto ciò con l’irrogazione di una pena utile e dignitosa? […] la dignità di un uomo rimane un valore intoccabile anche in cella” – Giacinto Siciliano

 Il confronto con la collettività porta ad arricchimento e crescita personale, in quanto stimola la riflessione sul proprio vissuto, sulle proprie fragilità e permette, attraverso l’ascolto, il riconoscimento dell’altro in quanto essere umano da rispettare. In questo modo viene riconosciuta l’identità della persona, il suo pensiero, la sua scrittura, la sua creatività, ma soprattutto il suo valore, tutti aspetti che il detenuto nel corso della sua carriera criminale ha spesso sotterrato, dimenticato e nascosto perfino a sé stesso.

Il contatto con il mondo esterno al carcere permette a detenuti e membri della società esterna di interagire e collaborare per obiettivi comuni e favorisce nel detenuto (e non solo) il senso di autoefficacia e di autostima personale attraverso il riconoscimento da parte della collettività della propria funzione all’interno della società.

“Lo Stato forte è quello che dà fiducia e ha il coraggio di investire nelle persone, lo Stato forte non è quello che dice sempre no, perché essere chiusi non stimola il cambiamento. Se non c’è cambiamento, non ci sarà neppure testimonianza del cambiamento e la gente fuori avrà sempre paura e non avrà motivi per investire, per accogliere, per aiutare a sua volta a completare un percorso” – Giacinto Siciliano

È estremamente importante che l’Istituzione promuova uno scambio tra società e detenuti e vigili su di esso, così come risulta necessario un dialogo tra detenuto ed Istituzione. In questo senso, “promuovere” significa favorire la produzione di materiale che fa crescere la coscienza nel detenuto e ne previene la recidiva. Per evitare che un soggetto, una volta uscito, torni a delinquere, occorre responsabilizzarlo e dargli una funzione attiva.

Non tutte le persone “stanno in piedi” con la stessa facilità e l’investimento per mantenere le persone più in difficoltà con una funzione produttiva, sulla distanza, restituisce alla società maggior benessere rispetto al fatto che quella persona venga lasciata a se stessa. Le iniziative che possono contribuire all’evoluzione e al consolidamento della coscienza del detenuto non dovrebbero essere un epifenomeno del carcere ma parte integrante dello stesso, in nome della funzione rieducativa della pena. Infatti, il carcere è parte della società e nei confronti di questa non può non avere una responsabilità.

Il momento dell’ingresso in carcere è un evento traumatico per tutto ciò che ne consegue: la rottura dei rapporti con il mondo esterno, le fragilità e le problematiche individuali, la precarietà dei rapporti affettivi.

Il carcere è anche terreno fertile per l’insorgere di patologie psichiatriche durante tutto il periodo detentivo e nella fase prossima alla scarcerazione, legate all’ansia del reinserimento sociale.

Il Reparto La Chiamata ha come obiettivo centrale che la persona venga accompagnata durante la sua detenzione in un percorso di recupero della coscienza, che può solo avvenire attraverso un costante confronto con la società esterna, con gli studenti, i volontari, gli psicologi, l’Istituzione.

Nel reparto è necessario che la persona detenuta ricostruisca la fiducia nell’Istituzione e nella società di cui fa parte, ricucia lo strappo che si è creato tra lui e la collettività, sentendo di ricoprire una funzione valida e riconosciuta da quest’ultima. È fondamentale che chi si trova in carcere riacquisti fiducia e stima in sé stesso e nelle proprie potenzialità, svolgendo attività (formative, lavorative, gruppi di riflessione) volte alla costruzione di progetti futuri e non più compatibili con il reato.

Risulta inoltre centrale che il detenuto possa coltivare il rapporto con la sua famiglia e con i suoi figli, riacquistando autorevolezza e credibilità agli occhi di questi ultimi e prevenendo quindi la possibile devianza di seconda generazione.

Da tutti questi interventi trarrebbero giovamento sicuramente le persone detenute, ma anche le loro famiglie, i loro figli e, non ultimo, la società intera, perché una carcerazione che non contempla adeguati percorsi di reinserimento sociale e di responsabilizzazione è in netta contrapposizione alla sicurezza sociale e alla funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione italiana.

