La voce dell’adolescente

Roberto Cannavò

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Corona virus in carcere e fuori

In relazione al Corona Virus e alle conseguenze che comporterebbe la sua diffusione all’interno delle carceri, si sta tentando con diversi provvedimenti di ridurre la presenza di detenuti all’interno degli istituti penitenziari. Chiedo pertanto soprattutto a chi è stato o è ancora detenuto (ma la domanda vale anche per gli altri componenti del Gruppo della Trasgressione e per chi avesse piacere di offrire un proprio contributo dall’esterno) di segnalare cosa a vostro avviso sarà importante per le persone che potranno uscire o sono già uscite dal carcere con i provvedimenti che vengono presi in questo periodo.

Angelo Aparo


Io sono uscito il 18 marzo, lasciando una situazione veramente pesante all’interno del carcere, ma i miei compagni, e soprattutto quelli del gruppo, con la consapevolezza acquisita negli anni, sono riusciti a dialogare con la direzione, cercando di trovare soluzioni con senso di responsabilità per la criticità del momento. Ora sono fuori ma penso sempre alla situazione all’interno, e grazie al percorso fatto in questi anni sto affrontando questa situazione in modo sereno, consapevole di tutta la sofferenza vissuta dalla collettività.

Marcello Portaro


Essendo stato in carcere fino a due anni fa, so bene quanto l’attesa di riconquistare la libertà sia la priorità assoluta di qualsiasi detenuto. Paradossalmente, in questo momento drammatico che ci vede sotto la minaccia del subdolo virus, i detenuti o parte di essi hanno la possibilità di recuperare la… libertà. Certamente ogni uomo provvisto di un minimo di dignità, avrebbe sperato di riacquistarla in altro modo, ma il dramma di molti diventa un occasione per pochi. Forse sarebbe il caso di ringraziare il fato, il destino, Dio o chi si vuole e ricambiare questo inaspettato, ahimè, beneficio.

Insomma c’è un modo per ricambiare la società e chi la rappresenta unitamente alla dimostrazione di meritarsi questa liberazione, e consiste nel chiedere anzi PRETENDERE di poter da subito rendersi disponibile presso le istituzioni come la Protezione Civile, i Comuni etc., per dimostrare che nell’anima dei giusti e di chi si ritiene di “cambiato” nulla accade a caso e che stavolta chi ha molto sofferto come i detenuti, saprà aiutare i cittadini come meglio potrà. Questo non sarà un piacere, ma un dovere.

Maurizio Piseddu


Personalmente ritengo sia importante, innanzitutto, di prendere consapevolezza diretta del momento storico che stiamo attraversando. Sento esprimere questo mio pensiero a chi verrà messo in condizioni di libertà, perché dentro le mura la percezione delle cose è molto distante dalla realtà sociale. Direi quindi di affidarsi ad amici e parenti e prendere atto della realtà con impegno e responsabilità.

Aggiungo, per chi si sente di contribuire alla rinascita, di rispettare le regole vigenti e per intima convinzione e perché l’irresponsabilità porta conseguenze negative sa tutta la comunità.

In sostanza, si esce da una sorta d’autismo confezionato dalla detenzione e si viene immersi in una situazione di disagio collettivo dove tutti, ma proprio tutti, dobbiamo dare prova di unità sociale, culturale e umana.

Per il resto, ogni testa fa un tribunale della propria coscienza. Ma sono contento che tanti avranno l’occasione per dimostrare a se stessi e alla comunità le abilità acquisite.

Roberto Cannavò


Tengo a precisare che fino a un mese fa ero detenuto nel carcere di Opera nel reparto “Semiliberi”. A causa dell’emergenza sanitaria, Don Antonio Loi, ex cappellano del carcere di Opera, mi ospita in casa sua.

Fin da subito ho avvertito un forte senso di responsabilità e di preoccupazione. Non nascondo che ho avuto momenti di paura, quella paura costruttiva che mi ha permesso, e mi permette, di essere riflessivo ed equilibrato nel prendere decisioni per me e per il bene comune.

La situazione dentro non è facile, anzi è molto critica. Molte volte la mente del detenuto è chiusa in un labirinto (egoismo) e questo non gli permette di capire che molte volte le cose vengono fatte per proteggere lui stesso e il bene della collettività.

