Un progetto su Vito Cosco

Il Gruppo della Trasgressione e Vito Cosco

Non possiamo fare a meno di chiederci come mai le prime aspirazioni di un bambino finiscano a volte per prendere la forma dei soldi che si ricavano da una rapina, della pace o della inconcludente eccitazione procurata dalle droghe. Se siamo sicuri che chi cerca l’oro e la droga sta sbagliando indirizzo, allora è doveroso chiedersi quali informazioni mancano a chi ha perso la strada. Se sbando mentre cerco me stesso, ho bisogno di qualcuno che non si limiti a punirmi ma che aggiunga un’indicazione utile per rintracciare l’indirizzo giusto (Angelo Aparo)

Vito Cosco, detenuto con la pena dell’ergastolo per l’omicidio di Lea Garofalo, si è presentato al gruppo mercoledì 29 maggio con uno scritto contenente le sue riflessioni sul reato commesso. Nel testo si percepisce l’evoluzione da uno stato precario di delinquenza sino alla individuazione della strada che conduce a una maggiore consapevolezza di sé.

Le sue parole hanno scosso ed emozionato tutto il gruppo e anche i famigliari dei detenuti, presenti il 5 giugno nel teatro di Milano Opera, giorno in cui il testo è stato letto e commentato pubblicamente. Gli stessi famigliari di Vito, compreso il figlio tredicenne, hanno manifestato dolore, gioia e orgoglio in merito alla trasformazione che un padre, marito e detenuto può avere. La giornata è stata piena di emozioni forti, pianti e sentimenti che hanno lasciato un segno tangibile nell’anima dei presenti.

Per via dello scalpore suscitato dallo scritto (non esattamente in sintonia con gli obiettivi e con lo stile del Gruppo della Trasgressione), il dott. Aparo ha deciso di raccogliere le considerazioni che componenti del gruppo ed esterni produrranno sul tema. In questo modo esse potranno divenire materia di riflessione e di dialettica e permettere a chi segue il nostro lavoro di farsi un’idea dell’operato del Gruppo.

Il progetto vuole provare a scuotere un’opinione pubblica ancora troppo ancorata al reato in sé e poco propensa all’idea che sia possibile l’evoluzione anche di chi ha commesso gravi crimini.

L’obiettivo primario è quello di comprendere che cosa la società si aspetta da persone che in seguito a un reato si trovano oggi con l’ergastolo o con lunghe pene da scontare; che cosa la Costituzione e le Istituzioni si aspettano da chi ha commesso errori in passato e quali strumenti offrono loro per farlo. Ci si propone, in definitiva, di cercare strade e alleanze utili a far sì che, a fronte della punizione, l’evoluzione del condannato e l’acquisizione di responsabilità verso l’altro non rimangano pura teoria o iniziativa lasciata esclusivamente a chi tale responsabilità ha dimostrato di aver dimenticato o di non avere mai avuto.

Valentina Marasco

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Il Cinque giugno

Egregio direttore, dott. Silvio Di Gregorio,

noi detenuti del gruppo della trasgressione le scriviamo questa missiva per informarla di quello che abbiamo prodotto in queste ultime settimane, tra cui lo scritto di un componente del gruppo e l’evento con i nostri familiari.

Come Lei sa, i componenti del gruppo producono a volte dei testi che vengono letti e commentati nelle riunioni settimanali e poi pubblicati sul sito del gruppo. In questi scritti ognuno può parlare della propria vita e di tutto quello che gli passa per la mente; ovviamente con la serietà che contraddistingue il Gruppo della Trasgressione.

Mercoledì 29 maggio scorso, uno di noi, Cosco Vito, ha portato uno scritto riguardante la sua storia personale, che è stato poi commentato e apprezzato. Lo scritto ha suscitato in noi molte emozioni per la sua drammaticità. Di conseguenza, molti di noi hanno parlato del triste passato personale e della bellezza di sapere oggi che anche noi possiamo avere quella coscienza che avevamo accantonato.

Nell’evento del cinque giugno scorso siamo stati con le nostre famiglie e le abbiamo messe a conoscenza del nostro lavoro, facendoci scoprire delle persone che sanno ammettere le proprie responsabilità e gli errori del passato.

Abbiamo parlato davanti a loro e abbiamo visto i nostri figli e i nostri genitori emozionarsi con noi. Con il risultato che siamo usciti da questo evento molto più ricchi nell’anima e con la speranza di riuscire a coinvolgere più spesso i nostri cari e tutti quelli che vorranno seguirci in questa bellissima avventura.