Nota: Tutte le citazioni del dott. Giacinto Siciliano provengono da “Di cuore e di coraggio”, edito da Rizzoli, 2020.

Arianna Picco

Reparto LA CHIAMATA

Marisa e Paolo in aula Dostoevskij

“In carcere?!”

E’ questa la reazione media delle persone alle quali racconto dell’esperienza alla quale ho avuto la fortuna di partecipare, tutte tra lo stranito e il preoccupato per il mio entusiasmo all’idea di mettere piede (e testa) in un luogo del genere.

Mi sono resa conto sempre di più che il carcere è un mondo a porte chiuse, dall’esterno è pressoché impossibile comprendere lo slancio e la voglia, quasi l’urgente bisogno di chi cerca di rendersi utile in tale ambiente. Di chi cerca, in sostanza, di fare il proprio dovere di cittadino.

Tanto le persone non cambiano, non ne vale la pena.”
“Ma non hai paura a stare o a parlare con loro?”
“E’ un mondo così pesante, ma chi te lo fa fare?”

Penso che ciascuno di noi potrebbe molto contribuire all’elenco di luoghi comuni e pregiudizi che sente ogni giorno appena pronuncia la fatidica parola “carcere”. Tuttavia, proprio per questo motivo è importante parlarne. Ammetto di avere provato anche un po’ di soddisfazione nel vedere nelle facce di amici, parenti e addirittura un taxista tanti bei preconcetti un po’ messi in discussione al sentire cosa stavamo portando avanti a Opera.

Ci sono esperienze che segnano un prima e un dopo e, senza dubbio, “Delitto e castigo” è tra queste. L’impatto umano di questi incontri mi ha segnato profondamente.

Innanzitutto, sento di dover ringraziare gli ideatori di questo progetto, Cajani e Juri, perché ci hanno insegnato a crederci. E’ difficile pensare di poter cambiare il mondo, però si può certamente cambiare il pezzetto di terra che ci circonda. Basta “semplicemente” volerlo e attivarsi in tal senso, con onestà e dedizione, come ci è stato mostrato.

Il dott. Nobili è stata una presenza rassicurante, non solo per l’enorme esperienza da elargire, ma anche perché ha reso tangibile il fatto che sia possibile fidarsi delle istituzioni, anche se non di tutte. Sono “credibili, serie, rispettose e rispettabili” solo le istituzioni costituite da uomini e non da funzionari. Credo che per avere anche solo una vaga idea di chi sia il dott. Nobili bastino le parole di Emanuele, uno dei detenuti, che durante uno degli incontri ha reso noto allo stesso magistrato che all’interno del carcere egli viene definito “severo, serio e umano” dagli stessi detenuti.

Banalizzando e pensando allo schema di un gioco come ‘guardie e ladri’, credo non sia affatto scontato il riconoscere l’uomo dentro a chi, dal tuo punto punto di vista, ti dà la caccia: chi nella tua storia ha il ruolo del cattivo.

Sorge spontanea una domanda: cosa ho imparato?

Innanzitutto, ho imparato fin dove si può arrivare. L’ultimo incontro è stato scandito dalle parole di Juri che cercava in ogni modo di farci riflettere su quale fosse il bagaglio culturale e di esperienza che avremmo portato a casa a fine ciclo di incontri. A parer mio, il fulcro è che tutti possono cambiare, ma non tutti vogliono. Di conseguenza, il nostro compito è quello di far vedere ai detenuti che ci sono alternative, che c’è una seconda possibilità anche per loro, ma che dipenderà proprio da loro il coglierla o il continuare a vivere nell’irrimediabile antitesi tra la “società degli esclusi” e la “società di quelli che escludono”, cioè, a parer loro, noi.

Un carcere che funziona punisce perché deve, ma responsabilizza perché vuole. I detenuti, nella maggior parte dei casi, poi rientreranno in società, quindi è assolutamente necessario far capire loro che diritti e doveri vanno di pari passo e che, per partecipare a pieno titolo ad un determinato “gioco”, è fondamentale rispettarne le regole. Allo stesso modo, è necessario trovare chi queste regole sia disposto a insegnargliele, con pazienza e cercando di parlare “la loro lingua”, e poi trovare chi sia disposto a “giocare” con loro.

