La scala dentro

La scala dentro
Sofia Lorefice

Un luogo dove scappare e ritrovarsi questo era per noi quella casa. Ha detto Carmelo al telefono.

E ora come facciamo? gli chiedo io. Ce la portiamo dentro. risponde mio fratello.

Sì ma non è facile, non lo è per noi, figurati per lui che se la è costruita e che lì dentro ha costruito la sua vita.

Mio padre è un architetto e sa costruire. Quella casa se l’è costruita per davvero. Non solo nella fantasia ma anche nei disegni, nei calcoli, nei mattoni, nelle piastrelle che mia madre gli ha fatto cambiare 16 volte per via delle fughe che a lei sembravano storte. Se l’è costruita con le finestre grandi, le pareti un po’ tonde e un po’ squadrate che escono dal volume delle stanze. Se l’è costruita con le terrazze, con il camino affusolato e con la scala a chiocciola dentro al centro della casa.

Quella scala era la parte più resistente sulla quale si reggeva tutto il resto. Bambini in caso di terremoto andate sotto alla scala, ogni tanto ce lo ricordava: Sotto la casa c’è l’argilla ma quella scala non crollerà né ora né mai, la ho fatta io.

Noi siamo cresciuti sostenendoci a quella scala. Ci abbiamo ballato intorno la sera quando rientravamo a casa con lui. E mamma non c’era. E lui accendeva la musica a palla e ballava per scacciare la nostalgia. Abbiamo sempre saputo che sotto c’era l’argilla ma sapevamo anche che quella scala teneva tutto e non sarebbe crollata. Perché? Perché la aveva costruita lui!

Dentro di me e di mio fratello e forse anche dentro a quella Nica c’è una scala a chiocciola costruita sull’argilla. È una scala che porta la firma di mio padre: la sua risata, la sua fatica, la sua forza, i suoi pensieri, la sua fantasia e l’allegria.

È una scala di marmo senza spigoli e con i buchi sul muro all’altezza di ogni scalino per non smettere di guardare il mare neanche mentre si sta salendo. È una scala dalle pareti bianche, più volte imbiancate perché tutti e tre noi figli, ciascuno a suo tempo, non ci siamo risparmiati la soddisfazione di disegnarci sopra con le matite colorate.

Dentro alla casa, nel suo cuore, ci sta quella scala che mio padre ha costruito perché sostenesse tutto il resto. L’ha fatta a prova di terremoto e di qualsiasi altra scossa. Fino ad ora aveva retto ed è difficile pensare che da una settimana esatta quella scala non sia più lì per noi. È faticoso convincersi di poterne fare a meno. E ora come facciamo? Proveremo a portarcela dentro.

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Sulla pena – Bollate 07/04/2016

Incontro sulla pena con gli allievi dell’Istituto Verri di Busto Arsizio Patrizia Canavesi

Studente: E’ giusto che lo stato spenda soldi per recuperare persone che hanno causato disastri e dolore o addirittua morti?

Giampaolo: Innanzitutto è previsto dalla costituzione; in secondo luogo, rinchiudere e abbandonare a se stessi i detenuti rischia di incattivirli e predisporli a ulteriore violenza e rabbia nei confronti della società. A Bollate, dove si attivano percorsi e attività di recupero, la recidiva passa dal 67% al 17%. Chi esce dal carcere senza “aver pensato” è ancora più pericoloso.

Isaia: Sono soldi investiti nella prospettiva di un reinserimento. E’ una spesa che può essere considerata un “investimento sociale”

Alberto: La persona, come individuo, può anche non preoccuparsi di aiutare chi è in difficoltà o chi si è macchiato di un delitto; una società civile no, non può esimersi dal provare a recuperare chi ha rotto il patto sociale. La società civile deve costantemente tentare di realizzare modelli positivi dove sia possibile percorrere strade di costruzione della libertà.

