Il pre-partita

allenatore (7 anni): “allora, da dove vuoi iniziare?”

pubblico ministero (48 anni): “beh, che sia una cosa seria perchè se poi perdiamo la partita mi tocca dormire in carcere…”

allenatore: “perchè, se invece vincono i detenuti escono?”

 

La partita a bordo campo

Mangem in strada

L’invito è in Milanese, ma mi sento in dovere di puntualizzare, soprattutto a beneficio di chi fa il tifo per la Lega, che a far da mangiare sono detenuti ed ex detenuti del Gruppo della Trasgressione. Fra questi, uno viene dalla Siria, Khaled Al Waki; un altro, Isaia Schena, viene da Bergamo e ha un nome che fa pensare agli Ebrei.

Ciao Paolo

 

Ciao Paolo. Ho letto l’altro ieri l’articolo su Il Giorno e nel frattempo, grazie a Marisa Fiorani, ho messo a fuoco che oggi ricorre l’anniversario della morte del Gen. Dalla Chiesa, di tua sorella Emanuela e dell’agente Domenico Russo. Dopo il gruppo mi unirò anch’io agli ospiti presenti alla commemorazione organizzata da Libera.

Quello che hai detto ad Andrea Gianni “non chiedo un pentimento, ma l’inizio di un percorso e… vedere crescere in loro tracce di umanità che loro stessi non pensavano di avere” sintetizza quello che cerchi tu e altrettanto bene quello che cerchiamo al Gruppo della Trasgressione.

Non ci siamo mai fatti dichiarazioni di appartenenza o di comunione di intenti, ma da più di un anno viaggiamo insieme e sarà un piacere, appena rientri in Italia, dedicarci ai tanti progetti che abbiamo in cantiere.

Ti abbraccio anche a nome del gruppo Trsg, dove hai oramai un posto fisso.

Juri

 

 

 

 

 

 

Siamo persone

Lo scorso 5 giugno 2019 il Gruppo della Trasgressione ha avuto, grazie alla collaborazione con la direzione di Opera, un incontro con i detenuti e i loro famigliari, come si è soliti fare ogni anno.

Lo scopo primario della ricorrenza è quello di mostrare a mogli, figli e persone care il percorso che il detenuto può compiere all’interno dell’istituto penitenziario quando gli vengono date le possibilità e, soprattutto, gli strumenti per farlo. La giornata intendeva dare spazio all’evoluzione di tutti i detenuti che fanno parte del gruppo, ma questa volta è stato preso Vito Cosco come emblema del cammino collettivo.

Cosco è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Lea Garofalo e sta scontando la sua pena nel carcere di Opera. Quel giorno è stato invitato a rendere pubblico il testo che aveva portato al gruppo la settimana prima, uno scritto impegnativo che parla, pur se contraddittoriamente, di pentimento, evoluzione, valori appresi, di sofferenza, di silenzio protratto per anni, di condanna, di odio, di mancanze.

In merito a quella giornata, sono state scritte considerazioni da parte di detenuti, del coordinatore del gruppo Angelo Aparo, di Elisabetta Cipollone e anche della moglie di un detenuto. Penso sia importante fare attenzione a ogni osservazione, frutto dell’emozione con cui ognuno dei presenti ha vissuto quella suggestiva giornata. Spero che anche la mia possa dare un contributo e fornire uno spunto di riflessione.

Oltre che come componente del gruppo, io parlo qui in veste di figlia di un detenuto. Mio padre ha scontato diverse condanne penali in passato. Ho vissuto la realtà del carcere relazionandomi con detenuti fin da piccola, ma nutrendo una curiosità per questo mondo deviante, verso il quale si è soliti provare repulsione.

Leggendo lo scritto di Vito, per me è stato impossibile non attribuire quelle parole a mio papà, anche se, purtroppo, non le ho mai sentite dalla sua bocca.

Ha scontato le sue pene nel carcere di Novara, dove non sono presenti iniziative come quelle del Gruppo della Trasgressione; al contrario, i detenuti si limitano ad attendere il giorno del fine pena, ammesso che la loro condanna lo preveda. Con il susseguirsi delle carcerazioni ho visto mio padre cambiare, chiudersi; perfino il suo sguardo è diventato più spento, arrabbiato.

Credo che questo sia uno dei problemi più grandi del nostro paese. Ogni detenuto dovrebbe avere la possibilità, indipendentemente dalla gravità del reato commesso, di ricevere una rieducazione, un sostegno e un ascolto, anzitutto per riflettere sulle proprie azioni e per ritrovare la propria coscienza e, in secondo luogo, per affrontare in modo costruttivo la restrizione della libertà imposta dal sistema carcerario. La limitazione della libertà, seppur nella sua legittimità e correttezza, comporta infatti un cambiamento drastico nella vita della persona e credo che bisognerebbe dar loro i mezzi giusti per poterlo affrontare.