Fuor di metafora, è nostro compito tendere loro una mano, convincerci e far comprendere alla società civile che il carcere non è un posto dove parcheggiare gente scomoda, in attesa che ci si scordi di loro, perché tanto loro non saranno mai come noi. Il carcere è un male necessario, ma non sufficiente affinché i detenuti si ricordino di essere e si riconoscano uomini, con tutto ciò che questo comporta nei confronti di se stessi e degli altri.

Credo che la vera sfida arriverà quando dovremo essere noi a condurre i detenuti, sin dall’inizio, lungo questo tortuoso percorso, perché finora noi abbiamo visto se non percorsi conclusi, per lo meno percorsi iniziati.

Ho anche imparato che ho ancora tanto da imparare. Indipendentemente da quale sarà il mio specifico ruolo nel mondo del Diritto, per essere credibile, seria, rispettosa e rispettabile come persona credo di aver bisogno di confrontarmi ancora con chi ci è riuscito, che si tratti di magistrati che vivono il proprio ruolo e le proprie responsabilità in un certo modo o di familiari di vittime che non hanno demonizzato e anzi hanno teso una mano. Ci sono poi i detenuti, che stanno con fatica imparando a mettersi in discussione e a “osservarsi dall’esterno”, ora con gli occhi dei familiari delle vittime, ora con quelli dei magistrati, ora con quelli degli studenti, ora con quelli dei loro stessi familiari.

Questa molteplicità di punti di vista, che io ho avuto la fortuna (e in alcuni casi l’onore) di vivere in prima persona, dovrebbe essere la prassi e non l’iniziativa che fa scalpore a livello nazionale. E’ necessario che la società entri in carcere e che chi sta dentro al carcere esca fuori. E’ necessario ricordarsi che le mura del carcere hanno delle porte e che queste porte vanno usate.

“Chi sono io? Perché sono così? Che genitori ho avuto? Che incontri ho avuto? Cosa voglio farne di ciò che sono?

Questi interrogativi di Cajani durante uno degli incontri mi colpirono profondamente, facendo anche riaffiorare qualche reminiscenza liceale sul contrasto tra Nomos e Physis.

Un discorso è chiedersi chi sei, altro è chiedersi cosa tu decidi di fare con ciò che sei. Credo non sia affatto indifferente o scontata la presa di responsabilità e consapevolezza che implica e consegue all’accettare che abbiamo non solo la possibilità, ma anche il dovere e la responsabilità di scegliere. Fare i conti con cos’hai fatto e con cos’hai fatto di te stesso ritengo sia il fulcro del percorso rieducativo dei detenuti.

L’ultimo elemento sul quale mi soffermerò è un aspetto sul quale non avevo mai realmente riflettuto prima di questi incontri: il mondo della Giustizia è profondamente, quasi intrinsecamente, permeato di dolore. Dolore di chi subisce. Dolore di chi commette, perché significa che c’è una sottostante situazione di disagio più o meno consapevole. Dolore di chi condanna, perché non si priva qualcuno della libertà a cuor leggero. Dolore di coloro che stanno accanto a tutte queste persone.

Probabilmente anche per questo motivo, maggiore è il livello di consapevolezza che si prende di tali dinamiche ed equilibri (o forse squilibri), più quell’illusione di poter fare del bene diventa un’urgenza, un bisogno quasi spasmodico di toccare personalmente con mano ciò che non funziona e provare ad aggiustarlo.

Tra tutti, sono sicuramente quelli con Marisa e Paolo i due incontri che più mi hanno segnato. A seguito di un reato, mentre il pubblico è concentrato sul reo (rischiando di alimentare le sue manie di protagonismo), la vittima spesso priva di nome passa subito in secondo piano, priva di una qualsiasi caratterizzazione o attenzione. Il reo è una persona, la vittima è un’ombra. Figurarsi i familiari di quest’ultima.

Marisa e Paolo hanno invece dimostrato con il loro vissuto che probabilmente è proprio loro il ruolo principale nel percorso rieducativo dei detenuti. L’impegno profuso in iniziative come questa, il coraggio di ascoltare e instaurare una reale comunicazione con chi alle parole ha sempre preferito altri mezzi, la forza di tendere loro la mano e il profondo e sincero rispetto con cui li ho sempre visti trattare i detenuti sono qualcosa di incredibile.

