Fabrizio Jelmini

Fabrizio Jelmini – Intervista sulla creatività

Fabrizio Jelmini pratica fotografia da quando aveva undici anni. La sua passione nasce grazie al contributo dello zio, fotografo di paese, che lo ospitava nel suo negozio durante le estati. Egli ritiene che la fotografia sia per lui un mezzo per approcciarsi alla bellezza e al lato artistico delle cose. Nel corso degli anni ha lavorato in vari settori della fotografia professionale, tra cui il reportage giornalistico e documentaristico, di cui è sempre stato molto appassionato.

 

Anita: Cos’è per te la creatività?

Fabrizio Jelmini: Per quanto mi riguarda la creatività è vita. Tutto quello che fa parte dell’ambito creativo mi ha sempre dato una grande energia. Cambiare l’ordine delle cose mi dà la possibilità di uscire dalla mia classica comfort zone e di attivare un percorso di crescita. L’approcciarsi alla creatività permette una visione di amore.

 

Gloria: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Fabrizio Jelmini: Fondamentale è la curiosità, intesa come capacità di non rimanere legati alle proprie convinzioni. Gli stimoli esterni diventano per me benzina che alimenta il motore della curiosità. Nelle mie esperienze trasversali tutto mi è servito per avere uno spettro diverso a livello visivo.

 

Anita: Cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Fabrizio Jelmini: Io considero la creatività una ricerca costante e di conseguenza non riesco a identificare un fattore determinato che avvia la mia creatività. Nella mia esperienza ho però notato che durante i momenti più pesanti a livello emotivo, il motore di ricerca della creatività era molto più forte.

Per quanto riguarda lo sviluppo, credo sia un susseguirsi di stimoli che alimentano la creatività e le permettono di evolversi. Per esempio, a me è sempre piaciuto scrivere per me e un mio limite è non sapere scrivere bene quanto mi piacerebbe. Il lavoro da documentarista mi ha dato la possibilità di aggirare questo limite: facevo raccontare ad altre persone quello che avrei voluto scrivere.

 

Gloria: Che conseguenze ha sulle tue emozioni e il tuo stato d’animo la produzione creativa?

Fabrizio Jelmini: Dalla frustrazione alla liberazione più assoluta. La frustrazione può dipendere dal periodo di tempo passato per arrivare alla conclusione, durante il quale ti sorgono mille dubbi e domande. La liberazione invece è connessa alla gioia e alla leggerezza di essere riuscito a produrre ciò che prima era solo un’idea che girava in testa.

 

Anita: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso o dell’autore in generale?

Fabrizio Jelmini: Io non smetto di essere fotografo quando appoggio la macchina fotografica. Per me la fotografia non è soltanto professione. Il concetto creativo non si limita soltanto al fatto del fare un progetto fotografico, anzi lo stimolo maggiore mi arriva nel rapporto con gli altri e nella ricerca.

 

Gloria: Nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo cosa determina?

Fabrizio Jelmini: Io credo sia fondamentale l’apertura reciproca: se io dovessi fotografarti, senza darti nulla di me ma cercando solamente di prenderti, mi ritroverei con un’immagine esteriore ferma. La mia apertura nei confronti dell’altro fa sì che ciò che mi ritorna è sempre superiore a ciò che do.

 

Anita: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Fabrizio Jelmini: C’è stato un periodo in cui quando producevo del materiale che trovavo estremamente interessante e trovavo qualcuno discorde, ci rimanevo malissimo perché lo portavo sul piano personale. Con il tempo però impari che non puoi piacere a tutti e ci saranno sempre persone con cui avrai più difficoltà a comunicare e a coinvolgere con il tuo prodotto creativo. Quindi adesso non mi pongo più il problema: una volta cercavo di convincere chi la pensava in modo diverso da me, oggi rispetto un punto di vista diverso dal mio e cerco addirittura di utilizzarlo per un’analisi personale, per vedere se può darmi una visione in più rispetto a quello che ho fatto.

 

Gloria: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Fabrizio Jelmini: Tutti possono fruire del prodotto creativo. Penso che sia importante che l’artista crei una connessione con coloro ai quali vuole mandare un messaggio. Io scinderei la fotografia professionale dalla fotografia con scopo introspettivo. Nella fotografia professionale ci sono dei costrutti da rispettare per arrivare ad uno scopo, mentre la fotografia introspettiva è più malleabile e può essere costruita di volta in volta. Questo per quanto riguarda coloro che diventano i soggetti del prodotto creativo. Per quanto riguarda invece il giovamento degli spettatori in generale, non so rispondere a questa domanda perché credo che il giovamento sia soggettivo ed ognuno ne usufruisce a modo suo.

 

Anita: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Fabrizio Jelmini: Io non credo ci sia un’immagine adatta a rappresentare l’atto creativo perché esso è soggettivo. In linea generale credo che debba essere un’immagine che ti faccia star bene. Potrebbe essere anche un’immagine di prospettiva: non quella che hai in mente ma quella che vorresti che fosse, perché diventa una proiezione. Io non ho un’immagine ideale perché preferisco approcciarmi all’atto creativo liberamente e senza essere condizionato da qualcosa di già prefissato.

 

Gloria: Pensi esista una relazione tra depressione e creatività?

Fabrizio Jelmini: Si. Le mie foto più particolari le ho fatte nei momenti di difficoltà. Ricordo che in quei periodi avevo una percezione, un livello di sensibilità, spaventosi. Nei momenti in cui si è più chiusi, si riesce ad ascoltarsi meglio e questo aiuta nella ricerca di nuovi stimoli.

 

Anita: Quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Fabrizio Jelmini: Non è mai concluso, perché è ciò che vivi in quel momento e ti rimarrà sempre qualcosa di quello che hai fatto. L’essere umano è in continuo movimento, di conseguenza può sempre riprendere un progetto e dargli una nuova vita. Come ho già detto, la creatività è un motore in costante movimento che porta alla continua ricerca di stimoli.

 

Gloria: Pensi che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Fabrizio Jelmini: Si. Per quanto mi riguarda, i lavori che ho fatto in diverse realtà sociali erano spinti dalla necessità di entrare in un mondo diverso dal mio. Credo che sia necessaria la capacità di comunicare in modo chiaro e comprensibile gli scopi del progetto. Ad esempio, uno dei progetti che ho svolto in Brasile aveva come scopo la promozione di una raccolta fondi per la costruzione di un ambulatorio in una favela. Per fare ciò, sono stato ospitato nella favela per raccogliere materiale da esporre. Pochi giorni dopo il mio arrivo, si è presentato davanti alla mia porta un bambino di 7 anni circa, e con fare arrogante ha chiesto di essere fotografato perché aveva sentito dire che le foto sarebbero servite per la raccolta fondi. È stato bellissimo secondo me perché sono riuscito a comunicargli l’importanza del progetto, e a quel punto lui si è offerto volontario, riconoscendo il vantaggio che ne avrebbe ricavato.

 

Anita: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Fabrizio Jelmini: Se dovessi fare una risposta breve direi la seconda. Però bisogna sempre tenere in considerazione le informazioni e il contesto in cui una persona nasce e cresce. Io credo che a chiunque e in qualsiasi momento debbano essere dati gli strumenti per sviluppare la propria creatività. Essa, infatti, non è necessariamente legata ad un banale concetto artistico, ma piuttosto credo sia la capacità di mettersi in gioco in qualunque situazione, cercando di superare i propri limiti e uscendo dalla comfort zone.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Fabrizio Jelmini: Certo che sì. Io credo che la creatività sia un modo di comunicare e ognuno di noi ha bisogno di comunicare qualcosa agli altri, si tratta solo di trovare il modo giusto. A questo proposito, vorrei raccontarvi di un progetto che ho svolto nel carcere di Bollate, con l’aiuto di Claudio Villa. Il tema del progetto era legato alla libertà e alla giustizia e io volevo rappresentare i detenuti nei loro vari momenti, partendo dalla cella per arrivare ai corridoi e all’esterno. Il progetto è stato accolto positivamente dai detenuti ed è stato per me molto istruttivo, poiché mi sono resoconto che la fotografia non è un mezzo fine a sé stesso ma può essere utilizzata come mezzo per condividere i propri pensieri. Durante il percorso il mio punto di arrivo è cambiato: non mi interessava più far vedere il carcere e la vita interna ad esso, bensì mi sono focalizzato sull’uomo in relazione alla libertà e alla giustizia che lui stesso esprime. Un punto fondamentale deve essere la voglia di comunicare con chi sta dall’altra parte, per renderlo completamente protagonista. La creatività è servita come strumento, ma per realizzare il progetto è stata necessaria la partecipazione attiva e volontaria dell’altro.

Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani e Gloria Marchesi

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Giovanna Di Rosa

Giovanna Di Rosa – Intervista sulla creatività

Giovanna Di Rosa è magistrato e Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano.  Come affermato da lei stessa, il suo incarico le piace molto perché nell’esercizio del suo ruolo ha la possibilità di esprimere la sua creatività, nonostante si tratti di un lavoro di grande responsabilità e accompagnato dal rischio di poter prendere decisioni sbagliate o di non riuscire a intercettare un particolare importante per una migliore visuale della situazione in esame.

Essendo questo un lavoro sull’uomo, la dott.ssa Di Rosa ritrova la creatività in tutti i compiti che è chiamata a svolgere. Ogni giorno si trova nella posizione di dover prendere delle decisioni che incideranno drasticamente sulla vita delle persone coinvolte e adempie al suo compito nella speranza di fornire la risposta più adatta ad ogni singola domanda. Ella ritrova la creatività proprio all’interno di questo tentativo di fornire una decisione che sia ritagliata e cucita nel migliore dei modi per la singola storia in esame, che oltretutto non è mai uguale rispetto ad un’altra storia anche in presenza di condizioni oggettive molto simili.