Per il Gruppo della Trasgressione
Pasquale Trubia e Angelo Aparo

Pasquale Trubia

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La montagna sgretolata

Prima che mi arrestassero avevo già cominciato a sentire la montagna sgretolarsi. Ho iniziato a frequentare questo gruppo con qualche dubbio, che poi col passare delle settimane è andato sciogliendosi e mi sono convinto che mi avrebbe fatto bene. Per questo voglio chiamare la mia esperienza col Gruppo della Trasgressione “la montagna sgretolata”.

Avevamo organizzato per mercoledì 5 giugno questo incontro con i nostri familiari nel carcere di Opera dove siamo detenuti. Lì Vito Cosco ha condiviso con i suoi figli e anche con i nostri parenti quello che aveva detto la settimana prima durante la riunione interna del mercoledì. Ha parlato davanti a tutti della sua bruttissima azione contro la vittima (Lea Garofalo). Ci sono stati molti interventi di noi detenuti e anche dei suoi figli e a un certo punto mi sono girato e ho visto mia moglie e molti dei nostri parenti con le lacrime agli occhi.

Ho ripensato a quel giorno e mi sono detto che con questo gruppo ognuno di noi sta sgretolando quella famosa montagna. E allora le persone interessate devono trovare il sistema per farlo. Molti dei nostri familiari hanno questo interesse e, passo dopo passo, spero che anche altri credano in questo progetto.

Paolo De Luca e Angelo Aparo

Paolo De Luca

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Non esistono solo i bottoni rossi

La lettera di Vito Cosco mi ha sorpreso. Ho già diversi anni di esperienza col Gruppo della Trasgressione ma non pensavo che saremmo arrivati alle sue dichiarazioni così facilmente. Vito è una persona taciturna e pensavo che sarebbe stato zitto ancora per molto tempo.

Dopo qualche anno dall’inizio della mia carcerazione l’ispettore di reparto mi ha suggerito di partecipare a questo gruppo. Anch’io parlavo poco nei primi anni. Inoltre, mentre gli altri parlavano di responsabilità personali, io pensavo di essere vittima dello Stato che ingiustamente mi aveva condannato.

C’è voluto più di un anno per capire cosa si fa al gruppo, ma alla fine credo di esserci riuscito. E quello che ho capito è che fra le cose possibili c’era anche che Vito Cosco si mettesse a parlare di quello che ha fatto.

Al gruppo si impara ad ascoltare gli altri, a fare attenzione a quello che vogliono dire le persone anche quando lo dicono male, si impara a capire che le cose si dicono e si capiscono a piccoli passi, che fa strada la persona che viene ascoltata e non quella che viene rifiutata o presa in giro.

Credo che il gruppo sia una terapia e un posto dove ci si confronta con questioni che fuori fanno ridere o che fuori, almeno per noi che siamo finiti dentro, non c’è tempo di considerare.

Il pentimento di Vito è una questione di tipo morale, non si tratta di collaborazione di giustizia né di chiedere perdono alle persone che non possono perdonarlo. Gli articoli che vengono fuori sui giornali o i servizi televisivi dovrebbero tenere conto del fatto che in carcere uno ha bisogno di fare la sua strada, che è già difficile di suo, anche senza aggiungere malintesi che, in una situazione come quella di Vito, portano solo conflitti e ostilità.

Tra l’altro, Vito ha una famiglia, dei figli che non hanno colpa per quello che lui ha fatto e che oggi hanno tutto da guadagnare se il padre viene aiutato a fare una strada positiva.

Detto questo, io mi chiamo Amato Giuseppe e anche io avrei voluto pigiare quel bottone rosso che non c’è. Il dott. Aparo dice però che ce ne sono molti di altri colori. Stiamo a vedere!

Giuseppe Amato e Angelo Aparo

Giuseppe Amato

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La lettera di Vito sul TG5

Mi chiamo Antonio Antonucci e frequento il Gruppo della Trasgressione di Opera da un anno e mezzo. Avevamo letto la lettera di Vito Cosco alla riunione del mercoledì precedente, ma non ho partecipato all’incontro dei detenuti del gruppo con i familiari dello scorso 5 giugno in teatro perché ricoverato in ospedale per un piccolo intervento chirurgico.