Vedere Marisa abbracciare i detenuti, vedere questi ultimi provare nei suoi confronti quello che potrei definire sincero affetto e sentire lei stessa interrogarsi su come fosse possibile per lei essere diventata in un certo senso amica di alcuni di loro: serve tempo per metabolizzare a pieno tutto ciò, per comprenderne fino in fondo il peso e il valore.

Quest’esperienza più che risposte, perché infatti me ne ha date ben poche, mi ha piuttosto regalato domande e uno sprone a pormene altre ancora. E’ bene interrogarsi su tutto ciò che ci circonda e, soprattutto, su chi ci circonda. Lo stesso dott. Nobili ha sottolineato quanto sia importante vivere nella cultura del dubbio.

E tra tutti gli interrogativi che dopo quest’esperienza continueranno ad accompagnarmi per un bel po’, ce n’è uno in particolare per il quale, mio malgrado, non riesco a trovare neanche un principio di risposta: dove si trova il coraggio di non lasciarsi incattivire dal dolore?

Elena Tribulato

Delitto e Castigo

 

L’abuso come ascensore di casta

La complessa opera di Delitto e Castigo fornisce molti spunti di riflessione su cui è possibile confrontarsi. Primariamente il protagonista del romanzo, a seguito di un conflitto interiore, decide di uccidere una vecchia usuraia.

Questo fatto centrale, già di per sé, avvicina i detenuti all’opera, in quanto alcuni di essi hanno commesso la stessa azione e, in generale, il protagonista si discosta dalla via del lecito compiendo un atto di trasgressione in cui i carcerati si possono riconoscere.

Nel corso degli incontri ci si è chiesti se potesse essere utile per i detenuti affrontare un’iniziativa su quest’opera. Il protagonista del romanzo, infatti, vive la decisione dell’omicidio in modo diverso rispetto a quanto accaduto per molti di loro.

Nonostante ciò, i detenuti che frequentano il Gruppo della Trasgressione, hanno imparato ad affrontare quello stesso conflitto, soltanto che sono stati in grado di viverlo a seguito dei loro reati.

Inoltre, a mio avviso, l’iniziativa è utile in quanto Dostoevskij è in grado di rivelare la complessità del mondo interiore dei protagonisti e questa caratteristica avvicina e apre la prospettiva di tutti i lettori. Portare questo romanzo in carcere, inoltre, dimostra a tutti noi quanto si possa ricavare dalla lettura: la bellezza di immergersi in un mondo, di ritrovarsi in certe azioni, caratteristiche e stati d’animo.

Personalmente non ho potuto vivere l’esperienza dei cinque incontri all’interno del carcere di Opera, ma ho “soltanto” ascoltato e condiviso le riflessioni che sono state svolte durante gli incontri con gli esterni. Eppure, nonostante questi incontri fissi non fossero obbligatoriamente centrati su Delitto e Castigo, ho notato come diversi detenuti abbiano messo il romanzo al centro delle riflessioni che condividevano, intrecciando le loro impressioni riguardo all’opera con ciò che hanno vissuto durante la loro vita, soprattutto relativamente alle esperienze vissute prima della detenzione.

In tali riflessioni alcuni di essi si ritrovavano nel personaggio di Raskol’nikov, in quanto vedevano loro stessi come dei pidocchi che hanno tentato di entrare  nella categoria degli eletti commettendo degli abusi, proprio come ha fatto il protagonista del romanzo.

Ma la teoria dei pidocchi e degli eletti, in fondo, non è applicabile anche alla quotidianità di tutti noi? Non è frequente ogni tanto sentirsi persone ordinarie, e altre, invece, qualcuno con qualcosa da dare al mondo?

E ancora, a volte non ci impegniamo a fondo nelle cose per dimostrare a noi stessi di valere, proprio come ha fatto Raskol’kov nel suo tentativo di sentirsi un eletto?

Elisa Parravicini

Delitto e Castigo

Lo zombi, l’armatura e la stanza giochi

Come organizzare un reparto per far capire ai giovani che la vita è una sola…e non va sprecata?