Detto questo, cosa dire ai miei compagni detenuti? Da circa un mese sto vivendo una situazione inaspettata.

Per esempio, quando vado all’ortomercato, dove acquisto la frutta e la verdura per i nostri clienti, oltre ad indossare ogni tipo di protezione, sto anche molto attento a come mi muovo. Questa cosa mi porta anche un po’ di angoscia, visto che oltre ad avere la responsabilità verso me stesso, ce l’ho anche verso Don Antonio (il quale mi ospita in casa propria) e verso la collettività.

Sicuramente, a differenza di chi metterà fuori il piede per la prima volta, sono stato avvantaggiato nel mio essere semi-libero. Questo mi ha aiutato molto e mi sono trovato da subito responsabile nell’emergenza attuale. Ma nessuno può estraniarsi dalle proprie responsabilità, anzi, per ognuno di noi sarà l’occasione per mostrare la propria lealtà e vicinanza a tutte le persone che ci accolgono e che per noi si sono prese grandi responsabilità: la Magistratura di Sorveglianza, le direzioni delle carceri e i tanti volontari del terzo settore.

A noi spetta di restituire con la stessa grandezza cioè utilizzando, nel mio caso, il gruppo della trasgressione, per aiutare chi ne ha bisogno. Mi riferisco a tutte quelle persone anziane che non possono uscire di casa. Ma anche a tutte quelle persone che per ovvi motivi sono chiusi in casa. Portando loro, con l’ausilio della protezione civile, le nostre esperienze oltre che i beni di prima necessità.

Adriano Sannino

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Dialogo oltre i muri

CORRIERE DELLA SERA, 24 dicembre 2018
La madre e l’assassino. Dialogo oltre i muri
di Paolo Foschini

Sembra facile? No, questa cosa non ci assomiglia neanche di lontano a una cosa facile. Chi ha subito un crimine, o ha avuto un familiare vittima di un crimine, lo sa molto bene. E lo sa anche chi un crimine lo ha commesso. Non è facile neanche pensarlo, di incontrarsi. Figurarsi farlo. E parlarsi. Eppure. Non è detto che le cose difficili siano impossibili. Forse a volte sono necessarie.

Per questo leggete, nel giorno di Natale, queste due lettere. Da una parte una madre che ha perso un figlio. Ucciso da un pirata della strada. Dall’altra un ergastolano. Che di figli di altre madri, in un’altra vita, ne aveva uccisi più d’uno. Non serve che sappiate i dettagli delle loro storie di “prima”.

Quel che invece dovete sapere è che il loro incontro non è stato casuale. Fa parte di un progetto, che di persone come loro ne coinvolge ormai parecchie. Autori di violenza, vittime di violenza. Si chiama Gruppo della Trasgressione, era nato 2i anni fa nel carcere milanese di San Vittore su iniziativa dello psicoterapeuta Angelo Aparo che lo guida tuttora, e il suo scopo era quello di “motivare i detenuti a interrogarsi sul divenire delle loro scelte”.

Oggi “è un laboratorio permanente di riflessione cui partecipano detenuti, studenti universitarie comuni cittadini”, non più solo a San Vittore ma anche nelle carceri di Opera e Bollate, oltre che in una sede esterna a Milano dove il Gruppo è ospite dell’associazione Libera. Gli obiettivi principali sono “il riconoscimento reciproco, la formazione degli studenti, l’evoluzione del condannato, Io sviluppo di progetti comuni”.
Come funziona? “Durante gli incontri, partendo dalle relazioni e dai vissuti dell’esperienza deviante, detenuti, studenti e comuni cittadini riflettono e producono testi su come si diventa criminali, sul modo confuso con cui il principio della giustizia è presente anche nel predatore, sul se e come si può rinunciare gradualmente all’eccitazione dell’abuso per il piacere della relazione, su quanto sia difficile stabilizzare l’equilibrio psico-sociale del neo-cittadino proveniente da un’adolescenza vissuta nella devianza”.