Mentre aspettavo la mini porzione di pranzo sento leggere al TG parti della lettera… rimango colpito e, anche se riconosco le parole, vivo la sensazione di ascoltare qualcosa di molto diverso da quello che avevo sentito la settimana prima. Quello che alla riunione del gruppo in carcere era stata per me e per il resto del gruppo, componenti esterni compresi, una lettera molto coinvolgente e sulla quale ognuno di noi aveva espresso il suo pensiero, nel servizio che ho ascoltato al TG5 aveva il tono di uno scoop, con notizie sensazionali e contrasti fra familiari.

Tra l’altro, nel servizio, non ho sentito nulla di quello che il dott. Aparo, responsabile del nostro gruppo, aveva scritto in accompagnamento al testo di Vito su Voci dal Ponte e che, per noi che facciamo questo difficile percorso, non è meno importante di quello che ha scritto il nostro compagno.

Per me e per gli altri del gruppo, la responsabilità di Vito è chiara. Non voglio giustificarlo e non giustifico me che, come lui, sono ergastolano per avere commesso un omicidio. Voglio però dire che Vito con quello scritto non voleva offendere nessuno, non voleva riacutizzare il dolore dei familiari della vittima e non voleva chiedere sconti sulla pena. Chi conosce come funziona la Legge sa che quello scritto non può portare a nessuno sconto. In definitiva, Vito non ha fatto altro che ammettere di essere stato una persona spregevole, come d’altra parte lo sono stato io stesso.

Dalla sua lettera e dalle parole che ha detto al tavolo durante la discussione, si capisce soprattutto che lui oggi accetta di essere giudicato e che spera di potere avere con i suoi figli un rapporto più aperto. Tra l’altro, ho saputo da chi era presente all’incontro con i familiari che Vito Cosco ha ripetuto davanti al figlio quello che aveva detto al gruppo la settimana prima, un figlio di 13 anni, anche lui come il mio, vittima del reato del padre.

Tutto questo non toglie nulla alle sue responsabilità per quanto accaduto in passato, ma d’altra parte, nessuno ha cercato di toglierli dalle spalle il fardello che si deve portare lui, come tutti gli altri che siamo in condizioni simili o peggiori delle sue.

In base alla mia esperienza (non ho ancora compiuto 44 anni e ne ho passato oltre la metà dietro le sbarre), posso affermare che, in generale, in carcere e più facile peggiorare che migliorare. Il carcere, non è una novità, è una buona fucina per micro e per macro criminalità. Senza volere togliere niente gli altri corsi che ho frequentato durante le mie precedenti carcerazioni, mi sento di dire che, se alla mia prima carcerazione fossi stato indirizzato verso un gruppo come quello della trasgressione, non posso essere sicuro che non sarei mai più finito in carcere, ma escludo che ci sarei tornato per i reati associativi che mi hanno portato ad avere un “fine pena mai”.

Antonio Antonucci e Angelo Aparo

Antonio Antonucci

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Sul pulsante rosso

“…dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fiori

Lo scorso 5 Giugno noi componenti del Gruppo della Trasgressione, assieme ai nostri famigliari, ci siamo incontrati presso il teatro della C.R. di Opera, come facciamo da tempo una volta l’anno. L’incontro è stato coordianto come al solito dal dr. Angelo Aparo. La giornata, che ha colpito profondamente noi e i nostri famigliari, è partita con una lettera scritta al gruppo da Vito Cosco, detenuto da circa 10 anni in regime di alta sicurezza presso il carcere di Opera.

Il testo della lettera ha suscitato in noi una grande emozione. Nel corso di questi anni di reclusione il percorso di Vito è stato molto travagliato, ma da circa un anno ha cominciato a dialogare con la propria coscienza, intraprendendo un cammino che ai nostri occhi, ma credo anche a quelli degli altri componenti del gruppo, appare sincero e profondo.

Non sappiamo come Vito sia arrivato a commettere un crimine così grave. La portata del delitto è tale che nessuna analisi riesce a spiegare la cosa. E però sembra che oggi la sua coscienza abbia finalmente preso una svolta significativa.

L’obiettivo del carcere dovrebbe essere quello di rieducare la persona che ha sbagliato e che, giustamente, è stata privata della libertà. È importantissimo che la Legge dia alla persona condannata, oltre alla punizione, una speranza e non un “Fine pena mai”. Chiunque, pur essendo detenuto, rimane un essere umano e, in quanto tale, deve potere avere la possibilità di evolversi. Diversamente, a cosa servirebbe la pena?

Vito vorrebbe pigiare quel “pulsante rosso” per poter tornare indietro, ma nessuno ha il potere di cambiare il passato. Certamente da questa lezione ha imparato e abbiamo imparato anche noi quanto sia importante poter dare una carezza a un figlio e qualche volta riceverla. In questo modo diventa più facile acquisire man mano la consapevolezza del male fatto e dei tanti ostacoli da superare per potere raggiungere la pace con se stessi e con il mondo, dopo il dolore inflitto a entrambi.