Secondo l’opinione dell’intervistata, in tutto il mondo della giustizia, anche se può suonare strano, deve essere costantemente applicata la creatività. Basti pensare all’indicazione secondo cui si deve cercare di adattare la norma al caso singolo, che altro non è che un’attività di interpretazione delle leggi. È un compito molto difficile che spesso espone alle critiche dei cittadini, i quali si chiedono come sia possibile che a due imputati che hanno commesso lo stesso identico reato vengano comminate due condanne differenti. Ciò è possibile in quanto ognuno ha la propria storia soggettiva alle spalle, le condizioni che lo hanno portato a delinquere sono differenti rispetto a quelle di qualsiasi altra persona e lo sono anche le modalità con cui il reato è stato commesso, il valore dell’oggetto che è stato utilizzato e una condizione diversa in cui si trova la vittima. Nel campo della giustizia, pensare in maniera creativa significa essere capaci di adattare il ragionamento scientifico e razionale del Diritto alla situazione specifica, in modo tale da far applicare, all’interno di un ventaglio di pene, quella più consona. È grazie a questo principio di azione che viene garantito il sistema della giustizia, in quanto si fa in modo che ad ogni colpevole venga data la punizione che si merita.

Il lavoro svolto dalla dott.ssa Di Rosa risulta essere un’attività interpretativa molto ricca in quanto le parole riportate all’interno delle leggi sono perentorie e pongono dei limiti, quasi come se fossero delle equazioni matematiche. Tuttavia, tra le stesse parole e la realtà concreta in cui dovrebbero essere applicate le leggi, l’immaginazione e la creatività trovano ampi spazi e permettono di applicare delle variazioni, le quali ovviamente devono essere ragionate e motivate.

Il compito del magistrato è quello di fare giustizia applicando la legge, rimanendo all’interno dei canoni prestabiliti ma cercando di modularli, arrivando così certe volte a soluzioni completamente opposte, all’interno di casi apparentemente identici, ma diversi sotto mille sfaccettature.

Tutto questo è il frutto di un’operazione creativa.

 

Elisabetta: Cos’è per lei la creatività?

Giovanna Di Rosa: Io penso che la creatività sia una capacità produttiva della ragione e della fantasia. Penso che la creatività sia un modo di guardare il mondo superando ciò che si vede e cercando di dare risposte diverse da quelle che sono immediatamente percepibili. La creatività è una forma di consapevolezza anche propria perché si dà nuova forma a quello che si vede e quindi ci si appropria di ciò che si vede o si pensa e lo si rende valore interiore. In conclusione, credo sia un modo di esprimere la propria libertà interiore.

 

Anita: Cosa fa scattare, come si sviluppa la creatività e in quali condizioni?

Giovanna Di Rosa: La forma tradizionale in cui si sviluppa la creatività è la forma artistica, ma in generale io credo che la creatività sia un modo di orientarsi della mente che genera idee per trovare soluzioni alternative. Credo quindi che si sviluppi in tutti gli ambiti e che non sia solo legata alla forma espressiva, si può anche tradurre in comportamenti tangibili. Per quanto riguarda le condizioni in cui si sviluppa credo che sia particolarmente importante un ambiente stimolante. Ci sono sicuramente persone che sono più propense, per propria natura, a mettersi in discussione e, facendo ciò, riescono a valutare le cose e a pensare in modo più ricco, originale e creativo rispetto a alla prima risposta. Ma credo che la stimolazione esterna possa aumentare le capacità creative anche di persone meno talentuose o con altro tipo di talenti.

 

Elisabetta: Quali immagini possono ben rappresentare l’atto creativo?

Giovanna Di Rosa: In prima battuta, direi un cervello che lavora. Ma andando oltre, penso al mare. Il mare a prima vista può sembrare sempre uguale ma in realtà è in costante movimento e si può presentare in forme diverse. Ciascuno di noi può vedere il mare in questo movimento continuo e lo può personalizzare a seconda di come lo vuole fare proprio.

 

Anita: Che conseguenze può avere l’atto creativo nel rapporto con sé stessi e con gli altri?

Giovanna Di Rosa: Parto dall’arte perché è la risposta più immediata che mi viene, ma la traspongo anche nel mondo quotidiano, in quello che stiamo facendo adesso. Secondo me, è un orientamento della mente che genera idee per trovare soluzioni e risposte alternative, anche utilizzando la fantasia.

 

Elisabetta: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per chi realizza un lavoro creativo?

Giovanna Di Rosa: Io penso che il riconoscimento altrui sia molto importante anche se credo che per alcune strutture di personalità, come per esempio le più chiuse o le più autonome, può essere meno significativo. Personalmente, credo che ottenere il riconoscimento degli altri significa percepire che gli altri hanno compreso quello che si voleva dire e quindi che c’è stato uno scambio. Il riconoscimento spesso è associato al gradimento ma io non credo sia solo questo, piuttosto implica la capacità di comprendere i messaggi mandati dall’artista e la possibilità di avere uno scambio con gli altri. Quindi fa parte della relazione sociale che è alla base di quello che fa qualunque artista.

 

Anita: Esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali destinatari?

Giovanna Di Rosa: Io non credo che la fruizione del prodotto creativo sia destinata solo agli altri, ma ritengo che sia destinata anche a sé stessi, poiché è un bisogno interiore di manifestarsi. Il modo ideale di fruirne credo sia quello di comprenderla a fondo, quindi di mettersi a disposizione con la volontà di ascoltare e di farsi trascinare da quello che è stato il prodotto creativo. Io credo che il principale destinatario sia colui che l’ha prodotto, il resto è l’insieme delle relazioni sociali a cui si vuole offrire questo prodotto. Di norma ritengo che il prodotto creativo sia rivolto a tutti e che non sia differenziato in base a singole categorie. Forse gli artisti che operano settorialmente si orientano verso i settori ai quali sono destinate le loro opere, per esempio immagino che la creatività per bambini sia difficilmente comprensibile dagli adulti, tuttavia anche in questo caso si possono trovare dei messaggi e dei contenuti che possono essere compresi da tutti.

 

Elisabetta: La creatività ha o può avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Giovanna di Rosa: Assolutamente sì. Nella mia esperienza professionale ho visto che ci sono state molte iniziative e molti laboratori con questa funzione sociale all’interno delle carceri e sono stati costruiti progetti di vera e propria inclusione sociale. La creatività è una forma per conoscere sé stessi, esprimendosi tramite una tela o un foglio di carta.  La destinazione di questi laboratori creativi è stata quella dell’inclusione sociale ma anche dell’acquisizione delle competenze. La funzione sociale è anche realizzata, secondo me, dal contatto con la materia viva che aiuta ad organizzare la conoscenza e la coscienza propria perché ci metti qualcosa di tuo in ogni prodotto che realizzi. La funzione sociale si esplicita quindi nel far transitare all’esterno queste produzioni proprie, facendo così comprendere che si è tutti esseri umani. Infine, questi laboratori permettono anche di acquisire competenze che possono essere utilizzate per avere una seconda possibilità una volta concluso il periodo di reclusione, soprattutto quelli che hanno utilità più pratiche.

 

Anita: parliamo dell’atto creativo nelle diverse età. Cos’è per il bambino, per l’adolescente e per la persona adulta?

Giovanna Di Rosa: finora abbiamo parlato di quella forma di creatività che è maggiormente legata alla consapevolezza del sé. Tuttavia, è necessario prendere in considerazione anche la creatività meno legata alla consapevolezza e, di conseguenza, maggiormente influenzata dall’emotività.  Quest’ultima è più sviluppata nel bambino ed è maggiormente istintiva, meno influenzata dalle sovrastrutture mentali, dalle abitudini e dalle esperienze pregresse. Progressivamente, con l’avanzare dell’età, l’atto creativo diventa sempre meno istintivo e libero e viene sottoposto alle esperienze di vita passate. Più l’individuo cresce, diventa adolescente e poi adulto, più viene addestrato a pensare e razionalizzare ciò che fa e meno riesce ad agire in maniera istintiva e creativa.

 

Elisabetta: in che modo la creatività può incidere nelle relazioni sociali del soggetto?

Giovanna Di Rosa: partiamo dal presupposto che realizzare prodotti creativi significa dare vita ai propri pensieri ed esternarli. Offrire agli altri le creazioni personali, frutto del proprio mondo interiore, rende l’autore disponibile alla relazione con l’altro. Quindi credo che la creatività favorisca una migliore comprensione di se stessi e aiuti ad  aprirsi verso gli altri, a stabilire relazioni migliori, più prolifiche, più sincere e più genuine.

 

Anita: la creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Giovanna Di Rosa: anche rispetto a questa domanda ho parzialmente risposto prima. Abbiamo detto che la creatività è una qualità e un atteggiamento mentale che alcune persone possiedono sotto forma di dono naturale. Quest’ultime sono individui più estrosi, versatili e predisposti a manifestare se stessi attraverso la creatività.

Detto questo, credo che sia possibile stimolare alla creatività anche le persone meno propense ad essa. La creatività è una potenzialità di qualsiasi cervello umano e, se si spinge un individuo alla riflessione e alla messa in discussione dei suoi limiti, allora chiunque può essere portato alla manifestazione di questa potente qualità umana.

Inoltre la creatività, essendo uno strumento per lo sviluppo della personalità, è strettamente legata alla storia individuale di ciascun individuo. Certamente, chi è vissuto in condizioni di deprivazione affettiva, non credo abbia avuto la possibilità di sviluppare questo talento. Magari egli ha un mondo interiore ricchissimo ma, avendo avuto dei modelli di vita improntati solamente su rapporti autoritari non credibili e avendo avuto da sempre l’esempio di valori che vanno contro il rispetto delle regole, non può che avere una percezione alterata di cosa possa voler dire esprimere se stessi in maniera creativa.

Sono convinta che l’essere umano sia fondamentalmente buono. Non credo che esista il male predeterminato e penso che l’uomo sia buono per natura. È compito delle istituzioni cercare di risvegliare l’umanità di chi ha sbagliato attraverso la creatività.

 

Elisabetta: a scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

Giovanna Di Rosa: la scuola è sicuramente il primo ambito all’interno del quale prende avvio l’esercizio alla creatività.

La scuola insegna che ci sono due tipi di approccio alla realtà. Il primo è quello matematico e razionale, secondo cui ci può essere un solo risultato corretto alle operazioni matematiche. Allo stesso tempo però, gli insegnanti abituano gli allievi ad essere mentalmente flessibili, spiegando loro che esiste un altro tipo di approccio. Questo viene presentato come maggiormente legato all’emotività, permette di cambiare prospettiva e potenzia l’intelligenza dei ragazzi, in quanto permette di avere numerosi angoli di prospettiva rispetto alla medesima questione.

 

Anita: pensa che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

Giovanna Di Rosa: certamente sì. Non solo perché favorisce l’interrogarsi su se stessi, sulla propria storia, su chi si è nel presente e sul proprio progetto di vita, ma anche perché, la modalità di espiazione della pena del condannato deve essere utile, altrimenti è solo una quantità di tempo fine a se stessa che non porta a nessun giovamento.