Se ciò non accade, il condannato, una volta fuori, non si sarà arricchito e nutrito di nulla e la stessa carcerazione si sarà rivelata inutile, anzi, circostanza aggravante alle condizioni già instabili del detenuto. Aumenterà inoltre la probabilità di commettere ulteriori atti devianti e di subire altre condanne, così come è successo a mio padre.

Ogni istituto penitenziario dovrebbe avere un Gruppo della Trasgressione, che accoglie tutti perché indipendentemente dalle azioni, al gruppo partecipano le persone. Durante gli incontri al gruppo, infatti, non ci focalizziamo sui reati commessi; io stessa non so nulla sulle ragioni per cui i detenuti si trovano ora a scontare le loro pene, ma poco importa. La nostra attenzione si rivolge ai valori che prima guidavano il condannato nella sua devianza e a come questi possano cambiare, divenendo così valori di umanità, cooperazione, moralità.

Quel giorno, mi sono rivolta a Christopher, figlio tredicenne di Vito, che come me ha vissuto il mondo carcerario fin da piccolo ma non per sua scelta. Mi sono sentita di suggerire a Christopher di non limitarsi a considerare suo padre per ciò che ha fatto, ma di provare a guardarlo per ciò che è oggi e per il percorso introspettivo che compie ogni giorno.

E se riescono i parenti di vittime ad assumere questa prospettiva incentrata non sul reato ma sulla persona, credo che tutti possano provare ad adottarla, o almeno questo è lo scopo che mi pongo come membro orgoglioso del Gruppo della Trasgressione.

Valentina Marasco

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Il tavolo del Gruppo della Trasgressione

Giuseppe Amato

Nota
Il 50’ anniversario dell’uomo sulla luna ha coinvolto anche il Gruppo della Trasgressione nelle carceri di San Vittore, Opera e Bollate. Ne è nata una domanda sulla velocità di caduta sulla luna di una palla di piombo e di una piuma. Ci siamo chiesti cosa arriverebbe prima al suolo se le lasciassimo cadere insieme. Ognuno ha trovato un proprio modo di sbagliare la risposta. Pino Amato ne ha individuato uno decisamente giocoso.

Ci si può anche chiedere a cosa servano queste domande in un gruppo che ragiona sulla devianza, sulla coscienza esiliata, sul piacere della responsabilità. Forse è un modo per divagare, per incuriosire, una traccia per imparare a giocare.

Chi gioca viene preso in una trama; se qualcuno ne assapora il gusto,  egli proverà a passare, nella ragnatela, da mosca prigioniera a ragno che tesse una propria tela.

E intanto che va avanti, la trama si infittisce, le relazioni si ramificano. Per questo al gruppo si gioca in tanti modi, a volte anche al gioco di Nim.

Non si può dire che tutto si risolva; si comincia a entrare comunque nella rete urbana, quella nella quale, con le difficoltà del nostro tempo, ci muoviamo noi tutti.

Giocando, di certo si impara a dubitare, a innaffiare le domande invece che a seppellirle, a chiedersi quando ha avuto inizio quello che per un certo tempo era sembrata una spada in nostro pugno per farci strada nel mondo e che presto è diventata la corrente che trascina in un gorgo profondo.

Angelo Aparo

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La coscienza che abbiamo esiliato

Ho seguito, per come ho potuto, gli sviluppi della lettera di Vito Cosco; ho letto alcune reazioni dei giornali e le riflessioni dei miei compagni. Anche se in questo periodo non posso frequentare fisicamente il tavolo del gruppo, credo che Vito, durante l’incontro del Gruppo della Trasgressione con i parenti, abbia voluto comunicare il proprio senso di colpa a tutti i suoi familiari e in particolar modo al figlio di 13 anni, anche loro vittime del suo delirio e degrado morale.

C’e da dire che gli incontri del gruppo insieme ai nostri familiari, tenuto conto della nostra totale esclusione dalle loro vite e dal contesto sociale, costituiscono per noi detenuti una opportunità fondamentale per farli partecipare alla nostra vita, al nostro percorso di ravvedimento e un’occasione per consegnare loro la nostra crescita, la nostra emancipazione morale dall’abisso in cui eravamo precipitati con i nostri delitti.