Non è un percorso lineare né semplice, appunto. Ci vanno anni e impegno. Ma qual è il risultato? “L’incrocio fra le diverse attività favorisce nel detenuto il piacere e l’esercizio della responsabilità nei confronti dei progetti comuni, un senso di appartenenza alla collettività allargata, acquisizione di funzioni sociali riconoscibili, la progressiva emancipazione dall’identità deviante”. Basterebbe assistere a uno dei tanti incontri cui i componenti del Gruppo partecipano nelle scuole di fronte agli studenti per la prevenzione rispetto al bullismo. “Studiare, progettare e lavorare con chi ha commesso reati – conclude Aparo – giova alla società più della distanza garantita dalle mura del carcere”.

Ecco di seguito le due lettere

Cara Elisabetta…
Grazie per non esserti fatta soffocare dal rancore

Cara Elisabetta, eccomi a te, con la responsabilità di chi ha offeso la vita, per cercare di restituirti parte della bellezza che tu quotidianamente ci regali. In questi giorni mi è stato detto se avessi il desiderio di scriverti una lettera. Non ho risposto subito perché pensavo tra me: ci chattiamo e sentiamo tutti i giorni, ci raccontiamo, ci ascoltiamo e ci sosteniamo per rispondere alle nostre fragilità e al tormento che regna nella solitudine dove tante volte ci rifugiamo… Che potrei dire di più a Elisabetta attraverso una lettera?”. Ma ho capito bene, da molto tempo, quanto è importante che la positività sia fatta conoscere. Anche solo per dire che è possibile. E allora ecco.

Tu e io ci conosciamo da circa due anni e da subito l’empatia ha fatto da timone per indirizzarci verso il riconoscimento reciproco del nostro dolore. Partecipi alle iniziative del Gruppo della Trasgressione, vieni a incontrarci, insieme organizziamo anche eventi. Quante volte ti osservo mentre sei avulsa dal contesto dove ci troviamo e proprio in quei momenti mi sento inadeguato; il mio pensiero si fossilizza nel baratro, dei sensi di colpa e mi fa sentire responsabile di questi tuoi attimi di smarrimento. Donna senza risparmio d’amore! Donna che non ti dai un attimo di tregua nel portare il bene dove ha prevalso sempre il male. Combatti come un guerriero e ti fermi solamente quando riesci ad accudire noi, me… La vita è un mistero e l’uomo può solo ipotizzare di conoscerne una parte. Proprio questo mistero, a mio avviso, ci può donare quella prossimità di cui parla e ha scritto tanto il nostro prof. Angelo Aparo.
Tu, come tutti gli esseri umani, spingi verso l’infinito ma, a differenza di tantissimi, un infinito ben definito: la fusione con Andrea, tuo figlio, che vive dentro di te e ti proietta a favore del bene. Un bene che riconosco, rispetto, di cui usufruisco e per il quale sono grato. Un bene che ti restituisce, ogni qualvolta scatta la magia, un battito del cuore di Andrea.

Ricordo, e spesso lo dici nelle tue testimonianze, quanta rabbia e rancore e voglia di vendetta albergavano nei tuoi stati d’animo. Non vivevi se non per cercare giustizia, contro chi commette reati e contro parte delle Istituzioni che non riconoscevano, fino a prima dell’inizio delle tue battaglie, l’omicidio di strada. Poi hai conosciuto il Progetto Sicomoro.
Progetto basato su incontri tra parenti di vittime o vittime e i carnefici, responsabili di reato. All’inizio è stata una lotta senza esclusione di colpi psicologici. Ma dopo i primi incontri, ascoltando e soprattutto toccando con mano la vulnerabilità e le fragilità di quegli autori di reato, ha prevalso in te la tua vera identità, la matrice ben cucita del tuo senso materno verso persone che hanno sbagliato ma dietro i cui sbagli vi è una infanzia abortita dal loro (mio) disconoscimento da parte di tutti, famiglia compresa. Hai percepito che dietro quelle maschere che hanno caratterizzato negativamente la nostra, vita ci sono uomini bisognosi di essere nutriti dal valore che ci permette di essere restituiti alla società. Credo che non ci possa essere iniziativa migliore di quella che stai portando avanti tu.