Gli anni di pena in carcere dovrebbero rappresentare un tempo contenitore della devianza, il quale offre reali possibilità di cambiamento e rieducazione. In caso contrario, il tempo della reclusione non porta a nessun giovamento anzi, favorisce un cambiamento in peggio, caratterizzato da rancore e frustrazione.

Per evitare il rischio di una pena inutile e senza contenimento della devianza, è necessario ricondurre il soggetto al suo progetto di vita.

Poco fa ho utilizzato l’immagine del mare per descrivere la creatività e questo perché immagino l’essere umano come immerso in un continuo flusso in divenire, all’interno del quale nessuno rimane sempre uguale e immobile.

Un’altra qualità dell’essere umano in cui credo fermamente è che l’uomo è capace di cambiare ed evolversi. Io non sono uguale alla persona che ero ieri. Le sollecitazioni di qualsiasi giornata, anche la più banale, portano indubbiamente alla riflessione e aumentano il nostro bagaglio di esperienze. Ciò fa sì che in ogni persona ci sia qualche cambiamento, positivo o negativo, rispetto alla giornata precedente.

Non avrebbe senso far trascorrere ai detenuti interi anni di reclusione senza impegnare positivamente il loro tempo. E allora cosa potrebbe essere utile per il condannato? Lo studio e la formazione, realizzate attraverso la creatività, costituiscono una forma di riparazione, la quale può aiutare a reinventare azioni utili per se stessi e di conseguenza per la collettività.

Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani ed Elisabetta Vanzini

Giovanna Di RosaSui dirittiInterviste sulla creatività

Raul Montanari

Raul Montanari – Intervista sulla creatività

Raul Montanari è scrittore e docente di scrittura creativa. Spiega ai suoi allievi le tecniche applicate dagli scrittori. Si dedica allo studio teorico della creatività espressa attraverso la prosa narrativa e la sceneggiatura cinematografica. Con altri della sua generazione, ha attirato nel campo della narrativa un pubblico giovane che leggeva fumetti con un linguaggio molto avanzato e che era interessato ad espressioni anche estreme della narrativa. Si è espresso nel genere Noir, che si occupa del conflitto tra bene e male. Nel 1991 ha pubblicato il suo primo romanzo “Il buio divora la strada” portando il Noir all’attenzione dei grandi editori.

 

Gloria: Cos’è per te la creatività?

Raul Montanari: Ogni atto espressivo è creativo in sé. La scrittura creativa adopera una serie di stratagemmi perché è una creatività sottomessa a leggi molto precise volta a ottenere il massimo dell’efficacia per il lettore. Lo scopo? Che i sentimenti e i pensieri che l’autore vuole trasmettere diventino risonanti anche per il lettore, diventino pubblici, possano quindi avere un significato per gli altri. La creatività è una disposizione dello stare nel mondo molto diffusa. La creatività disciplinata, per potersi rivolgersi a un vero pubblico, comporta delle regole e difficoltà.

 

Arianna: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Raul Montanari: La creatività si esprime in vari ambiti. Nell’ambito della narrativa e dei formati espressivi del cinema e del fumetto ci sono due condizioni a monte dell’idea creativa e che appartengono alla persona creativa: uscire dalla propria vita ed incontrare la vita degli altri, perché la nostra vita non dà materiale sufficiente per scrivere un romanzo. Qui risiede anche la differenza tra prosa e poesia: poeti illustrissimi passano tutta la vita parlando solo di sé stessi, ma siccome nella poesia l’accento è messo sull’arte della parola, l’aspetto di apertura del mondo esterno può essere quasi superfluo. Invece, quando si scrive in prosa è impossibile scrivere solo attingendo alla propria vita; infatti, chi scrive vive, oltre alla sua vita, tutte le vite dei personaggi, e per poter moltiplicare i punti di vista occorre curiosità per la vita degli altri.

Per scrivere una buona prosa occorre attingere a tre magazzini: quello della propria vita, quello della vita degli altri che raccontano le proprie esperienze (e l’atto di ascoltare le storie degli altri è un’esperienza soggettiva) e infine quello comprendente tutto il resto (i libri che si leggono, i film che si vedono…).

Per fare un esempio, nel 2006 ho pubblicato un romanzo dal titolo “L’esistenza di Dio” il cui personaggio principale volevo fosse un ex detenuto, uscito dal carcere per presunto uxoricidio. Volevo che avesse una fobia e così ho esaminato le fobie che potessero andare bene per un personaggio del genere e ho pensato alla claustrofobia, la più temibile per un recluso. Nel primo magazzino sulla mia vita non trovavo niente su questa fobia, quindi ho esaminato il secondo magazzino e ci ho trovato mia madre, che mi ha parlato dei suoi problemi con la claustrofobia; nel terzo magazzino, attraverso ricerche, ho scoperto nuove curiosità su questo genere di paura.

Il secondo ingrediente a monte della creatività nella scrittura è il fascino per l’espressione di parola scritta che nasce leggendo: alle spalle di un grande scrittore infatti c’è sempre un grande lettore.

 

Gloria: Cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Raul Montanari: L’idea non ho mai capito da dove viene; sono sempre state usate metafore per descrivere lo scaturire del processo creativo, come ad esempio la metafora del Big Bang, ovvero qualcosa a cui nessuno ha assistito ma delle cui conseguenze noi tutti facciamo parte: non vedi nascere l’idea ma te la ritrovi lì.

L’idea può venire dalla vita o dalla narrativa. Ad esempio, nel mio ultimo romanzo, l’idea è nata da una ragazza che esiste realmente e che si è presentata alla mia porta per vendermi un giornale;  da questo episodio ho cominciato a chiedermi cosa potesse causare una simile epifania nella vita di un uomo solo; di solito ragiono per contrasti: cosa ci può essere di più contrastante tra una giovane ragazza raffigurante il massimo della socialità vendendo giornali alle porte delle case, e un uomo che si è chiuso a riccio nella sua solitudine?

 

Arianna: Che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Raul Montanari: Io mentre scrivo sto male. Il mio procedimento creativo è diviso in tre momenti: preparazione di circa un mese (scaletta cronologica, ricerche sui luoghi e su tutti gli aspetti coinvolti nella storia, creazione dei personaggi, scaletta dei capitoli), prima stesura in circa un altro mese, ed infine correzioni e aggiustamenti.

Il vero momento creativo è la prima stesura, il mettere sulle pagine delle parole che prima non esistevano. Questo atto di creazione lo reputo estremamente doloroso perché provoca una immensa astrazione dal mondo reale e lo stare dentro al mondo immaginario è alienante, corri anche il rischio di contaminare il mondo ideale col mondo reale e viceversa.

Diventi un vampiro della vita perché succhi energie alla vita per metterle nelle pagine del tuo romanzo.

Una volta concluso il romanzo sento delle dinamiche bellissime di rispecchiamento, mi rivedo nelle mie pagine. Ma anche il mancato rispecchiamento provoca un piacere narcisistico: anche se si racconta un episodio, una paura, un sogno che appartengono ad un’altra persona, lo si fa con le proprie parole.

 

Gloria: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso e sulla percezione dell’autore in generale?

Raul Montanari: La dimensione dell’autore ha conservato un prestigio enorme nonostante la scrittura sia antichissima, ormai, e nonostante il rapporto con il destinatario abbia degli spazi sempre più ristretti perché le persone hanno sempre meno tempo per leggere. Rimane questo fascino perché si sente che questa forma di creatività che passa attraverso la parola ha un carattere esplosivo.

 

Arianna: Nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo cosa determina?

Raul Montanari: Per quanto riguarda le persone che entrano come personaggi nelle pagine, emerge l’aspetto vampiresco di cui parlavo prima: le persone sono spesso deluse da come vengono rappresentate in una narrazione. D’altronde, come scrittore tu non devi solamente obbedire alle leggi della vita ma anche alle leggi della narrazione: se ti serve che un personaggio sia stronzo e che metta in difficoltà il protagonista, devi fargli fare queste cose, è la storia stessa che ti detta le regole. Quando scrivi, oltre ad incontrare la vita degli altri, incontri anche una logica interna della storia che stai scrivendo e questa logica ti costringe a fare delle scelte, che spesso lasciano insoddisfatta la persona che si ritrova dentro il racconto.

Per quanto riguarda il rapporto con gli altri più in generale, io credo che la narrativa predisponga ad un’elevata capacità empatica. Una delle cose più difficili da fare quando si scrive una storia è per esempio tratteggiare il ruolo dell’antagonista, personaggio fondamentale perché la narrazione nasce sempre da un conflitto. Se si volesse fare una sintesi della narrativa, infatti, si potrebbe dire: un personaggio vuole far qualcosa ma fatica a farlo perché qualcuno si mette in mezzo. Per quanto riguarda l’ostacolo, vi possono essere tre tipi: l’antagonista, l’ambiente o un conflitto interiore. Tuttavia, nella maggioranza dei casi i diversi tipi di ostacoli vengono personificati in un antagonista: per esempio, si potrebbe dire che, se abbiamo un protagonista detenuto, il carcere è il suo ostacolo ambientale perché pone dei limiti fisici alla sua libertà. Tuttavia, è più facile identificare l’antagonista in una guardia sadica e cattiva, in questo caso l’ambiente diventa una persona.

 

Gloria: Quanto è importante l’apprezzamento degli altri per il prodotto creativo?

Raul Montanari: Varia molto, sia in base all’obiettivo dell’autore sia in base al tipo di espressione che ha scelto. Io conosco persone che producono atti creativi, i quali, ai loro occhi, hanno valore creativo in sé. Queste persone sono capaci di mettersi in una relazione con il loro prodotto creativo che non è mediata dal riconoscimento degli altri. Questo vale molto di più per la scrittura poetica, mentre la scrittura in prosa ha bisogno di un pubblico. A livello puramente economico, pubblicare un romanzo con una casa editrice ha dei costi e se tu/il tuo libro non piace, l’editore non guadagna nulla e tu ti estingui come narratore. Non ti pubblicano più! Per un romanziere quindi il pubblico è necessario. Ho conosciuto persone che avevano un rapporto molto intimo con il prodotto della loro creazione tanto da essere contenti così. Il riconoscimento altrui è un valore aggiuntivo di cui chiunque è felice. Sostanzialmente nessuno scrive solo per sé stesso, sostenere questo è solo un atteggiamento difensivo, paura del giudizio.