Durante la mia lunghissima detenzione, per anni sono stato impegnato in attività scolastiche che mi hanno portato anche a conseguire un diploma. Ne ero fiero. Ero l’unico della mia famiglia in possesso di un titolo di studio. Ma devo ammettere che grazie al percorso col Gruppo della Trasgressione mi sono reso conto che, pur sapendo leggere e scrivere, avevo mantenuto un analfabetismo morale, funzionale ed emotivo.

Cresciuto e nutrito all’interno di una sub-cultura di violenza e di sopraffazione, ne sono rimasto contaminato e con me i miei ideali e gli obiettivi della mia adolescenza. A quel punto, quand’anche vi fosse stato il  “pulsante rosso”  era ormai troppo tardi; lo avrei comunque ignorato, evitato, eclissato.

I figli crescono e insieme a loro crescono le conseguenze del nostro operato; e così, mentre attorno a noi alimentiamo catene di degrado e di emarginazione, crescono anche quelle domande di fronte alle quali non puoi più mentire o tergiversare da vigliacco. La coscienza bussa come un tamburo, mentre aumenta la difficoltà di parlare con i nostri figli di quelle verità che fanno male.

Poterlo fare alla presenza e con la mediazione di esperti psicologi è un privilegio che ci offre il prezioso laboratorio del Gruppo della Trasgressione. Anni fa è successo a me e, grazie agli stimoli che mi ha fornito il gruppo, ho cominciato ad approcciarmi alla verità con le mie figlie; oggi penso, anzi ne sono sicuro, che anche le intenzioni di Vito vertevano in tal senso.

In parallelo alle vittime del nostro delirio, anche i nostri familiari sono vittime innocenti e inconsapevoli delle nostre scelte scellerate. Poter comunicare il risveglio della nostra coscienza ai nostri figli e ai nostri familiari, restituendo loro la nostra attuale consapevolezza, le nostre responsabilità, la nostra autenticità, è il metodo più efficace per riconciliarci con noi stessi e con la società e per proseguire in un sincero e complesso percorso di ravvedimento.

Caro dottore, ho letto la sua affermazione: “…mi rendo conto che si vive la sensazione di tradire la vittima prestando ascolto al balbettio del carnefice… e voglio dirle che si tratta di una sensazione solo apparente. Lei sa bene che dentro l’essere umano logica ed emozioni sono spesso in contrasto. Chi ha subito la perdita di un familiare, infatti, ha certamente bisogno che l’autore del delitto venga punito, ma desidera anche che la volontà del colpevole cambi direzione e che egli maturi coscienza del dolore provocato.

La pena non può esaurirsi nella punizione in senso afflittivo; questa non basta per lenire o per elaborare il dolore della perdita. Chi vive quel dolore, in fondo al cuore, sa bene di non poterlo curare col rancore, con la distanza e, men che meno, con la vendetta sociale. Il meticoloso lavoro di studio e di ricerca che si fa con il Gruppo della Trasgressione consiste soprattutto nell’analizzare gli aspetti che hanno portato al reato e nell’aiutare l’autore a riconoscere il degrado morale nel quale egli si è formato e che ha poi contribuito a diffondere.

Ma quello che il Gruppo della Trasgressione fa sopra ogni altra cosa è recuperare la coscienza che noi stessi abbiamo esiliato. Per riuscirci, incontriamo con una certa frequenza anche familiari delle vittime disposti a prestare ascolto alle nostre storie, con i quali si cerca di capire ed elaborare insieme quel dolore che in una certa misura ci apparenta.

Pasquale Fraietta e Angelo Aparo

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Pasquale Fraietta 

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Gli scritti originali

Dopo lo scritto di Vito Cosco e i commenti che ne sono derivati al tavolo interno e all’incontro allargato fra i detenuti e i loro familiari, il gruppo ha prodotto oltre una ventina di testi, buona parte dei quali sono già on line su Voci dal Ponte.

È mia abitudine ritoccare gli scritti prima di pubblicarli; ne correggo gli errori, cerco di renderli più scorrevoli e coesi; qualche volta aggiungo persino dei concetti perché spero che l’autore impari dalle correzioni e dalle aggiunte. Dal mio punto di vista, gli scritti sono uno strumento per far comunicare i detenuti col mondo esterno, ma anche un modo per comunicare io stesso con l’autore e con tutto il gruppo. Alle volte espando passaggi che nel testo originale sono appena accennati, nel tentativo di stimolare l’autore del testo e l’intero gruppo a dare maggiore spazio a embrioni di idee che a me sembrano importanti e a riflettere sui nessi e sulle contraddizioni di cui abbondano i nostri pensieri.