Vincenzo Solli, Sebastiano Giglia e Angelo Aparo

Vincenzo Solli, Sebastiano Giglia

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Manca il pulsante rosso

di Vito Cosco, detenuto con la pena dell’ergastolo,
assistito per l’italiano e per la composizione del testo
da Alfredo Sole,
a sua volta detenuto in ergastolo.

Si può vivere una vita intera e giungere alla fine senza quasi avere rimpianti oppure, come nel mio caso, la fine del nostro ciclo vitale arriva a tutta velocità come una locomotiva impazzita che travolge tutto.

Oggi è facile avere rimpianti e potrebbe sembrare poco credibile o anche ingiustificabile averne dopo così poco tempo. Non ho giustificazioni per quello che ho fatto. Cosa potrebbe mai alleviare il dolore della famiglia della vittima?

Potrei raccontare la solita novella… sono cresciuto in un ambiente con valori sbagliati… che li spacciava per uniche verità. Potrei dire di non avere avuto scelta, di non avere potuto intraprendere una via diversa da quella che ho invece seguito…

Non è questa la visione che vorrei dare di me oggi. Vorrei poter comunicare quel che sento veramente dentro la mia anima, ma forse non conosco ancora le parole giuste per poterlo fare.

Ho un fratello più piccolo di me che commise un grave delitto e, a cose già fatte, coinvolse anche me. Mi chiedo come ho potuto oltraggiare un corpo ormai senza vita. Non ho parole e forse è ancora presto per chiedere perdono.

Lo vorrei, lo sento con tutto il mio cuore, lo sento fin dentro le mie ossa, ma sono consapevole di quest’orribile delitto. Ho bisogno di sentire il disprezzo degli altri, della sua famiglia e, se esiste un Al di là, ho bisogno che la vittima continui a disprezzarmi per non aver fatto nulla per fermare quella follia.

Sì, non riesco a perdonarmi e non credo che ci sia una pena che io possa pagare per alleviare il dolore causato. Sono consapevole di meritare questa mia non vita, so che vivrò ancora per molto tempo in compagnia dei miei fantasmi.

Oggi ho capito! I miei valori sono cambiati e cambiati sono i miei pensieri. Vorrei che ci fosse un grosso pulsante rosso da poter pigiare e, all’improvviso, il mondo che va all’indietro, all’indietro fino a quel maledetto momento, quando avrei potuto capire, rifiutarmi e, forse, se più attento e partecipe della vita familiare, comprendere quello che stava accadendo e fermarlo.

Non posso farlo, non c’è quel “pulsante rosso”, non posso cambiare il passato. Nessuno può!

Io sono qui, davanti a voi, con una consapevolezza che neanche immaginavo che un essere umano potesse raggiungere nella sua intera esistenza, invece, eccomi a smentire me stesso, i miei pensieri di una volta.

Cos’altro potrei aggiungere? Posso solo dire: eccomi, conoscete la mia storia adesso, conoscete anche me, e di me fate quello che volete.

La verità è che io sono morto poco meno di dieci anni fa, insieme alla vittima, ma ancora non lo sapevo. Adesso lo so e sono pronto ad accettare qualunque cosa il destino mi riservi o, meglio dire, ciò che gli uomini vorranno per me.

 


 

Nota di Angelo Aparo su una vicenda terribile e un’attività impegnativa

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Un fardello con cui lavorare

Un fardello con cui lavorare
Roberto Canavò

 
Mi sono sentito veramente colpevole
quando ho trovato chi mi ha fatto capire
che anche io ero stato vittima

Pasquetta 2019, Piazza del Duomo Milano,
Lidia Brischetto al clarinetto: Only you

Ognuno di noi possiede una sorgente di purezza dal valore inestimabile. Quando, per varie ragioni, tra cui l’ignoranza, l’insicurezza e la mancanza di una guida, non riesci ad attingervi, cadi nell’oscurità, poiché la mente ti inganna, lasciando terreno fertile alla profondità del male.

Nel mio caso, quando commettevo atti indegni e irreparabili, avvertivo prima, durante e dopo, quel campanellino d’allarme di cui è dotata la coscienza, ma nello stesso tempo, cercavo di attutirne il suono attraverso la pseudo gratificazione che mi trasmetteva il mio gruppo di appartenenza. Spesso, guardandomi allo specchio, non mi riconoscevo nell’immagine che vedevo, eppure ero io a commettere i reati che portavo a termine con la massima determinazione. Dopo avere a lungo riflettuto sul mio passato, credo semplicemente che, quando commettevo reati, non concedevo alla mia coscienza l’opportunità di consigliarmi.