Studente: Esistono modi che possano “garantire” l’emancipazione, l’evoluzione del detenuto? E, se esistono, quali sono e come riconoscerli?

Studente: Quali sono le condizioni che permettono alla persona di orientarsi nella direzione giusta, delle gratificazioni emancipative e non cadere nella trappola della seduzione?

 Alberto: Innanzitutto sono importanti il rapporto con la guida e la fiducia che si pone nella figura di riferimento. Cercare una guida e poi provare a sceglierla. Riconoscere la fragilità e provare a orientarla nella giusta direzione, valorizzando le spinte costruttive e non dare spazio a quelle regressive. Solo in presenza di una guida valida è possibile scovare e “fare i conti” con la propria fragilità.

Antonio: Io ero fragile, molto più dei miei fratelli. Mi vergognavo di scoprirmi debole e imperfetto, quindi diventavo prepotente e arrogante. Mi comportavo da arrogante per poter vedere la fragilità negli altri. Io mi sentivo nel giusto a essere prepotente, non ho mai avuto la sensazione di sbagliare. Ero convinto di fare la cosa giusta. La consapevolezza non è automatica.. deve essere “stanata

Maurizio: solo se hai una guida sicura che ti sostiene, la fragilità viene contenuta.. e sei meno attratto dalla seduzione della via più facile per risolvere la sofferenza… della vita.

Alberto: La fragilità è una risorsa.. permette di cercare alleanze e collaborazioni per una progettualità costruttiva. Riconoscere la propria fragilità, permette di cercare tra le persone che hai accanto alleati per poter costruire qualcosa insieme.. ti permette di non vedere nelle persone “deboli” delle vittime designate, da umiliare e schiacciare per esercitare il tuo falso potere. Schiacciare la fragilità dell’altro ti permette di sentirti forte, potente, anche se in verità sei solo pre_potente e arrogante… nella tua stessa fragilità e insicurezza.

Massimiliano: mi sento brutto, debole, incapace.. inconcludente… per non stare male, mi ribello, reagisco con violenza, abuso, droghe, senso di onnipotenza.. non è possibile stare male con se stessi e non fare niente per reagire. Riconoscere la propria Fragilità è necessario per poter riconoscere anche il bisogno degli altri. Negare la propria Fragilità è negare il bisogno dell’altro.

Diouf: avevamo molti dubbi sul carcere e sui detenuti… adesso ci sembra di capire che siete delle persone normali, che hanno sbagliato ma che ci stanno pensando su.

Isaia: avete visto dei delinquenti, che in realtà sono persone non poi tanto diverse da voi.. persone che hanno bisogni, desideri, emozioni.. il suggerimento è “non avere paura di accettare la vostra fragilità e imparare a viverla come una risorsa e non come un problema”, una spinta per cercare aiuto, alleanze e collaborazioni.

Massimo: se la famiglia ti dà delle basi solide.. riesci a stare in piedi. Io non posso dire di non aver avuto una buona famiglia.. Mi ha sedotto la ricchezza, la bella vita, la vita facile..

Manar: mi sembra di capire che in fondo anche i detenuti sono delle brave persone..

Aparo: I detenuti sono brave persone? Forse. In ogni caso, anche le “brave persone” possono perdersi e danneggiare il prossimo. E’ necessario affinare strumenti per far emergere il lato positivo che c’è in ciascuno di noi, costruire relazioni positive e provare a realizzare progetti comuni. Per rieducare è necessario identificare e dare spazio a percorsi che siano riconoscibili, attendibili, verificabili.

Jin Lai: E’ più facile punire una persona che recuperarla! La consapevolezza di sè e del reato commesso, è una conquista, non si realizza automaticamente con la reclusione! La privazione della libertà non basta, non è sufficiente a innescare il cambiamento e la consapevolezza del proprio errore.