Ti sei fatta alleata con chi prima combattevi senza remore. Una grande responsabilità. Che richiede impegno ma soprattutto capacità di cambiamento rispetto a un pensiero iniziale. Un lavoro fatto da chi ha subito l’offesa più grande che una madre possa subire: la morte di un figlio, per guida spericolata, da parte di uno scellerato che di responsabilità era privo. Non sono giudizi che potrebbero uscire dal mio pensiero poiché, come sai, ho compiuto le stesse crudeltà a ripetizione. Ma oggi, sentendomi un cittadino, sento anche il dovere di testimoniare a favore di chi ha subito, compresi noi stessi. Sono fortunato. E orgoglioso che tu abbia sposato le idee e iniziative del nostro Gruppo della Trasgressione.
Mi permetto di estendere un grazie da parte di tutto il gruppo per dirti che sei un valore aggiunto e una ulteriore fonte di speranza soprattutto per chi, come te, ha subito atrocità ed è ancora soffocato dal rancore. Vorrei scriverti tante altre cose ma questa è una lettera aperta nella quale un podi intimità nascosta non guasta. Raccontarsi con gli altri è un bene, raccontarsi a quattrocchi è amore.

Ti lascio con una sorta di poesia che ho scritto in uno dei tanti miei momenti di smarrimento. Eccola.

“Due occhi tra, le canne di bambù ascoltano il silenzio della notte che accarezza i pensieri. Gocce che cadono, diamanti senza luce, frecce di dolore piantate nel cuore. Eco di passi severi, tra le mani un raggio di sole che illumina occhi anelanti a libertà. Un attimo, un bagliore nel buio. L’anima si nasconde, vuole l’oblio delle colpe, mentre il cuore intona il canto del perdono”.

Con immensa gratitudine.

Roberto Cannavò

Caro Roberto… sono una vittima,
ma non si può fermare il bene

Esco dal carcere quasi di corsa, esco dal carcere e ho bisogno di una boccata d’aria, di luce. Ho bisogno di riprendere i contatti con il mondo esterno che pare mancarmi da tantissimo tempo. Esco dal carcere e mi rendo conto di aver fretta e so che la strada che mi separa da casa mi parrà interminabile.
Il punto è che lì, in quella dimensione dagli spazi finiti, sbarrati, ovattati, mi sono sentita soffocare e dentro quelle mura che violentano la libertà nulla sembra esistere se non il presente e un pesante passato che ha segnato tutte quelle vite. Prima di uscire mi sono soffermata due minuti a chiacchierare con un agente. Non avevo mai visto corridoi sbarrati che portano alle celle. E la mia prima volta in carcere. Guardo a destra e poi a sinistra. Sbarre e volti. Sbarre e mani. E braccia lunghe che le oltrepassano quasi a volermi toccare. Sbarre e mani e occhi che mi cercano.

Ho voglia di scappare perché quella visione mi fa male e dentro me ho solo spazio per il dolore perenne che provo per la morte di mio figlioSento la mia corazza farsi di cartapesta e non riesco più a celarmi dietro la coltre di rancore e odio che mi ha avvolta per quattro interminabili anni. Sono una Vittima, io. Sono una mamma monca, spezzata, mutilata. Una donna entrata in carcere per urlare agli autori di reato il mio dolore e per nessun’altra ragione che puntare il dito. Da giudice. Da inquisitore. Sono arrabbiata, legittimamente arrabbiata. Sono Vittima per sempre.

Ma ora, nell’uscire da quel luogo di espiazione mi sento meno calata nel mio ruolo totalizzante. Ogni certezza si sgretola e provo una salvifica compassione per gli autori di reato. Compassione nell’accezione più nobile di questo termine troppo spesso frainteso. Provo compassione e non comprendo come un essere umano possa sopportare una vita dietro quelle sbarre.

Proprio io che dietro quelle sbarre ce li avrei mandati tutti, i delinquenti. E senza neanche un giusto processo. Senza dovere aspettare quei tre gradi di giudizio che mi parevano un’enorme perdita di tempo e un grande spreco di denaro pubblico. E invece ecco che, calata in questa dimensione inaspettata, nessuno, ma proprio nessuno, neanche il più spietato assassino mi provoca sentimenti negativi. Nuovamente tento di combattere con quella che ero e che non sarò mai più. E mi dico che non posso trovare giustificazioni a tanto male e che la clemenza non rientrava proprio, neanche un po’, nei miei progetti di mamma orfana. Arrogante e chiusa nella mia bolla che credevo impenetrabile, mi atteggiavo a giudice senza averne alcun titolo. Ma arretra ogni difesa e perdo questa ardua lotta contro la mia gabbia fatta di odio e rancore. Da allora li incontro sempre. Sono persone, sono esseri umani che hanno sentimenti, che provano vergogna, rimorso. Persone che chiedono una seconda possibilità. Racconto il mio vissuto e trovo occhi pieni di lacrime e trovo solidarietà. Siamo facce della stessa medaglia: il dolore. Quello subito, quello provocato. Quegli occhi, quelle storie entrano dentro di me ed agiscono come il ferro operatorio di un abile chirurgo. Entrano nella carne e la feriscono, la fanno sanguinare. Quel ferro arriva in profondità e va a cercare il male per sradicarlo. Brucia, ma cauterizza. Ora so. Ne ho le prove.