Ci sono volte in cui questi miei tentativi vanno a bersaglio, con il detenuto orgoglioso di leggere il proprio testo, quando lo trova più scorrevole e meglio articolato, e ce ne sono altre in cui i miei interventi sul testo risultano invece poco graditi.

Riconoscendo che questa volta il mio lavoro sugli scritti è stato anche più robusto del solito, ho voluto io stesso sollecitare il gruppo a esprimere un’opinione sulle modifiche. A tale scopo, lo scorso mercoledì (17/07/2019) alcuni dei testi pubblicati sono stati letti prima nella versione originale e poi nella versione ritoccata.

Ci siamo poi chiesti insieme se i miei interventi sui testi suonano più come sollecitazioni utili e comunque sintoniche con il pensiero dell’autore o se appaiono piuttosto come alterazioni delle intenzioni dello scrivente. Tralasciando complimenti e ringraziamenti del gruppo per la mia dedizione alla causa, mi sento in dovere di riferire che diverse persone hanno trovato i miei interventi un po’ “spersonalizzanti”, un po’ “monocordi”, un po’ “invadenti”, un po’ “forzature” del pensiero originale.

Il risultato finale e consensuale della giornata è stato che è comunque desiderabile rendere pubblico il testo originale, affiancato eventualmente da qualche mio commento. Ecco dunque l’aggiornamento dell’indice, con tutti gli scritti nella versione originale e in quella modificata (quando c’è), nella speranza che la cosa possa risultare gradita anche ai visitatori del sito che non frequentano i gruppi in carcere.

Angelo Aparo

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Rieducare gli sgabellieri

Il carcere dovrebbe avere una funzione riabilitativa per il condannato ma in realtà diventa l’università del crimine. Come mai succede questo?

Guarda, in proposito bisogna fare un po’ di chiarezza perché, sì, è vero che il carcere o – come dice la Costituzione – la pena deve tendere alla riabilitazione del condannato, però prima dobbiamo metterei d’accordo su che cos’è la pena. Intanto la pena serve soprattutto prima di essere applicata, non dopo. Quando viene applicata vuol dire che quella sanzione, quella minaccia di cui ho parlato poco fa ha fallito il suo scopo. Se la pena dell’ergastolo viene comminata a chi commette un omicidio, ha un senso nel momento in cui viene minacciata perché si spera che con quella minaccia l’omicidio non venga commesso. Nel momento in cui l’omicidio viene commesso lo stesso, la pena, sotto il profilo della prevenzione (che è quello più importante) si è rivelata inutile.

E tuttavia deve essere applicata… perché altrimenti se non venisse applicata fallirebbe come minaccia. Bisogna applicarla perché una volta che è stata minacciata, una conseguenza necessaria è l’applicazione della pena, soprattutto perché altrimenti nelle altre occasioni non funzionerà. Almeno si sa che se anche in quel momento non ha funzionato come minaccia, però viene applicata, quindi si spera che la prossima volta, anche evidentemente con riferimento ad altri soggetti, funzioni veramente.

Questa è la vera funzione della pena, la pena ha una funzione soprattutto nel momento in cui viene minacciata, non nel momento in cui viene applicata.

La nostra Costituzione, tuttavia, ha imposto al legislatore di far sì che una volta che questa pena venga applicata perché deve essere applicata, questa pena abbia questo carattere rieducativo. Evidentemente un carattere rieducativo lo dovrebbe avere già di per sé una pena, comunque venga applicata. Perché è chiaro che quella persona, avendo subito una pena, dovrebbe avere ulteriori remore a commettere un altro reato. Di fatto però avviene, soprattutto in riferimento a coloro che delinquono per la prima volta, che il contatto che il carcere provoca – naturalmente con altri che hanno commesso dei delitti – fa sì che si affilino, anzi, le capacità di delinquere di questa persona. Qual è la ragione? La ragione è che l’amministrazione carceraria in Italia è tenuta in una situazione assolutamente precaria, nel senso che lo Stato spende per la giustizia (e anche per l’amministrazione carceraria, che rientra nell’amministrazione della giustizia) appena lo 0,8 o 0,6 per cento del bilancio statale: molto meno di quanto non dedichi alla Rai, molto meno di quanto non dedichi ad altre attività. Cioè, una percentuale infinitesimale del proprio bilancio.

Lo Stato italiano non si è mai preso veramente carico dei problemi della giustizia. Il nostro, rispetto a quello di altri paesi, è uno dei bilanci più miserevoli con riferimento ai problemi della giustizia. Non voglio scandagliare le ragioni, dico però che è così.