 

Arianna: Chi sono i principali fruitori del rapporto creativo e come ne traggono giovamento?

Raul Montanari: Nel caso della lettura ci sono lettori di ogni tipo, di conseguenza è impossibile piacere a tutti. In particolar modo è impressionante come quello che tu scrivi possa suscitare reazioni diverse nelle varie persone e soprattutto reazioni diverse da quelle che tu autore ti aspetti. Ogni cosa che scriviamo è sottoposta al famoso gioco della teoria dell’informazione: seduti intorno a un tavolo, tu riferisci una frase all’orecchio di una persona, la quale, a sua volta, la ripete al suo vicino e così via, fino a tornare a te ed è una frase completamente diversa dall’originale. Nella scrittura affrontare il giudizio degli altri porta anche a scoprire come ogni persona vedrà la tua narrazione a modo suo e prenderà dalla narrazione ciò che è entrato in contatto, in modo abrasivo o sintonico, con lei.

 

Gloria: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Raul Montanari: La prima cosa è la solitudine: l’atto creativo è un atto di raccoglimento. Sia la scrittura che la lettura sono atti di isolamento, attività che nascono come antisociali. Al contrario di altre attività creative come guardare un film, ascoltare una canzone oppure visitare una mostra, le quali possono essere svolte in gruppo, la scrittura prevede un rapporto uno a uno. Tutto ciò che avviene prima (ricerche, immedesimazione negli altri) e dopo (incontro con i lettori) sono invece attività sociali.

 

Arianna: Pensi che esista una relazione tra depressione e creatività?

Raul Montanari: Negli anni ’90 ho fatto molte traduzioni letterarie. Il primo libro che ho tradotto era un memoir sulla depressione scritto da William Styron. Il libro s’intitola “Un’oscurità trasparente” ed è la storia personale della depressione dell’autore. Questa storia racconta dello sprofondamento nella depressione e poi della rinascita attraverso due espressioni di tipo creativo: la scrittura e la musica. Da una parte, infatti, l’atto della scrittura implica apertura e fiducia, oltre ad aiutarti ad oggettivare certe tensioni e conflitti interiori rappresentandole su carta. L’oggettivazione permette di attribuire le tue sofferenze a qualcun altro e di conseguenza riesci ad avere una visuale diversa. La musica, d’altra parte, ha permesso all’autore di riconoscere l’entità della sua malattia e lo ha spinto alla ricerca di un percorso di salvezza. In particolar modo, l’ascolto di un brano musicale estremamente triste ha suggerito a Styron una distinzione tra tristezza e depressione. La tristezza è un sentimento nobile e necessario per l’uomo, al contrario la depressione è un aspetto autodistruttivo, da cui scappare.

 

Gloria: Quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Raul Montanari: Secondo la teoria dell’opera aperta di Umberto Eco, l’atto creativo non è mai concluso. Manganelli diceva che pubblicare un libro è un modo per disfarsene, altrimenti vai avanti a correggerlo all’infinito. Il prodotto creativo può venire cristallizzato ad un certo punto, l’atto creativo al contrario è energia infinita. Nel mondo della scrittura abbondano metafore di tipo procreativo: è normale infatti paragonare il libro ad un bambino e comparare il lavoro di scrittura ad una gravidanza. Sono tutte metafore che indicano un apparentamento analogico tra la creatività universale e il tuo atto creativo personale.

 

Arianna: Pensi che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

Raul Montanari: Sì, sotto ogni punto di vista. Tutte le funzioni dei prodotti creativi sono sociali; non ce n’è una che non sia sociale. Non siamo capaci di vivere senza “narrativizzare” il mondo: trasformiamo sempre il mondo in un racconto. Se guardiamo noi stessi e la memoria che abbiamo di noi stessi, possiamo notare in che modo vediamo la nostra vita: come fosse un romanzo, con i suoi personaggi, i suoi colpi di scena, i capitoli, le svolte, i cambiamenti di ruolo…

Dei nostri primi anni di vita, non abbiamo un ricordo così ben strutturato. Si potrebbe dire che viviamo i nostri primi anni con un atteggiamento più poetico che narrativo; abbiamo delle poesie, dei flash, delle piccole immagini che contengono un’emozione. Cominciamo ad organizzare narrativamente lo sguardo che abbiamo sulla nostra stessa vita intorno ai 9-10 anni. L’atteggiamento narrativo è antropologico, connaturato alla specie umana, che applica questo atteggiamento a tutta la realtà esterna. Perfino il complottismo è indizio della nostra tendenza a narrativizzare: abbiamo una tale ripugnanza a pensare che le cose possano accadere senza che ci sia dietro una trama, che ci attacchiamo anche alle spiegazioni più improbabili per costruirci una storia. Questo pensiero complottista è la versione a volte comica e a volte grottesca di una propensione narrativa.

 

Gloria: Pensi che la creatività sia un dono naturale e dunque un privilegio di pochi oppure una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

Raul Montanari: Penso che la creatività sia accessibile a tutti, altrimenti non avrei la scuola di scrittura creativa. Il talento esiste, ma l’atteggiamento creativo è universale. Ciò che fa davvero la differenza non è il talento, ma la determinazione, che è il vero carburante. La determinazione non va però confusa con la mitomania, che fa ottenere una soddisfazione parziale, temporanea, allucinatoria, ma spegne la volontà.

 

Arianna: Ritieni che la creatività possa avere un ruolo utile a scuola o nelle attività di recupero del condannato?

Raul Montanari: Sì, sicuramente. Innanzitutto, dal punto di vista psicologico, mette in moto dei meccanismi salutari come l’oggettivazione, il tentativo di entrare nei panni degli altri, che aiuta anche nell’organizzazione del proprio vissuto personale. Quando si rappresenta l’altro, naturalmente non in modo stereotipato in base alla sua funzione narrativa, ma come persona nella sua totalità, aiutiamo noi stessi a percepire il nostro vissuto, creando una nuova consapevolezza più salutare di quello che è il nostro ruolo nelle vite degli altri. Anche l’aspetto narcisistico non va trascurato: l’innalzamento dell’autostima che può seguire l’atto creativo può essere propedeutico a qualsiasi tipologia di recupero.

Intervista ed elaborazione di
Arianna Picco e Gloria Marchesi

 

 

Raul MontanariLibriInterviste sulla creatività

La piccola tigre

Storia della piccola tigre

La piccola tigre aveva delle regole.

Una notte i suoi genitori le dissero “Puoi andare ovunque tu voglia ma non avvicinarti mai al precipizio perché potresti cadere”.

Una notte lei si avvicinò perché più si avvicinava più cose sentiva, più cose vedeva.

Un giorno lei cadde e volò nel Domani.

Beatrice Cauzzi, anni 8

Officina creativa

 

Lettera al mio corpo

Ti ho maltrattato in passato. Ti ho negato il cibo quando avevi fame e te ne ho dato troppo quando non ne avevi bisogno. Mi sono vergognata di te, ti ho nascosto e non so ancora per quale motivo. Pensavo solo alla tua funzione estetica e non mi rendevo conto del male che ti stavo infliggendo.
Solo ora, con tutto il dolore che grazie a te riesco a superare, capisco quanto tu sia straordinario:
Grazie perché la mattina riesco a svegliarmi.
Grazie perché nonostante tutto sono ancora in piedi.
Grazie perché, anche se ti ho odiato, ci sei sempre stato.
Grazie perché, anche se qualche volta ti do la colpa per quello che mi succede, mi permetti di vivere.

 


La colonna rotta di Frida Kahlo

Un buco sulla pancia. Poi tre. Poi quattro e così via. La bocca che fa male, la gola gonfia che brucia e non mi permette di deglutire nemmeno la mia stessa saliva. Le mani gonfie, le vene rotte, i lividi sulle braccia. Il telefono sul comodino che non ho la forza di prendere. Non ho voglia di rispondere a tutti i “come stai?” degli amici e dei familiari preoccupati. Non ho voglia di ripetere altre mille volte quanto sto male. Non ho voglia di far preoccupare mia mamma che ha quella brutta abitudine di soffrire più di me quando sto male.

Ogni tanto penso a Frida Kahlo perché lei ha passato gran parte della sua vita a soffrire fisicamente, era malata e ha avuto un grave incidente. Nonostante tutto la sua produzione artistica fu molto prolifica e forse nacque anche dalla sofferenza.

Gloria Marchesi

Officina Creativa

Silvio Di Gregorio

Silvio Di Gregorio – Intervista sulla creatività

Silvio Di Gregorio è il direttore della Casa di Reclusione di Milano Opera e, come previsto dal ruolo che ricopre, si occupa di esecuzione della pena e di reinserimento sociale dei condannati. Quest’ultimo aspetto, quello relativo al reinserimento sociale, gli è molto caro. Secondo il suo punto di vista, il carcere non deve essere concepito come un mero luogo di contenimento di chi ha sbagliato. Al contrario, deve essere uno spazio di crescita e di evoluzione costante in cui cercare e creare le possibilità per far sì che le persone decidano consapevolmente di cambiare il proprio modo di vivere.

Su Wikipedia si può leggere che all’interno del Carcere di Opera esistono molteplici attività creative messe a disposizione dei condannati: Leggere libera-mente, progetto di lettura e di poesia; Opera Liquida, compagnia teatrale che lavora all’interno del carcere; Il Gruppo della Trasgressione, composto da detenuti, ex detenuti, studenti e liberi cittadini che svolgono svariati progetti, tra cui il Progetto Scuole, in cui i detenuti diventano agenti di prevenzione del bullismo e della tossicodipendenza nelle scuole milanesi, la rappresentazione del Mito di Sisifo, i concerti della Trsg.band e la bancarella di Frutta & Cultura.

 

Anita: che cos’è per lei la creatività?

Silvio Di Gregorio: la creatività si sviluppa nel momento in cui si mette in campo tutto ciò che può essere utile per il raggiungimento di un obiettivo attraverso strade non consuete e prestabilite a priori. È importante notare come nella creatività non si debbano necessariamente rispettare schemi rigidi, altrimenti si parlerebbe di adattamento alla realtà che ci circonda. Se ci si riferisce alla creatività, invece, si deve mettere in conto che tutto ciò che appartiene al mondo circostante può essere utilizzato per raggiungere un obiettivo.