Sono Salvatore Luci, faccio parte del Gruppo della Trasgressione, diretto dal dott. Aparo, che ci tiene partecipi al progetto del reparto.

Quello che dovrebbe cambiare per primo è l’impatto che si ha entrando in carcere, dove la dignità, non della persona che ha commesso un reato, ma dell’essere umano, viene calpestata: ti fanno spogliare e rimanere nudo davanti a tutti gli agenti presenti, imponendoti di fare flessioni sulle gambe quando invece potrebbero far fare una visita medica completa dai dirigenti sanitari, facendo passare una perquisizione come una normale visita medica, senza causare stress traumatico ad una persona condotta in carcere per la prima volta.

Entrando poi in reparto, si deve avere l’impressione di un luogo familiare, tranquillo, non di punizione. Scegliendo delle persone che facciano da tutor, spiegando al nuovo arrivato il funzionamento del reparto, indicandogli le opportunità e tutti i corsi che potrà scegliere, dallo sport, al volontariato, allo studio.

Sono corsi ed attività che la direzione dovrebbe imporre, non lasciando i detenuti ad oziare sui piani e, così facendo, si potrà anche entrare in graduatoria per un lavoro, in modo da non gravare sulla famiglia.

A proposito di famiglia: chi gestisce un Istituto deve capire che il Giudice ha tolto solo la libertà, non gli affetti familiari, per cui non deve mancare mai la presenza della famiglia, aumentando i giorni e gli orari dei colloqui e dare la possibilità alla famiglia del detenuto che durante la settimana sia impegnato con il lavoro ad aprire i colloqui di domenica.

Il detenuto, e parlo io stesso da detenuto, più ha contatto con la famiglia e meno gli vengono in mente gesti sbagliati sino alla idea di suicidio, per cui, ripeto, servono più incontri con la famiglia.

Al mio impatto in Istituto, mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, quando non esisteva alcuna tecnologia, tipo gli anni 60-70. A mio parere chi gestisce gli Istituti dovrebbe iniziare a cambiare totalmente, evolversi anche con la  tecnologia: mentre fuori dal carcere si continua a parlare anche di ecologia e rispetto dell’ambiente, qui per ottenere un semplice colloquio con un ispettore di reparto si deve usare il cartaceo, la famosa domandina 393.

Per i detenuti più giovani, ci vorrebbe uno spazio comune dove inserire tramite consenso degli stessi e dei familiari una bacheca dove apporre le foto della propria famiglia, poter portare dentro dei giochi che si usavano da bambini, come macchinine, mattoncini Lego ecc. E questo per far tornare la persona indietro nel tempo in cui era bambino, per fargli ritrovare quella spensieratezza che si aveva a quella età e per iniziare a scalfire l’armatura che ci si è cucita addosso, facendo riapparire il nostro io vero.

I ragazzi con problemi di  tossicodipendenze dovrebbero essere davvero aiutati a disintossicarsi invece che aiutarli a usare droghe sintetiche come antidepressivi e il famigerato metadone, che li fa diventare come zombi tenendoli tranquilli.

In questo progetto ci vorrebbero più psicologi, il detenuto soprattutto il  neo-detenuto ha bisogno di essere ascoltato, di sfogare verbalmente la sua rabbia accumulata nel tempo e chi lo può fare? Solo uno psicologo!

Salvatore Luci

Reparto LA CHIAMATA

Progetto Utopia

Premetto che nella mia esperienza, già prima di mettere piede all’interno del carcere, tutto quello che accade per un giovane che ha commesso un reato è sbagliato: è sbagliato il modo in cui il reo è arrestato; è sbagliato l’interrogatorio, spesso in assenza di supporto psicologico o di un avvocato, è sbagliata la traduzione in carcere, il tutto in mancanza delle vigenti normative ed applicazioni.

L’impatto con il carcere, a partire dall’ingresso e dalla immatricolazione, andrebbe accompagnato spiegando al detenuto l’iter e ciò che sta accedendo: la perquisizione solo alla presenza di agenti educati in ambito psicologico, che non siano bruschi nei modi con il detenuto e che cerchino di metterlo a suo agio, pur ottemperando alle modalità di legge. Occorre anche far capire a cosa servono l’esclusione di prodotti di igiene intima, di orologi, di valori e di quanto altro non consentito dall’istituto penitenziario. Questo primo passaggio è fondamentale per l’impatto con il carcere.