È chiaro che, quando si può spendere così poco, le carceri possono restare in questa situazione precaria di affollamento e di poca possibilità lì dentro, addirittura, di far scuola o di fare attività sportive o di fare cultura o di fare opera di rieducazione, di riabilitazione. È chiaro che le carceri diventano soltanto un posto dove si è privati della libertà e in più si sta assieme agli altri delinquenti, e quindi non ci si redime affatto, ma si diventa più delinquenti. Ma non sicuramente per mal volontà dei direttori delle carceri o degli istituti di sorveglianza.

Quando io vado a interrogare i detenuti nel carcere di Marsala debbo chiedere quattro sedie, siccome normalmente quando si interroga un detenuto si è almeno in quattro persone: un giudice, un segretario, l’avvocato che difende l’imputato e l’imputato. [Ebbene, ndr] nel carcere di Marsala, che è sede di tribunale, non ci sono quattro sedie a disposizione del personale, e la sedia deve essere chiesta in prestito, o qualche sgabello preso nella cella di qualche detenuto, e il detenuto deve venire nella zona interrogatori con lo sgabello sottobraccio. Questa storia va avanti da tre anni. E tu mi parli di rieducazione dei carcerati? Ma lì bisognerebbe iniziare a rieducare gli sgabellieri, che dovrebbero pensare a procurarsi uno sgabello per fare almeno un interrogatorio in modo decente. Questa è la situazione, e una scarsa, anzi punta attenzione dello Stato a questi problemi, una scarsa o quasi punta destinazione di risorse finanziarie a questi problemi.

Paolo Borsellino, 26.1.1989

[incontro con i ragazzi di un liceo di Bassano del Grappa, dal min. 41.20 – trascrizione tratta da P. BORSELLINO, Cosa nostra spiegata ai ragazzi, PaperFirst, 2019]

Dentro il carcere, ma non fuori dal mondo

Mi chiamo Rosario Romeo, sono detenuto e faccio parte del Gruppo della Trasgressione di Bollate. Desidero dare un mio contributo riguardo alla lettera che Vito Cosco ha scritto e poi letto all’incontro collettivo fra i detenuti del gruppo di Opera e i loro familiari.

La lettera, resa pubblica dal dott. Aparo, è stata ripresa da alcuni organi di informazione, che hanno però proposto ai lettori o ai telespettatori una visione, a mio giudizio, errata delle cose. Io non credo che con quella lettera Vito Cosco punti a benefici o a sconti di pena; se avesse voluto dissociarsi dai coimputati, avrebbe dovuto farlo durante i tre gradi di giudizio. Adesso, un pentimento allo scopo di ottenere benefici sarebbe inutile.

Vorrei anche commentare quanto ci è stato riferito sull’incontro con i familiari. Abbiamo saputo dal dott. Aparo che all’incontro erano presenti anche la moglie e i figli di Vito Cosco. Da quanto ho capito, Vito Cosco ha ammesso per la prima volta, e dopo quasi 10 anni di carcere, le proprie responsabilità davanti ai propri figli e ha criticato senza mezzi termini il proprio operato.

Io credo che questa lettera sia un punto di partenza per potersi avvicinare soprattutto al figlio più piccolo, che (è stato detto) non era a conoscenza dei veri motivi per cui il padre è stato condannato all’ergastolo. Adesso il figlio di Vito è un adolescente e il padre capisce che non può continuare a mentire sulle proprie responsabilità; anzi, Vito Cosco sa, come qualsiasi detenuto con un po’ di cervello, che, per potersi riprendere la propria pericolante funzione di padre, deve avviare col figlio una comunicazione sincera e non più superficiale ed elusiva, come peraltro gran parte dei detenuti fa con i propri figli.

Se anche può essere vero che tante volte i detenuti cominciano a frequentare il gruppo con la speranza di ottenere qualche beneficio (uscite per eventi vari, una bella relazione o addirittura un posto di lavoro), bisogna riconoscere che chi frequenta il Gruppo della Trasgressione, sulla distanza, è costretto a confrontarsi (e finisce per essere contento di farlo) con situazioni che favoriscono riflessioni e autocritiche, che diventano nel tempo sempre più sincere e profonde e che coinvolgono anche detenuti giunti al gruppo per altri scopi.

Credo che ciò che è successo al Gruppo della Trasgressione di Opera debba essere inquadrato in relazione a quello di cui hanno bisogno i detenuti per non sentirsi definitivamente fuori dal mondo, oltre che lungodegenti chiusi dentro le mura del carcere. Le cose di cui parlano i telegiornali che ho visto sono buone solo a stuzzicare appetiti insani.

Rosario Romeo e Angelo Aparo

Romeo Rosario

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