All’interno del ruolo che ricopro, credo che la creatività trovi ampio respiro poiché devo sempre reinventare un modo nuovo per permettere a chi ha sbagliato di evolversi. Se infatti partiamo dal presupposto che ogni persona è a sé stante ed ha personalità, potenzialità e vissuti diversi dagli altri, comprendiamo che le possibilità di cambiamento che il carcere offre devono essere diverse per ogni detenuto. Ogni giorno vanno inventati modi diversi per toccare le corde giuste del detenuto e per permettergli di trovare la volontà di riscatto personale e la voglia di produrre pensieri e comportamenti che siano in linea con il vivere civile.

 

Elisabetta: cosa fa scattare, come si sviluppa la creatività e in quali condizioni?

Silvio Di Gregorio: credo che la creatività nasca dalla volontà di stupire gli altri e di stupirsi. Prende avvio da un desiderio di ricerca di una strada nuova, non ancora esplorata e che consente di realizzarsi in maniera più gratificante rispetto alla soddisfazione che deriva dal rispetto di stereotipi. La condizione da cui prende avvio la creatività probabilmente è la volontà di superamento di un limite, il quale però viene inserito all’interno di un orizzonte molto più ampio a cui il soggetto aspira.

 

Anita: quali immagini possono ben rappresentare l’atto creativo?

Silvio Di Gregorio: questa domanda mi permette di parlare di un progetto che abbiamo svolto di recente qui nel carcere di Opera. Da più di un anno e mezzo, tutto il pianeta subisce le conseguenze negative dovute alla pandemia e il mondo carcerario, esattamente come ogni altra organizzazione ed istituzione della nostra società, è stato messo a dura prova. In questi ultimi mesi io, i miei collaboratori e i detenuti abbiamo visto crollare tutte le nostre poche certezze. È mutato il modo di vivere e di sperimentare le relazioni, ancor di più all’interno di un carcere in cui, per un lungo periodo, non è stato più possibile far entrare nessuna figura educativa né tantomeno i famigliari dei reclusi.

Il progetto nasce dal bisogno di trovare un nuovo punto di riferimento che ci potesse guidare, una specie di faro nella notte, il quale ci potesse dare la forza per non abbatterci e perseguire per la realizzazione della nostra missione. In linea con questa idea, abbiamo cercato un’opera d’arte che potesse sostenerci nel raggiungimento dei nostri obiettivi e questo prodotto creativo è l’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci, appesa all’ingresso della direzione.

L’ultima cena, Leonardo da Vinci

Ecco credo che quest’opera possa essere ben rappresentativa anche del concetto d creatività. Il quadro raffigura un tavolo intorno al quale ci sono già dei commensali. Le persone sedute al tavolo non rispondono agli stereotipi della collettività dell’epoca a cui il quadro si riferisce, ovvero 2000 anni fa. Ci si aspetterebbe di vedere personaggi prestigiosi; al contrario, qui sono rappresentate persone comuni, che per di più stanno programmando e realizzando un progetto religioso e di vita veramente inusuale, basato su una visione nuova del mondo che, a distanza di 2000 anni, risulta essere ancora ben radicata nel pensiero collettivo.

Oltre che su questo aspetto rivoluzionario, ci siamo concentrati anche sul fatto che solo i posti al di là del tavolo sono occupati, ma potenzialmente si potrebbero aggiungere altre sedie per fare sedere più persone. Io, i miei collaboratori e i detenuti ci sentiamo tutti rappresentati dai commensali già seduti, ma siamo ben felici di accogliere la collettività esterna e di farla sedere con noi al tavolo della creatività.

Sedersi ad un tavolo e cibarsi è una delle azioni più naturali dell’essere umano, durante la quale egli, spinto dal clima di convivialità, gratificazione e piacere, è libero di esprimere la sua personalità e di comportarsi in maniera spontanea. Quindi, far sedere allo stesso tavolo collaboratori, detenuti e collettività esterna, implica la creazione di uno spazio in cui ognuno, proprio in funzione del fatto che si comporta in maniera naturale, crea un legame profondo con gli altri commensali.

Questo incontro profondo di anime e di pensieri permette di conoscere, laddove ci fossero, le reali intenzioni di cambiamento del detenuto, e crea la condizione necessaria per fare in modo che gli vengano offerte delle possibilità di evoluzione concrete. È necessario far sedere a questo tavolo anche la collettività esterna in quanto, la volontà del detenuto di intraprendere un percorso di introspezione e di rielaborazione di tutti i suoi vissuti, è sicuramente una condizione necessaria, ma non sufficiente nel caso in cui la società non sia grado di accettare un cittadino nuovo.

Quindi, dal nostro punto di vista, quest’opera d’arte rappresenta bene la creatività poiché tutti, detenuti, amministrazione e comunità esterna si siedono al tavolo, portano il loro contributo e, dall’incontro delle nostre idee e competenze, nasce un progetto nuovo, talvolta rivoluzionario ed inevitabilmente creativo.

 

Elisabetta: che conseguenze ha l’atto creativo nel rapporto con se stessi e con gli altri?

Silvio Di Gregorio: l’atto creativo stravolge l’immagine della propria persona, sia nel rapporto con se stessi sia con gli altri. Nel rapporto con se stessi permette un arricchimento di carattere personale, consolida la propria autostima, fornisce una percezione di utilità della propria vita e afferma l’immagine di sé. Anche nel rapporto con gli altri la creatività costituisce una possibilità di evoluzione e di crescita personale. Questo perché, quando noi entriamo in relazione con un altro essere umano che è creativo, innovativo e portatore di una ricchezza, veniamo messi nella condizione di potere arricchire anche la nostra persona e lo stesso rapporto con l’Altro.

 

Anita: quanto è importante il riconoscimento degli altri per l’artista?

Silvio Di Gregorio: l’artista ha una responsabilità molto importante in quanto, proprio perché opera ed agisce nell’area di tutto ciò che viene considerato esteticamente bello, è destinato a toccare le corde più delicate dell’essere umano, gli anfratti più profondi che fanno vibrare l’anima delle persone. Quindi l’artista non deve solamente realizzare un prodotto accettabile e comprensibile, ma ha anche la responsabilità di dare vita a qualcosa che sia in grado di colpire nel profondo lo spettatore. Quando il creativo riesce a portare a termine questo compito e a suscitare nel pubblico una reazione di stupore, vive egli stesso una sensazione di appagamento che nutre la sua creatività e gli permette di iniziare un altro progetto creativo.

 

Elisabetta: Esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali fruitori?

Silvio Di Gregorio: Io non penso che ci sia un modo ideale da seguire per interpretare un atto creativo. Se un prodotto è creativo e deve stimolare la fantasia delle persone non è possibile spiegare le funzioni della creatività come se fossero istruzioni per l’uso. La creatività è destinata a toccare ogni singola persona in modo diverso, un po’ come un trattamento: l’artista ci mette il suo ma anche chi si accosta all’opera d’arte deve metterci la volontà di lasciarsi stupire e coinvolgere. Di conseguenza credo che chiunque possa essere destinatario dell’atto creativo.

 

Anita: La creatività ha o può avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Silvio Di Gregorio: Certamente, la creatività ha il compito di ispirare le azioni umane e di spronare le persone ad emulare ciò che è stato visto. La creatività, soprattutto nel campo dell’arte, stimola le persone a spingersi oltre i limiti di quelle che sono le proprie conoscenze ed è un modo per spostare l’asticella sempre più lontano, sia nell’arte che nella cultura generale.

 

Elisabetta: Parliamo dell’atto creativo nelle diverse età. Cosa è per il bambino, per l’adolescente, per la persona adulta?

Silvio Di Gregorio: Io credo che l’elemento che accomuna tutte e tre le fasi sia lo stupore, che è molto evidente nel bambino e meno nell’adulto. Probabilmente se anche l’adulto riuscisse a mantenere vivo il bambino che è in lui e quindi a utilizzare la voglia di scoperta del bambino durante le sue fasi di crescita, potrebbe riuscire a mantenere alta la capacità di stupirsi e di inventare.

 

Anita: e in che modo può incidere nelle relazioni sociali del soggetto?

Silvio Di Gregorio: Approcciarsi a ogni relazione con lo stupore e con la voglia di conoscere, di apprendere è un atteggiamento molto positivo e denota apertura nella relazione con l’altro. Sottolineerei che lo stupore e la voglia di apertura permettono un approccio migliore nel relazionarsi con gli altri e l’arricchimento della relazione stessa.

 

Elisabetta: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Silvio Di Gregorio: Credo che la creatività sia qualcosa che appartiene a tutti, ma necessita di essere allenata come tutte le altre doti e virtù umane. Nell’adulto forse questo senso innato deve essere riscoperto perché molto spesso lascia il posto ad altri tipi di filtro che possono essere la ragione, l’esperienza, la delusione e via discorrendo. La creatività è una dote che ognuno di noi ha e che può essere coltivata e accresciuta attraverso l’allenamento.

 

Anita: A scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

Silvio Di Gregorio: La scuola offre momenti di creatività, soprattutto nei confronti dei più giovani, arricchendo la cultura generale e permettendo di ampliare i propri orizzonti. Non penso che debbano essere dati periodi di tempo aggiuntivi, piuttosto la scuola dev’essere in grado di far percepire agli allievi che attraverso i processi di apprendimento è possibile aumentare la propria creatività. Lo studio deve essere un momento che arricchisce perché offre degli spunti di riflessione che ognuno ha poi il compito di rielaborare.

 

Elisabetta: Pensa che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

Silvio Di Gregorio: Sicuramente, senza creatività non si va da nessuna parte. Sarebbe riduttivo pensare di poter catalogare una persona attraverso caratteristiche fisiche o comportamentali. Attraverso la creatività, infatti, l’uomo si scopre continuamente e ha la possibilità di interrogarsi su se stesso. Non si può definire un’attività più creativa di un’altra, ogni cosa che si fa è creativa. La vita offre in ogni occasione opportunità di crescita e di miglioramento personale continuo: se una persona affrontasse la propria esistenza nell’ottica di migliorarsi probabilmente si arricchirebbe ogni giorno.