Il male si può sconfiggere, si può arginare, si può anche fermare. Ma il bene no. Una volta innescato, il bene dilaga e invade e pervade, inarrestabile e permeabile, travolge tutto ciò che c’è intorno.
Mi sento una donna migliore. Sento che possiamo fare un pezzo di strada insieme, senza fretta, curandoci le ferite con un sorriso o un abbraccio. Senza troppe parole, fusi nei nostri ruoli e nei nostri dolori. Fuori piove, ma noi abbiamo il sole dentro. Si chiama Ascolto, Accoglienza, Amicizia, Affetto, Amore. Per me si chiama anche Andrea.

Elisabetta Cipollone

Il canto dell’acqua nell’arsura

Cara Elisabetta,

eccomi a te, con la responsabilità di chi ha offeso la vita, per cercare di restituirti parte della bellezza che tu ci regali. Ci ascoltiamo e ci sosteniamo ogni giorno per rispondere alle nostre fragilità e al tormento che regna nella solitudine dove tante volte ci rifugiamo. Donna senza risparmio d’amore, senza tregua nel portare il bene dove ha prevalso sempre il male. Combatti come un guerriero e ti fermi solamente quando ci porti le tue cure. La vita è un mistero. Anche tu, come tutti, spingi verso l’infinito ma, a differenza di tanti, punti a un infinito ben definito: la fusione con Andrea, tuo figlio, che vive dentro di te e ti spinge in direzione del bene. Un bene che riconosco e di cui ti sono grato; un bene che ti restituisce, ogni qualvolta scatta la magia, un battito del cuore di Andrea.

Ricordo, e spesse volte lo dici nelle tue testimonianze, quanta rabbia, rancore e voglia di vendetta albergavano in te. Non vivevi se non per cercare giustizia del tribunale contro chi commette reati e contro le  istituzioni che non riconoscevano, fino a prima dell’inizio delle tue battaglie, l’omicidio di strada. Poi, come per incanto, hai conosciuto il Progetto Sicomoro.  Progetto basato su incontri tra parenti di vittime o vittime e responsabili di reato. All’inizio è stata una lotta senza esclusioni di colpi, ma dopo i primi incontri, ascoltando e toccando con mano le fragilità di quegli autori di reato, ha prevalso in te la tua vera identità, il tuo senso materno. E così hai colto che dietro quelle maschere ci sono uomini che hanno bisogno di essere nutriti per potere essere restituiti alla società.

Con noi e per noi, oggi conduci le tue battaglie contro il degrado. Oggi ti sei fatta alleata con chi prima combattevi (noi), nonostante l’offesa più grande che una madre possa subire: la morte di un figlio, per guida spericolata, da parte di uno scellerato senza senso di responsabilità.

Oggi hai sposato anche le idee e iniziative del Gruppo della Trasgressione. Ne sono orgoglioso! Ciò che fai è una fortuna per me e per noi tutti e penso sia motivo di speranza per chi, dopo aver subito atrocità simili alle tue, vive ancora soffocato dal rancore.

Due occhi tra le canne di bambù ascoltano il silenzio della notte. Gocce che cadono, diamanti senza luce, frecce di dolore piantate nel cuore. Un’eco di passi severi e il cuore intona il canto dell’acqua nell’arsura.

Con immensa gratitudine,
Roberto Cannavò

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Dentro ognuno di noi


Dentro ognuno di noi“, eseguita da Juri Aparo e da Tonino Scala (che ne è l’autore) e commentata da Roberto Cannavò al Festival dell’Arte Negletta del 2017.