PROGETTO UTOPIA
Non è una grata a darmi responsabilità

REPARTO: tinteggiature con colori adeguati al contesto giovanile, porte e finestre e suppellettili in legno

CAMERE: TV almeno 24 pollici, computer in ogni camera con tutti gli accessori, connessione wi-fi compresa palestra in reparto, aule per la formazione al lavoro: elettrotecnica, idraulica, falegnameria, imbiancatura, etc. Partecipazione a scuole di vari livelli e formazione, compresa l’iscrizione e la frequenza universitaria, anche fuori dell’Istituto penitenziario. Naturalmente le persone devono avere la possibilità di alternare lo studio con il lavoro, anche part-time.

Fondamentale, almeno due volte la settimana, integrare con colloqui con psicologo e con corsi di riflessione (il gruppo della Trasgressione). Presenza quotidiana in reparto dell’educatore. Favorire e incentivare l’incontro dei nuovi giunti con detenuti e/o ex detenuti che nel corso degli anni passati in carcere abbiano acquisito consapevolezza di ciò che è stato il loro vissuto e che sono pertanto pronti ad essere reinseriti nella società civile. Gli incontri fra ex detenuti e nuovi giunti responsabilizzano i primi e permettono ai giovani nuovi giunti di chiedersi con persone ai loro occhi credibili quale potrà essere il loro futuro, se andranno avanti lungo la strada intrapresa. Occorre insomma che i giovani abbiano delle guide, con le quali potersi nutrire e dalle quali imparare il senso di responsabilità.

COLLOQUI:  consentire che le persone detenute possano effettuare due volte la settimana colloqui con i familiari in ambiente idoneo all’incontro (adeguata privacy sia per la famiglia che per la coppia) e, nel caso di minori in famiglia, sarebbe opportuno che il colloquio avvenisse a casa, con l’accompagnamento di un volontario/figura di supporto, per almeno tre ore.

Infine va sottolineato che la gestione del reparto sia affidata a personale di polizia penitenziaria formata ed addestrata con un approccio differente a quello convenzionale di solo controllo.

I modi e le condizioni per recuperare la persona che ha sbagliato sono importanti così come è fondamentale la volontà di chi è ristretto in carcere a farsi rieducare.

Giovan Battista Della Chiave

Reparto LA CHIAMATA

 

Diventare cittadini

Chiara Palma – Relazione finale di Tirocinio
Corso di studio: Scienze e Tecniche Psicologiche
Tipo di attività: Stage esterno

A fine settembre 2022 ho deciso di entrare a far parte del gruppo della trasgressione come tirocinante. Ho conosciuto il gruppo per la prima volta a un evento esterno al parco Ravizza di Milano. Le mie sensazioni sono state fin da subito positive, la lettura di alcune poesie dei detenuti e il modo in cui determinati argomenti sono stati affrontati mi hanno fatto capire che era proprio quello che stavo cercando, un’esperienza da vivere a 360 gradi.

Sono entrata per la prima volta ad Opera il 12 ottobre, giornata in cui è iniziato il progetto su Caravaggio e sul suo famoso dipinto “La vocazione di San Matteo”. Ognuno di noi durante questi incontri si è chiesto chi fosse il protagonista, quale emozione esprimesse il volto di Matteo o in che modo gli abiti indossati fossero rilevanti. Secondo il mio punto di vista il quadro, visto nell’insieme, era diviso in due parti: da un lato colui che è stato chiamato (Matteo) e dall’altro il chiamante (Cristo).

Nel dipinto chi è stato chiamato era circondato da altre figure, che potevano avere influenza o meno sulla sua persona. Nella vita spesso siamo chiamati verso qualcosa, ma siamo noi a scegliere che strada prendere, e queste decisioni in alcuni momenti sono condizionate da altri fattori, che possono essere persone, soldi o altri beni materiali. Delle volte, infatti, come è successo per i detenuti, si accetta quella ‘chiamata’ negativa (come la mafia, le rapine o lo spaccio) dove ci si comporta come se non si avesse una coscienza. Si perde il proprio “ruolo”, non facendo emergere le proprie qualità, ma ognuno deve ricercare il proprio posto nel mondo, imparare a riconoscere i propri talenti e “considerare la propria semenza”.