 

Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani ed Elisabetta Vanzini

 Silvio Di GregorioInterviste sulla creatività

La bancarella di Viale Papiniano

Sabato 19-06-2021 – Milano

Alice Viola

Adriano Sannino, Maddalena Baù

Adriano Sannino, Alice Viola, Anita Saccani, Elisabetta Vanzini, Roberto Cannavò, Arianna Picco,

Adriano, Alice, Anita, Elisabetta, Roberto, Arianna, Khaled Al Waki

Adriano, Arianna, Elisabetta, Angelo Aparo, Alice, Roberto Cannavò, Anita Saccani

Adriano Sannino, Alice Viola, Arianna Picco, Roberto Cannavò, Elisabetta Vanzini

Fabrizio D’Angelo

Fabrizio D’Angelo – Intervista sulla creatività

Fabrizio D’Angelo è consigliere di Municipio 5 a Milano e, all’interno di questa carica, svolge anche il ruolo di presidente della commissione per la gestione dei rapporti istituzionali tra il municipio stesso e gli istituti di pena presenti sul territorio milanese.

 

Elisabetta: cos’è la creatività?

Fabrizio D’Angelo: Parto da una premessa: L’essenza dell’uomo è costituita da due entità opposte, due facce della stessa medaglia potremmo dire: un lato razionale e uno creativo. In alcuni individui prevale l’aspetto più legato al raziocinio, altri invece si esprimono maggiormente secondo il lato creativo. Dei due tratti innati dell’essere umano, la creatività è quello che lo spinge e lo stimola a costruire, creare e comporre elementi che trova nella realtà. Lo scopo di questa azione creativa è il miglioramento della realtà che ci circonda, così da renderla più confacente alle nostre esigenze.

 

Arianna: cosa fa scattare, come si sviluppa la creatività e in quali condizioni?

Fabrizio D’Angelo: Credo che le condizioni che permettono l’espressione della creatività siano da ricondurre a un generale stato di insoddisfazione, curiosità e voglia di migliorare la propria persona e di crescere sempre. Quando è presente questo stato di insoddisfazione, l’uomo analizza ciò che ha intorno, si ingegna, e da qui cerca di realizzare tutti i prodotti creativi possibili, siano essi immaginari o concreti, con lo scopo ultimo di ottenerne giovamento e per godere del risultato finale. Credo che questo valga quando si tratta di un’opera, un disegno, una scultura, ma anche della realizzazione di un gruppo che si unisce per coltivare gli interessi della collettività o i propri.

D’altra parte, la creatività si contrappone alla spinta alla distruzione. A partire da quest’ultima, non può nascere un prodotto positivo e utile, e in questo senso si può dire che la distruttività esprime il senso negativo delle cose e dei fenomeni.

 

Elisabetta: quali immagini possono ben rappresentare l’atto creativo?

Fabrizio D’Angelo: trovo che sia molto difficile per me, individuo maggiormente legato al lato raziocinante, trovare un’immagine che possa ben calzare con l’atto creativo. Comunque, l’atto creativo mi fa pensare a qualcosa che nasce dall’unione e dalla composizione di tutti gli elementi che, secondo l’autore, sono necessari per raggiungere il risultato finale. In concreto, mi immagino la tela bianca di un quadro che, man mano che il creativo procede, si riempie dei colori e delle immagini che egli vuole comporre, fino a raggiungere la raffigurazione finale che si era prefissato.

 

Arianna: che conseguenze può avere l’atto creativo nel rapporto con se stessi e con gli altri?

Fabrizio D’Angelo: dato che la creatività nasce da uno stato di insoddisfazione, una volta che l’autore realizza il suo atto creativo vive una sensazione di appagamento, di soddisfazione e di piacere e, di conseguenza, si sente in pace con gli altri e con il mondo che lo circonda. Tale pace interiore deriva dal fatto che si è riusciti a raggiungere l’obiettivo che ci si era prefissati, lasciando la propria creatività libera di esprimersi.

Sicuramente si può creare anche all’interno di un percorso caratterizzato da regole che vanno rispettate e da un percorso a priori prestabilito. Tuttavia, quello che ne consegue sarà solo un benessere relativo, in quanto derivante da un contesto in cui l’autore non ha avuto modo di esprimere tutto il suo estro creativo e ha dovuto rispettare ciò che gli altri gli hanno imposto di fare.

 

Elisabetta: quanto è importante il riconoscimento degli altri per l’artista?

Fabrizio D’Angelo: il riconoscimento degli altri è fondamentale, in quanto l’arte fine a se stessa è sterile. Sicuramente la creazione di un’opera creativa soddisfa il suo autore ma è una fonte di appagamento non profondo come potrebbe esserlo quando c’è anche il riconoscimento degli altri.

 

Arianna: esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali destinatari?

Fabrizio D’Angelo: è il creatore che decide il modo ideale di fruire del prodotto creativo. È egli stesso a stabilire il modo in cui si utilizza l’oggetto da lui creato.

Inoltre, l’autore ha anche il dovere di educare alla comprensione e all’apprezzamento dell’opera il pubblico che ne fruirà. Pensiamo ad esempio ai Promessi Sposi. Il messaggio che l’opera tramanda e le varie identità dei personaggi sono stati stabiliti da Manzoni. Vero è che il lettore può dare in minima parte una sua interpretazione personale, ma fino ad un certo punto, in quanto l’identità, la personalità e le vicende dei personaggi sono già state date dall’autore.

Anche i destinatari del prodotto creativo vengono individuati dal creatore stesso. Egli assegna una funzione alla sua opera e, in conseguenza ad essa, vengono definiti anche i destinatari.

Tuttavia, non tutti siamo nella condizione di poter apprezzare un’opera creativa, che sia un dipinto o un ponte. Per esempio, io fruisco del ponte ma, non avendo conoscenze che mi permettano di apprezzare l’opera ingegneristica che vi è alla base, ne fruisco da mero utilizzatore. L’utilità del ponte, quindi, termina nel momento stesso in cui esso viene utilizzato. La responsabilità della persona che crea è anche quella di educare i destinatari all’utilizzo, alla comprensione e all’apprezzamento della sua opera.

 

Elisabetta: la creatività ha o può avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Fabrizio D’Angelo: sicuramente la creatività ha una funzione ed è quella di aiutare a comprendere meglio e ad organizzare la società. Avere in mente un progetto o un’idea è già esso stesso un atto creativo. Senza la creatività, noi esseri umani non avremmo modo di immaginare e di comprendere come è organizzata la nostra società e come si dovrebbe svolgere la nostra vita dalla mattina alla sera, all’interno del contesto che condividiamo con altre persone.

Questo concetto può poi essere ristretto ai campi più specifici dell’arte. Pensiamo alle arti figurative: il fatto di essere appassionati alla pittura permette di avere una visione e un pensiero su di essa, ed è proprio questa visione che rappresenta l’atto creativo vissuto interiormente dalla persona.

 

Arianna: parliamo dell’atto creativo nelle diverse età: cos’è per il bambino, per l’adolescente e per la persona adulta?

Fabrizio D’Angelo: nel bambino la creatività è assenza di regole, è essere sé stesso. Nell’adolescente è una lotta continua tra razionalità e creatività, è fare ciò che si sente e ciò che le regole gli impongono. Nell’adulto invece è scoprire chi realmente si è: se ho deciso di essere un creativo, un razionale, oppure né uno né l’altro e sconfino nel distruttivo e nell’irrazionale perché non creo né costruisco e non rispetto le regole della società.

 

Elisabetta: in che modo l’atto creativo può incidere nelle relazioni sociali del soggetto?

Fabrizio D’Angelo: In modo estremamente positivo. Ho contrapposto l’atto creativo alla distruzione. La distruzione affonda la sua logica nell’assenza del rispetto delle regole; il fondamento della distruzione è il disprezzo verso sé stessi, infatti se si distrugge, prima di ledere gli altri si lede sé stessi. La creatività presuppone che oltre ad avere l’idea, si abbia la forza di metterla in atto; inoltre, la creatività è rispetto delle regole. Se si ha coscienza dell’impegno che presuppone l’atto creativo non è possibile non avere rispetto per la creatività degli altri: l’elemento fondamentale della società è il rispetto degli altri perché si ha la percezione dell’altro, del suo impegno e delle sue capacità.

 

Arianna: la creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Fabrizio D’Angelo: Io credo che alcune persone abbiano il dono naturale della creatività e in altre invece prevalga la parte razionale. Questo però non significa che non si possa diventare creativi, occorre crescita, educazione alla creatività.

Personalmente, cerco di portare avanti di pari passo il mio lato creativo con il mio lato razionale. Credo che l’obietivo fondamentale della nostra società sia stimolare l’arte e la creatività dentro di noi.

 

Elisabetta: a scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

Fabrizio D’Angelo: la scuola oggi è solo un indottrinamento di concetti in versione sterile, con una prevalenza nelle verifiche di quiz che non danno la possibilità di esprimersi; questo soffoca la creatività, la capacità espressiva. Oggi la scuola è un atto amministrativo che non consegna un nuovo cittadino con una giusta percezione di sé e degli altri e con un’educazione artistica e civica. La scuola dovrebbe educare gli alunni ad apprezzare dell’arte, del bello e della creatività, al fine di favorire il progresso e lo sviluppo della società.

 

Arianna: pensa che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

Fabrizio D’Angelo: Il condannato ha compiuto un atto che va contro la società, non ha percepito il bene e ha leso il prossimo. Tornando al discorso che facevo poco fa, se una persona non ha voluto essere costruttiva, ha leso un bene ed è stata distruttiva, questo è avvenuto perché non aveva una sua percezione della creatività e il conseguente rispetto di sé stesso e degli altri; per questi motivi, penso che attraverso la creatività egli possa imparare a non ledere più a nessuno.

L’educazione alla creatività è un ottimo atto di prevenzione a monte (motivo per cui ripeto che occorrerebbe farla nelle scuole); è prevenzione ai nuovi delitti in cittadini che prendono consapevolezza di sé stessi e degli altri.

Intervista ed elaborazione di
Elisabetta Vanzini e Arianna Picco

Fabrizo D’Angelo FacebookInterviste sulla creatività

Alessandro Giungi

Alessandro Giungi – Intervista sulla creatività

Alessandro Giungi è Consigliere Comunale presso il Comune di Milano. Ha scritto un libro in cui racconta in modo ironico come poter fare una campagna elettorale con pochi mezzi e ci ha raccontato di come abbia sempre cercato di essere creativo nella sua azione politica.

Arianna: cosa fa scattare la creatività e in quali condizioni?