Fra i componenti del Gruppo della Trasgressione sono presenti anche Noemi Ottaviani, Adriano Sannino e Alessandro Crisafulli, protagonisti dell’iniziativa di cui all’articolo di Manuela D’Alessandro su GIUSTIZIAMI

Dentro ognuno di noi
Tonino Scala

Dentro ognuno di noi
c’è nascosta un’idea
servirebbe a cambiare una vita
inventarla a misura
ne varrebbe la pena
di provare a partire
si potrebbe tornare bambini
e non crescere mai

Dentro ognuno di noi
c’è nascosto qualcosa
e vorresti tenerla ed usarla
con molta pazienza
non la trovi nel banco dei pegni
nelle notti agitate
è la cosa più rara che hai
per non perderti mai

Ed io posso scoprire dov’è
nascosta dietro il mio cuore
che posso aprire e far crescere
fino a poterla sognare
proprio dentro di noi
c’è un bimbo
che ci difende e ci fa ripartire

La nicchia, la crosta e il rosmarino

tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea
tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea

Adesso immagina qui
una grande poesia
dove tutto è nascosto e proibito
dove niente è sicuro
a volte è sincera
ed inventa l’amore
nasconde i nostri cuori
dagli ostacoli

Ed io posso scoprire dov’è
nascosta dietro il mio cuore
che posso aprire e far crescere
fino a poterla sognare
proprio dentro di noi
c’è un bimbo
che ci difende e ci fa ripartire
tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea
tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea

A San Vittore per un viaggio nel futuro

Per ricucire lo strappo

Milano: un documentario per ricucire “lo strappo” del crimine

All’Istituto Molinari di via Crescenzago, cinque scuole in rete e centinaia di studenti nella stessa aula magna per fare «quattro chiacchiere sul crimine» e per presentare il documentario

di Paolo Foschini, Corriere della sera, 23/01/08, Cronaca Milano

Fa un certo effetto vedere seduti uno accanto all’altro un ergastolano per mafia e il magistrato Alberto Nobili, che contro la mafia ha combattuto una vita, e sentire il primo che dice “è un privilegio essere qui con lei”, e il secondo che risponde “l’emozione è mia, la sua presenza qui oggi e il suo percorso di recupero sono una delle soddisfazioni più grandi che ho provato dacché faccio il mio lavoro”.

È solo uno dei (tanti) momenti intensi che hanno caratterizzato la mattina di ieri all’Istituto Molinari di via Crescenzago, cinque scuole in rete e centinaia di studenti nella stessa aula magna per fare “quattro chiacchiere sul crimine”, come recitava il titolo.

Chiacchiere si fa per dire, perché a parlarne e soprattutto rispondere alle domande dei ragazzi c’erano il fondatore di “Libera” don Luigi Ciotti, e familiari di vittime della criminalità più diversa – da Manlio Milani la cui moglie morì nella strage di Brescia a Maria Rosa Bartocci il cui marito fu ucciso in una rapina, da Margherita Asta che in un attentato di mafia perse la madre e due fratelli a Daniela Marcone a cui la criminalità uccise il padre – e poi il provveditore delle carceri lombarde, Luigi Pagano, e altri condannati per omicidio, e magistrati, giornalisti, avvocati.

Tutti lì per discutere di quella cosa che è “Lo strappo” prodotto ogni volta in cui c’è un crimine: strappo nella vittima, nella società, ma anche in chi lo compie. “Lo strappo” in effetti è anche il titolo del documentario presentato sempre ieri e realizzato su un’idea dello psicologo Angelo Aparo, del magistrato Francesco Cajani, del giornalista Carlo Casoli e del criminologo Walter Vannini, in collaborazione con il Comune, con Libera, con l’associazione Trasgressione.net, con la Casa della Memoria, con l’associazione Romano Canosa e con Agesci Lombardia. È scaricabile sul sito www.lostrappo.net.

Un motivo per farlo è già nelle parole con cui Manlio Milani lo apre: “Siamo abituati a pensare che le cose negative accadono sempre a qualcun altro, poi un bel giorno, quando colpiscono noi, ci accorgiamo che siamo parte di una realtà, che può colpire chiunque”.

La mattinata all’istituto Ettore Molinari, La locandina