Tutto questo è stato possibile ed è possibile grazie al gruppo della trasgressione, il quale fa sì che i detenuti riescano a compiere un percorso lungo e critico su sé stessi, su quello che hanno commesso e su ciò che hanno provocato alle vittime, per poi raggiungere l’obiettivo principale di ritrovare la coscienza latente.

Sono stata spesso più osservatrice di quello che mi accadeva intorno, rispetto all’essere partecipante attivo, fino a quando il professore mi ha fatto la domanda “e tu cosa ci fai qui?”. Presa dall’emozione, da ciò che era stato raccontato in precedenza, e presa da quella che è la mia situazione personale, sono finita in una valle di lacrime. Nel momento in cui mi è stata fatta la domanda mi sono tornati in mente tantissimi momenti che io ho passato quando una persona a me cara è stata in carcere. Il momento in cui a 12/13 anni sono entrata nel carcere di Poggioreale e quello in cui finalmente quella persona è uscita di prigione. Un mix di emozioni che mi hanno fatto entrare in empatia con i detenuti e con quella che è tutta la sfera familiare che li circonda.

Ma tutto questo non era nei miei piani, non avrei voluto piangere e non avrei voluto mostrare questa mia fragilità, e mi chiedo perché. Perché ho paura di esprimere i miei sentimenti? Forse per paura di essere giudicata, di dire la cosa sbagliata, di non essere semplicemente all’altezza? Probabilmente mi pongo sempre il limite di osservare le situazioni, non riuscendo a mettere in gioco quelle che sono invece le mie abilità, ma mi rendo conto, incontro dopo incontro, che il gruppo sta smussando questo mio limite. Grazie al gruppo ho capito l’importanza della relazione, del dialogo, dell’ascolto. Il metodo utilizzato dal gruppo fa si che tutti possano scambiarsi idee e opinioni, e vorrei riuscire a partecipare di più, far emergere quella che sono, ma anche questo è un percorso personale e piano piano so che potrò farcela.

Sono stati motivo di riflessione anche gli incontri su “Delitto e Castigo”, in particolare quando ci siamo posti il quesito “Raskolnikov aveva una coscienza, ma i detenuti l’hanno sempre avuta oppure no?”. Le risposte ci hanno fatto constatare che la coscienza c’è sempre stata nella loro vita, ma ad un certo punto era diventata una minaccia, un ostacolo, qualcosa da zittire e annullare per concentrarsi su un altro obiettivo, tant’è che Ignazio ha parlato addirittura di “coscienza bugiarda e vigliacca”.

L’importante è però riuscire a fare riemergere questa coscienza, a modellarla e renderla il proprio “strumento di libertà”. Una frase che mi è rimasta molto impressa da questi incontri è stata quella di Paolo Setti Carraro: “Accettare l’amore degli altri è importante, quando si capisce di essere amati, si inizia ad amare l’altro”. L’amore ha un forte potere anche secondo me, abbiamo bisogno di sentirci compresi, di avere qualcuno su cui poter contare e un luogo di conforto dove potersi riparare, a cui a nostra volta diamo amore.

Nella maggior parte dei casi, i detenuti non hanno questo supporto né l’amore che può dare un gruppo, come quello della trasgressione, e dunque vengono abbandonati a sé stessi. Prima di entrare in carcere come studentessa di psicologia non avevo mai sentito parlare di un gruppo che facesse ricercare l’uomo e la consapevolezza che si era persa. Non avevo mai sentito parlare di professori o psicologi che lavorassero così sulla rieducazione dei detenuti, ma non ne sono rimasta stupita, bensì mi ha fatto pensare “caspita menomale”. Menomale che c’è questo gruppo, che sia un punto di partenza per lo sviluppo di altri gruppi o un’unica organizzazione che si amplierà. Perché ci spero, spero che tutto quello che il gruppo della trasgressione ha fatto, e che fa, venga diffuso e che la società inizi a formulare un pensiero diverso nei confronti di chi è in carcere.