 Alessandro Giungi: non c’è una ricetta, occorre avere una propensione, una condizione innata, però questo non significa che chi non nasce con una dote creativa non possa poi fare una vita creativa; deve cercare il suo spazio creativo, che può anche trovare in una occupazione come la politica. Ognuno nel suo campo può essere creativo. La ripetitività toglie ogni tipo di bellezza a qualunque lavoro. Nessun tipo di lavoro può essere bello senza una dose di creatività.

 

Ottavia: le viene in mente un’immagine che possa rappresentare l’atto creativo?

 Alessandro Giungi: la lampadina che si accende: un momento in cui improvvisamente c’è un’illuminazione e si trova una soluzione grazie alla creatività. La creatività la vedo come un momento di illuminazione.

 

Arianna: che conseguenze può avere l’atto creativo nel rapporto con sé stessi e con gli altri?

 Alessandro Giungi: quello che si riesce a risolvere con creatività porta soddisfazione a sé stessi e permette di aprire nuove prospettive anche per altre persone. Intuizione e creatività viaggiano in parallelo e si intersecano: creatività è l’intuizione che ti permette di risolvere qualcosa che prima non era risolvibile. La creatività può nascere anche dal lavoro di squadra, come ad esempio nella politica: non è solo una qualità del singolo.

 

Ottavia: quanto è importante il riconoscimento degli altri per l’artista?

 Alessandro Giungi: è molto importante, il riconoscimento aiuta molto. Avere dall’altra parte un riscontro negativo o di indifferenza è brutto. La creatività deve comunicare qualcosa agli altri. Ci sono stati casi in cui persone creative sono state riconosciute a distanza di anni, ma sono casi eccezionali, io credo che sia importante il riconoscimento in vita da parte degli altri.

 

Arianna: esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali destinatari?

 Alessandro Giungi: la creatività può essere anche qualcosa di personale, una persona può essere creativa anche nel proprio agire quotidiano. Del resto, l’opera creativa è negli occhi di chi la guarda. La creatività deve essere portata anche agli occhi delle altre persone. L’atto creativo viene portato a conoscenza di chi vuole leggere un libro, sentire una canzone. Io credo che anche i più grandi matematici siano stati persone creative: le formule matematiche hanno portato a PC, telefonini. Il singolo atto creativo può innescare una serie di passaggi che portano ad altri atti creativi.

 

Ottavia: la creatività può avere una funzione sociale?

 Alessandro Giungi: Certo. Sia dal punto di vista ludico che artistico: la persona che compone un’opera, un libro, risolve un problema sociale con creatività è fondamentale, sia nel caso in cui permette di risolvere problemi sia quando permette di vivere momenti piacevoli agli altri. In politica, ad esempio, si possono avere delle intuizioni creative da applicare alla società: ad esempio, ho avuto l’idea di applicare in Italia un’idea francese di un frigorifero solidale nei supermercati da cui le persone più bisognose possano prendere del cibo.

 

Arianna: Parliamo dell’atto creativo nelle diverse età. Cos’è per il bambino, per l’adolescente e per la persona adulta?

 Alessandro Giungi: L’atto creativo è trovare una soluzione che non era mai stata pensata e che si rivela efficace, quindi non riguarda necessariamente un prodotto materiale. Ad esempio, può essere la soluzione innovativa e creativa ideata da un bambino per risolvere un problema di matematica. Infatti, credo che le insegnanti assistano a diverse risposte creative da parte dei bambini. Per fare un esempio, alla richiesta di disegnare il mare, un bambino potrebbe non disegnare la solita striscia azzurra bensì un mare in tempesta, qualcosa di inusuale. Creatività significa non dare per scontato che la strada più facile e più seguita sia l’unica percorribile. Chi è creativo ha un’idea e segue una strada diversa.

Quando ero all’asilo, ci venne chiesto di disegnare, colorare e tagliare degli angeli e io ne feci uno con un braccio molto più lungo dell’altro: si trattava di un semplice errore ma veniva visto come un gesto creativo. La creatività è anche negli occhi di chi guarda ed è qualcosa di molto personale.

Sicuramente è diverso essere creativi per lavoro, credo sia più difficile e frustrante rispetto a chi lo fa per puro piacere. Anche la tesi è un atto creativo, la mia verteva sul diritto dell’Unione Europea. Infatti, all’epoca ci fu la sentenza Bosman sulla libera circolazione degli sportivi professionisti all’interno dell’Unione Europea. Ritengo sia stata una tesi creativa perché mi sono servito anche della Gazzetta dello Sport e di altri testi non convenzionali per parlare di questo tema. Ero felicissimo della mia tesi perché è stata una tesi creativa, cosa che è stata riconosciuta anche in sede di discussione. Penso che la tesi sia uno dei primi atti di creatività, come lo è anche la scelta del titolo. Sono occasioni di creatività anche i temi scolastici, in cui bisogna elaborare e scrivere una storia, e le attività sportive.

 

Ottavia: A scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

 Alessandro Giungi: In qualità di vicepresidente della commissione Educazione, vi riporto un’iniziativa molto creativa avvenuta recentemente. Vicino alla scuola dei miei figli c’è un giardino con un’area giochi che, grazie a una mia richiesta, è stato riqualificato. A seguito delle attività di riqualifica, il giardino andava titolato, allora si è pensato, durante il lockdown, di fare un sondaggio per decidere a chi dedicare questa area giochi. È stato fatto il sondaggio per mail con tutti gli studenti della scuola media dando cinque possibilità e a vincere è stata la figura di Rosa Parks, nome che venne approvato in consiglio comunale. Sono stati fatti anche un murales dedicato a Rosa Parks e un filmato, atto che definirei sia creativo sia politico. L’atto creativo è stato quello di coinvolgere la scuola.

 

Arianna: Pensa che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

 Alessandro Giungi: Sono un avvocato e sono stato Presidente della Commissione Carceri quindi mi sento di precisare che l’attività di recupero del condannato dipende anche dal tipo di pena. Credo che la messa alla prova sia un istituto importante che ha visto un apporto creativo da parte del legislatore nella decisione che, in alcuni casi, si possa evitare il processo. Evita la condanna e porta a qualcosa di utile per la società. Per quanto riguarda invece i detenuti, ho visto attività come il teatro e la scrittura creativa. Non posso che essere entusiasta di un laboratorio di scrittura di poesia nelle tre carceri milanesi. Secondo me la messa alla prova e tutte le misure che non fanno andare in carcere sono importanti perché sono di aiuto e di supporto per l’elaborazione del reato.

Lo dice la Costituzione stessa che la pena deve avere una funzione rieducativa e il carcere non viene nemmeno citato. Affinché la pena sia educativa è necessario ricorrere anche alla creatività. Il detenuto va coinvolto. I lavori socialmente utili per persone che hanno guidato in stato di ebrezza mettono in contatto con dei mondi che altrimenti non conoscerebbero, come i tossicodipendenti. Credo che le misure alternative al carcere siano utili per prevenire la recidiva. Se metti una persona in una cella chiusa e non gli fai fare niente, non avrà stimoli per non commettere un altro reato. Nel libro “Di cuore e di coraggio” scritto dal direttore del carcere di San Vittore, Giacinto Siciliano, si parla molto bene di come “salvare” il detenuto dalla possibilità di ricommettere un reato, anche nei casi apparentemente irrecuperabili.

Intervista ed elaborazione di
Ottavia Alliata e Arianna Picco

Alessandro Giungi – A. Giungi Facebook – Interviste sulla creatività

Francesco Scopelliti

Francesco Scopelliti – Intervista sulla creatività

Francesco Scopelliti è psicologo psicoterapeuta, direttore del Ser.D in Area Penale e Penitenziaria e responsabile dell’unità operativa dei Ser.D nel carcere di Bollate e nel Tribunale di Milano. È altresì professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano. Come dice egli stesso, il suo ruolo è per definizione istituzionale e poco creativo perché gli interventi sono regolamentati in maniera molto rigida dall’ASST Santi Paolo e Carlo, ospedale per cui lavora. In questi contesti le prestazioni devono essere standardizzate e riconducibili ai livelli assistenziali minimi (LEA), perciò gli aspetti creativi sono poco praticabili proprio perché non riconosciuti. Fino a qualche anno fa si poteva godere di maggiori margini di creatività poiché era consentita l’ideazione di programmi trattamentali che includevano il teatro, il cineforum, lo yoga, ecc., attività socio-educative meno standardizzate. Allo stato attuale, una delle attività più creative è il trattamento che ha luogo a “La Nave”, reparto di trattamento avanzato volto alla cura e al recupero di detenuti tossicodipendenti presso il carcere di San Vittore. Si tratta di un tipo di trattamento particolarmente originale, unico in Italia, che vede aspetti innovativi come l’autogestione del reparto quasi a custodia zero.

 

Gloria: Cos’è per lei la creatività?

 Francesco Scopelliti: Per me la creatività è un piacere, un orgasmo, è un modo per percorrere dei piaceri che possono presentarsi sia a livello del pensiero, del sogno, sia attraverso l’azione. Per me la creatività riguarda comunque la massima soggettività, ad esempio l’ideazione di soluzioni creative che non necessariamente sono funzionali o risolutive.

 

Ottavia: Come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Francesco Scopelliti: Credo che siamo tutti più o meno creativi, anche chi nega di esserlo. Per me la creatività è contestualizzata, a seconda dei momenti: a volte è soprattutto azione, manipolazione e cambiamento di oggetti e dell’ambiente che mi circonda; altre volte la riconduco soprattutto al pensiero, alla immaginazione. Mi capita di avere delle fantasie che si riferiscono a dei miei hobby e che, attraverso il pensiero, cerco di amplificare, in modo da modificare gli spazi e i contesti dell’immagine nella mia mente. È più facile pensare una cosa del genere piuttosto che tradurla in azione.

Ho bisogno di colmare la rigidità propria del mio lavoro istituzionale, perciò quando posso, amo passare il mio tempo in movimenti e azioni che reputo creativi. Ad esempio, adoro il riutilizzo o il recupero dell’oggetto morto o inutilizzato, cerco di portarlo a essere usato in forme e funzioni differenti. Mi piace collocare un oggetto che di norma si trova in un determinato spazio e in una certa dimensione in altri spazi e dimensioni a prescindere dai risultati che otterrò. Infatti, per me la creatività non è qualcosa di funzionale in termini di tempo, spazio e costi. Posso lavorare cinque ore di fila su un oggetto spendendo molto tempo e denaro a fronte di un risultato che potrebbe essere sostituito dall’acquisto dello stesso oggetto con pochissimi soldi. Certamente mi fa piacere che alla creatività possa corrispondere un risparmio di tempo e di denaro ma non è certamente questa l’essenza della creatività.