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Purgatorio

Una pena per chi è punito, un dolore per chi la commina
Nuccia Pessina

Giovedì scorso, nel corso dell’incontro fra il Gruppo della Trasgressione e l’Istituto Verri di Busto Arsizio,  ho sentito Jin Lai paragonare il carcere a un luogo di transito che può dare l’opportunità sia all’individuo sia alla società di riflettere sulle proprie imperfezioni e di giungere a una mediazione che possa costituire per entrambi una crescita. E allora non ho potuto fare a meno di pensare che anche nella Commedia dantesca esiste un luogo di transito in cui provare pena e riflettere per arrivare all’emancipazione: il Purgatorio. Il percorso è faticoso: prevede la scalata di una montagna; è lungo: ogni balza conquistata testimonia il superamento di un comportamento fallace, di una convinzione sbagliata, di un’inclinazione discutibile. La meta è il Paradiso: la felicità assoluta.

Le parole di un cinese sono a loro modo espressione dello stesso convincimento della religione cattolica, di cui la Commedia è un potente riflesso. Come è possibile? Forse, se questo accade, è perché in ogni parte del globo, qualsiasi sia la cultura, l’essere umano percepisce la sua esistenza come un transito e vede come meta la felicità.

Tale transito, diversamente dal carcere, è obbligatorio per tutti. Ma questa non è l’unica differenza: chi è in carcere ha una meta macroscopicamente riconoscibile, un riferimento certo, la fine della detenzione; chi vive da libero il riferimento lo deve cercare, individuare, costruire e, prima ancora, deve avvertirne la necessità in sé e per sé. Ma forse questa meta, non è solo una necessità e non solo un dovere, forse si tratta di un privilegio al quale per varie ragioni non tutti giungono.

Da ciò che ho sentito dire, molti detenuti non ci sono riusciti. Poiché le imperfezioni degli esseri viventi e delle relazioni da questi poste in atto sono molteplici e variegate e assumono le forme più diverse e spesso non sono né prevedibili né controllabili, le spinte regressive hanno avuto il sopravvento e si sono generati comportamenti deleteri.

Dunque è mancato qualcosa. O si sono imposte presenze non sopportabili. Quali le mancanze all’origine del percorso deviante? Sicuramente la mancanza di una guida autorevole. Un genitore, un insegnante, un allenatore, un prete, qualcuno che si accorge che esisti e che sei tu, proprio tu, diverso dagli altri; qualcuno che presta attenzione a te, proprio a te; qualcuno che dimostra di conoscerti e che ti dà il consiglio giusto, adatto a te. Altre mancanze poi possono segnare la strada: la mancanza d’amore, la mancanza di senso.

Le mancanze sono anelli che si congiungono e formano una catena che imprigiona la libertà morale dell’individuo, soprattutto se tra di essi manca l’anello della punizione. Non una punizione qualsiasi e a qualunque costo. La punizione giusta, adeguata allo sbaglio, comminata al momento giusto e da una persona amata. Una punizione che sia pena, che porti dentro di sé il concetto del risarcimento e del dolore provato da chi la subisce ma anche da chi la commina.

Solo da una punizione così scaturisce il senso morale, il concetto di giusto e sbagliato, il maggior avvicinamento possibile tra legge e giustizia, insomma l’introiezione della giustificazione della pena a garanzia del rispetto del diritto. Se questo non accade la sofferenza dilaga e nella percezione del soggetto diventa legittimazione ai suoi abusi e quasi viatico per il suo percorso deviante.

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La scelta della scopa e quella del pacco

La scelta della scopa e quella del pacco
Giampaolo Monaco

Sono il terzo di sei figli, cresciuto con la nonna materna sino all’età di otto anni; questo perché mio padre è stato un delinquente. Poi, quando aveva compiuto i quarantacinque anni, diede un taglio netto a quella vita che da sempre conosceva. Iniziò a lavorare come operatore ecologico e allora, non solo gli amici si meravigliarono per la fine che secondo loro aveva fatto, ma sua madre stessa si vergognava di vedere suo figlio che puliva le strade. Un giorno arrivò a dirgli di lasciare quel lavoro e di non portare più il disonore a casa e che alla sua morte gli avrebbe assicurato l’eredità. Mio padre non solo non diede retta a quello che sua madre gli disse, ma dichiarò che l’onore lo aveva raggiunto prendendo una semplice scopa in mano per ripulire la città.