Quando mi capita di parlare con i miei colleghi, amici o conoscenti, della mia esperienza, tutti mi dicono “no, io non ce la farei”, come se stessi entrando in contatto con extraterrestri. Le persone non si rendono conto che anche i detenuti sono uomini, quando spiego cosa si fa al gruppo e tutte le testimonianze sulla presa di coscienza, loro sono sempre scettici, ma forse perché non sono in grado di esprimere a parole quello che questa esperienza riesce a dare?

Come dice il prof Aparo: “Tutti possono potenzialmente diventare cittadini utili, se si lavora per raggiungere il risultato”. Penso che per cambiare le cose e far sviluppare una maggior consapevolezza del percorso che queste persone compiono si debba vivere l’esperienza, cosa che auguro a chiunque, perché a me ha dato tanto, sia professionalmente che personalmente, e non posso fare altro che ringraziare detenuti, ex detenuti, professori, volontari e colleghi, per questa grande opportunità di crescita.

Chiara Palma

Delitto e CastigoCaravaggio in cittàTirocini

Aula Dostoevskij – Pala

Quest’esperienza all’interno del carcere di Opera è stata ricca di momenti carichi delle più svariate emozioni e riflessioni e oggi posso dire che mi porto a casa tantissime cose.

Per primo, un sentimento umanità più ricco rispetto a quello che conoscevo, perché la parola umanità ha un significato decisivo e che dipende sicuramente dal modo in cui concepiamo noi stessi. Ma davanti a questa parola qualsiasi uomo non avrebbe dubbi: l’umanità, intesa come dote, è solidarietà, compassione, comprensione, amore, cura e gentilezza. Durante i nostri incontri non ho potuto fare a meno di pensare che l’umanità sta alla base di qualsiasi sistema educativo e rieducativo.

Ho portato con me poi la consapevolezza della scelta riguardo la mia carriera. Ho sempre sostenuto la necessità di guardare con i propri occhi, sentire senza filtri chi sta dall’altra parte per fare scelte consapevoli, sentite e volute.

Grazie Paolo e Marisa, ho avuto modo di sperare che dal dolore possa nascere sempre qualcosa di buono, nel loro caso un impegno sociale che culmina nella loro umanità.

Grazie alla dedizione, alla passione e alla fiducia nella sua professione, il professor Aparo ha lanciato un importante messaggio sulla rieducazione e sull’importanza della comunicazione.

Grazie al dottor Francesco Cajani, questo progetto ha avuto una struttura intrecciata con pazienza attraverso i fili dell’empatia.

Grazie al professor Malcovati, perché è riuscito a estirpare dal romanzo “Delitto e Castigo” dei significativi spunti di riflessione.

Grazie al professor Nobili perché partecipando a questo progetto ha mostrato dedizione per quello che è stato il suo lavoro.

In conclusione, sono sicuramente grata ad ognuno dei partecipanti per avermi mostrato punti di vista che da sola non avrei potuto osservare.

Ho creduto in questo progetto sin da subito  e sono felice di poter dire che è stata non solo una scelta giusta ma anche necessaria per il mio percorso.

Oggi sono una studentessa di giurisprudenza, se un giorno il mio sogno di avvererà, sarò un pubblico ministero. Mi impegnerò durante il mio percorso a tenere stretti tutti gli insegnamenti di cui ho fatto tesoro grazie a questo progetto.

Marika Pala – Studentessa Giurisprudenza

Delitto e Castigo

Aula Dostoevskij – Ciavarella

Sono fortemente convinto che incontri e progetti di questo genere siano determinanti per favorire un cambiamento della visione distorta della realtà che ogni reo può avere.

Mi impegno a trasmettere ai ragazzi che incontriamo nelle scuole e in carcere che è molto facile trovarsi a pagare il prezzo più alto della propria esistenza.

Inoltre, continuerò a scavare sempre più a fondo per cercare le ragioni che mi hanno portato alla devianza. Questa ricerca potrà avere risposta solo attraverso persone come voi, che avete scelto di confrontarvi con noi detenuti del Gruppo della Trasgressione.

Giorgio Ciavarella – Detenuto

Delitto e Castigo