Uno dei miei hobby è il mio garage dove ci sono moltissimi elementi e materiali, che si possono coniugare tutti tra di loro: la falegnameria con la fusione del metallo, la parte elettronica con quella meccanica. A queste attività manuali seguono a volte risultati modesti ma costituiti da elementi sempre in interazione tra di loro. Ad esempio, alcune parti della mia moto sono diventate un sedile perché in quel momento era ciò di cui avevo bisogno.

Ho costruito questo sedile con la base di un’altra sedia, con alcuni avanzi delle travi di un tetto e dello scaffale di una libreria. Per quanto riguarda il risultato, non mi chiedo nemmeno se sia bello, brutto o se sarà longevo perché magari un giorno potrei volerlo ritrasformare, ad esempio, in un tavolino. Un altro esempio è quello della lavatrice a cui ero molto affezionato e che alla fine sono stato costretto a buttare. Per anni ero riuscito a farla resuscitare costruendo diversi motori quasi con un accanimento terapeutico perché mi dispiaceva l’idea di buttarla. Credo che questo sia il mio legame con la vena artistica. Ciò che mi interessa, a prescindere dal risultato finale, è il pensiero che vi sta dietro.

 

Gloria: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo la produzione creativa?

 Francesco Scopelliti: È un piacere puro. In termini evolutivi, reputo la creatività una delle più importanti essenze della vita. Senza la creatività non ci si evolve da un sistema. Penso che l’uomo sia più creativo rispetto ad altre specie, per quanto il regno animale non sia esente da processi creativi. La creatività soggettiva è quella che però mi interessa di più, che ognuno ha e si attribuisce e che consente di interagire, per esempio, con un piatto di pasta: dal modo in cui si inforchetta la pasta, a cosa si mangia prima e cosa dopo. Sono tutti aspetti che fanno parte di un’interpretazione soggettiva dell’ambiente, di una traduzione del proprio modo d’essere attraverso lo sguardo e i movimenti.

 

Ottavia: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé stesso?

 Francesco Scopelliti: Per me incide molto perché l’immagine è qualcosa che ci rappresenta…  dall’atteggiamento, all’abbigliamento al modo di parlare. Anche essere vestiti in un certo modo, magari meno attento e adeguato rispetto ai canoni del contesto, fa parte dell’essere creativi: è più facile conformarsi con la giacca e la cravatta piuttosto che mettersi dei jeans bucati. È un tentativo di maggior creatività, per quanto mal riuscito.

Per me la creatività non ha legami col risultato e con la bellezza del prodotto. Io odio finire le cose, tutto ciò che faccio non è mai finito: uno scritto, un oggetto, un pensiero. La fine corrisponde a una tristezza, a una morte, a una perdita che si traduce in un abbandono. Tutta la mia vita è colma di cose non finite. Al tempo dell’informatizzazione, amavo modificare e creare computer e tutt’ora mi piace farlo. Una volta il prof. Aparo mi portò a casa un computer nuovo e io ne interpretai il cambiamento, perciò con un cacciavite e altri strumenti lo modificai completamente rendendolo plurifunzionale, con molte più funzioni rispetto a prima… esteticamente era molto meno bello di prima ma non avrei mai potuto finirlo perché è una modalità che non mi appartiene. Oltretutto, quando un oggetto è finito, si pone al giudizio dell’altro, mentre se è incompleto mi sento giustificato per le sue imperfezioni.

 

Gloria: Nel rapporto con gli altri, che cosa determina il suo atto creativo?

 Francesco Scopelliti: Fino a pochi anni fa, la mia creatività, anche quella del pensiero, richiedeva fortemente il riconoscimento altrui mentre con gli anni ho imparato a godere principalmente in prima persona del mio atto creativo. Con l’età c’è stata una sorta di rivoluzione in questo senso, sono sempre più consapevole che la creatività sia qualcosa che mi fa sentire vivo e che mi dà piacere. Ora la mia creatività è una dimensione più personale e privata, ma rimane comunque una forma di comunicazione che solitamente necessita dello sguardo dell’altro.

Ottavia: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Francesco Scopelliti: Al momento sono io stesso il principale fruitore del prodotto creativo, però lo sono anche le persone con cui ho un legame affettivo e con le quali ho bisogno di ribadire la mia identità. Non mi è mai appartenuta una comunicazione sfrontata della mia eventuale creatività: la reputo l’espressione di un’intimità, perciò mi sento infastidito dalle intrusioni che provengono dal di fuori rispetto al mio mondo relazionale e affettivo. In generale invece, credo che la creatività, in qualità di essenza della vita, sia un elemento comunicativo trasversale. La creatività permette l’evoluzione e la crescita, a prescindere che avvenga attraverso la produzione musicale o attraverso la scoperta di una formula chimica. La creatività rivolta all’esterno, inoltre, permette il passaggio dalla caverna all’attuale casa riscaldata. Tuttavia, non sempre la creatività è qualcosa di positivo: le guerre sono la testimonianza di una creatività distruttiva. Anche il virus ha una modalità di espressione creativa: muta per contrastare il vaccino, creando nuove sotto-dimensioni. È interessante osservare l’evoluzione della pandemia anche dall’altra prospettiva: se il virus non fosse creativo, sarebbe morto. È importante anche che vi sia una componente di intelligenza perché senza questa non c’è creatività. Anche le piante possono essere creative perché cambiano per adattarsi all’ambiente circostante.

 

Gloria: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Francesco Scopelliti: Mi viene in mente qualcosa di astratto… il pensiero. Al momento è la sede elettiva della mia creatività perché certi pensieri non possono tradursi in azioni per diversi motivi legati a vincoli esterni. Qualche anno fa non avrei mai provato piacere attraverso il pensiero mentre col tempo mi sono reso conto che la casa della mia creatività è proprio il pensiero perché supera la materia e le possibilità dell’agire. Nei luoghi della mente la creatività può fare cose incredibili regalando piaceri altrettanto grandi. Questo permette a persone con patologie e deprivazioni di esperire una realtà immaginativa che può apportare miglioramenti alla qualità di vita. Per fare un esempio, una persona paraplegica può scegliere di interrompere il suo percorso di vita oppure può scegliere di vivere in un mondo “parallelo” fatto di creatività e pensiero, dando così significato alla propria esistenza.

Anche un detenuto può essere supportato dal pensiero creativo, essendo in uno spazio di deprivazione e interruzione di molte attività e affetti. Accompagnare la persona a sviluppare percorsi creativi è qualcosa di clinicamente valido, è una forma di esercizio che fornisce le basi per una ripartenza.


Grammofono del 1890, restaurato da Francesco Scopelliti e oggi perfettamente funzionante

 

Ottavia: Pensa esista una relazione tra depressione e creatività?

Francesco Scopelliti: Assolutamente sì, la creatività può produrre pensieri, azioni o situazioni che viviamo come drammatiche, come la delusione delle nostre aspettative. Come dicevo prima, uno potrebbe avere una determinata idea ma potrebbe non possedere i mezzi per metterla in atto e questa impossibilità può determinare risposte di tipo depressivo. Quando un clinico cerca di stimolare il pensiero e la progettualità futura di un detenuto deve stare attento a farlo stare con i piedi per terra perché la fiducia nelle proprie risorse creative potrebbe diventare eccessiva e condurre alla megalomania, causando delusioni e cadute all’indietro. Mi è capitato di parlare con detenuti che avevano dei pensieri e delle speranze che però si scontravano radicalmente con le risorse effettive che avrebbero incontrato una volta usciti dal carcere.

 

Gloria: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Francesco Scopelliti: Si, sicuramente! La creatività è la trasmissione di un punto di vista e di un pensiero, perciò ha una funzione sociale. Inoltre, la creatività può coinvolgere il singolo ma può anche essere praticata in contesti di gruppo: persone con diverse competenze si possono unire per produrre o per apportare cambiamenti in un contesto. Insieme, con le diverse abilità e predisposizioni, si può dar vita a un prodotto creativo; oppure, può essere il singolo individuo ad avvalersi delle competenze altrui. Ad esempio, se la mia moto ha un guasto (e io non ho intenzione di portarla dal meccanico), mi avvalgo di video su YouTube per trovare dei consigli sul come ripararla. Per essere creativi bisogna anche studiare, allenarsi, “perderci” molto tempo. Creatività è anche assorbimento delle produzioni altrui.

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

 Francesco Scopelliti: La creatività è accessibile a tutti, è un esercizio, è uno dei percorsi possibili della mente umana. Poi il risultato e la bellezza del prodotto creativo sono un giudizio soggettivo, ma sicuramente è una caratteristica appartenente a tutti. Anche nascere e vivere in un contesto creativo, di artisti, è un forte predittore dell’utilizzo della creatività e del suo successivo allenamento.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

 Francesco Scopelliti: Sì e, anzi, deve proprio averla. Purtroppo, i servizi da noi erogati non sono creativi perché questo ci impongono le istituzioni. Tutti sappiamo che il carcere è inutile e svantaggioso sia per il detenuto sia per la società. La colpa per la mancanza di creatività e innovazione viene data alla politica, quando invece il problema è di matrice culturale. Pur essendoci da anni un pensiero innovativo in merito alla situazione carceraria, i cambiamenti non vengono attuati, perciò è riduttivo additare la colpa ai politici. Essere creativi significa andare al di là delle regole, trasgredire, mettersi di fronte al giudizio degli altri col rischio di essere sanzionati rispetto a dei risultati considerati come non validi. Quando esercito la mia professione mi nascondo dietro il mio ruolo istituzionale per non mettermi in gioco perché di mezzo c’è anche la mia posizione. Credo che le regole che ci diamo siano rivolte alla necessità di consolidamento della nostra identità. Purtroppo, al fine di assolvere a una funzione prestabilita, non ci si mette in discussione. Cambiare le regole significa cambiare la partita, cambiare i ruoli e rinunciare al proprio ruolo non è cosa facile.

Intervista ed elaborazione di
Ottavia Alliata e Gloria Marchesi

 Francesco ScopellitiInterviste sulla creatività