Questo radicale cambiamento di vita, portò mio Padre a pensare che, dopo otto anni da mia nonna, fosse anche ora che io iniziassi a vivere in casa sua con il resto della famiglia. Vi dico con molta onestà che, quando mi portò via da mia nonna e mi mise a vivere in un posto che non aveva affatto il calore di una famiglia, iniziai a odiare mio padre sia perché non mi aveva lasciato dalla nonna sia perché non capivo quell’arbitrio di riappropriarsi di me come se fossi stato un pacco.

Il risultato fu che io facevo tutto il contrario di quello che lui imponeva. Iniziai a scappare da casa e a stare anche giorni senza dare mie notizie, sino a quando la polizia o i carabinieri riuscivano a trovarmi. Per procedura, essendo io minorenne, chiamavano i miei genitori per darmi in affido. Già da quando avevo circa undici anni, i reati erano all’ordine del giorno, spinelli, alcool erano la ciliegina sulla torta.

Mi ritrovai, senza avere la cognizione di cosa significasse, eroinomane a tredici anni. Ancora non lo sapevo ma decisi di ammalarmi! Evidentemente (ipotizzo ancora oggi), non riuscendo ad affrontare mio Padre e a dirgli quello che pensavo di lui, sfogavo la mia rabbia in questo modo assurdo, convinto di fargliela pagare per quello che mi aveva fatto. Quando iniziai a capire, pur essendo ancora minorenne, mi resi conto di quanto fosse sbagliata la mia scelta e quanto ormai quella malattia si imponesse sempre di più su di me. Mi rendevo conto che negli anni erano cambiate tante cose, mi sentivo privo di forza sia fisica che psicologica, mi guardavo allo specchio e mi sentivo invecchiato, non avendo nemmeno vent’anni.

Abbiamo parlato del conflitto. Voglio raccontare quello che ho vissuto io. Ricordo che, i miei genitori mi portarono, facendo tanti sacrifici (mio padre si fece anticipare parte della pensione) al San Raffaele di Milano, per una nuova terapia di disintossicazione. Quello fu il mio primo conflitto: ero obbligato ad andare e a dire che volevo, ma dentro di me non volevo disintossicarmi, tant’è vero che, come già sapevo, fu un fallimento.

Dopo anni di terapie con metadone, farmaci, e diversi ricoveri, decisi finalmente di risalire dalle sabbie mobili. Con tutta la convinzione e la fermezza di questo mondo, mi chiusi a casa per ben quattro mesi, scalando giorno dopo giorno il metadone, arrivai a scalare anche tutti i farmaci che assumevo per stare calmo, (Roipnol, Darchene, Catapresan ecc.). Tutto questo avveniva paradossalmente a casa mia, avevo capito che mio padre non si era mai posto il problema se suo figlio potesse soffrire così tanto la separazione dalla nonna. Questa sua mentalità, sono sicuro che fosse dovuta all’ignoranza e alla vita che aveva condotto. Mio padre anche oggi a settantasei anni è un uomo tutto di un pezzo e non incline a fare come dicono gli altri, ma con assoluta certezza posso dire che ha sempre amato la sua famiglia e per la famiglia darebbe la vita.

Per esperienza e senza presunzione, posso dire che nella fase della tossicodipendenza non hai nessun potere, o semmai puoi solo illuderti di averlo. Il vero potere, e questo lo posso dire solo oggi, è quello che ha avuto mio padre, ossia abbandonare il senso di onnipotenza, e crescere sei figli con il più umile dei lavori, ma con onore.

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