Il mio arresto, che poi è stato il male minore, visto che altrimenti sarei stato ucciso, mi ha condotto, dopo un decennio di tentennamenti, ad ascoltare finalmente la mia coscienza, che altro non è che quella fonte di purezza insita in ognuno di noi. Dal profondo ho fatto emergere pian piano la mia vera identità, quella che oggi mi sta permettendo di trasformare l’uomo che ero (libero col corpo, ma prigioniero di mente) in un uomo diversamente libero; oggi posso dire di aver conquistato la libertà mentale, pur essendo prigioniero o, come è più corretto dire, detenuto.

Il mio cammino è stato favorito anche dalla Direzione dell’Istituto di Opera (MI), che mi ha dato l’opportunità di partecipare al Progetto Sicomoro, una esperienza forte basata su incontri settimanali tra parenti delle vittime di mafia e i loro carnefici. Durante gli incontri ho avuto più volte la sensazione di non essere all’altezza di quei confronti, di non essere stato attento quanto avrei dovuto con le vittime. Tuttavia, dopo il primo incontro, il più importante, il più emozionante, non conoscendo l’effetto di ciò che avrebbe sortito psicologicamente in ognuno di noi, vittime e carnefici, ho iniziato, pian piano, a prendere contatto con realtà che mai avrei pensato di poter capire o di vivere così positivamente. In quella realtà ho sentito il bisogno di esternare cose molto riservate che difficilmente avrei detto in un contesto diverso. Ho sentito e vissuto, attimo dopo attimo durante gli incontri, i dolori, le paure, la rabbia, la voglia di giustizia, ma soprattutto la necessità delle vittime di capire le ragioni e le “motivazioni” per le quali “gente” come me aveva potuto commettere fatti gravissimi come uccidere. Attraverso i loro racconti, le loro fragilità emotive, mi sono reso conto di quanto dolore ho provocato ai familiari, agli amici, ai passanti, all’intera società e a me stesso, e di quanta fragilità avevo io, nascosta da scelte scellerate, dominante dal delirio di onnipotenza.

Sì, sono colpevole d’avere sgretolato il vero senso della vita, sono altresì consapevole, una volta riemerso dalle macerie causate dalle mie nefandezze, che la mia vita ha ancora ragione di esistere e di essere messa al servizio di azioni giuste. Oggi, grazie alle possibilità che mi ha concesso l’Istituto di Opera, ho l’onore di andare nelle scuole dove porto la mia negativa esperienza di vita affinché i giovani comprendano il più possibile come si può giungere al punto dove sono arrivato io e i danni che ne derivano per tutti. Faccio questo nella consapevolezza che nessuno può cancellare il mio passato, un fardello che, insieme al mio gruppo, cerco di trasformare giorno per giorno in strumento utile alla prevenzione della devianza in generale.

Purtroppo le scelte che si fanno quando si è adolescenti sono figlie di altre scelte, il cui senso rimane difficile comprendere fino a quando non si instaura un rapporto d’ascolto con il nostro Io. Le scelte sono sempre dettate dagli stati d’animo e gli stati d’animo sono, senza che ce ne rendiamo conto, il terreno in cui si definisce la direzione della nostra vita. Una volta presa consapevolezza di ciò, si può superare quella piattaforma costruita da stati d’animo fragili per cominciare a costruirne una più solida, basata su scelte maturate attraverso lo scambio con gli altri e il contatto con noi stessi. Per questo credo oggi che l’ascolto, il dialogo, soprattutto tra genitori e figli, sono importantissimi, sono la base per un continuato d’identità e per una buona relazione con la società. Le giustificazioni, gli alibi, per andare contro le leggi e la morale, sono solo delle scorciatoie che arrecano dolore a se stessi e agli altri.

Queste cose mi sono state impresse nella mente da persone degne di valore e da veri rappresentanti della legalità. Oggi, con orgoglio, le faccio mie perché ne sono intimamente convinto. Contribuire alla rinascita e alla evoluzione di chi ha deviato è, dal mio punto di vista, un valore inestimabile. L’essere stato riconosciuto dalla società mi ha permesso di acquisire quell’autostima necessaria per mantenermi in equilibrio nei consensi e nei dissensi e per comunicare con gli altri.

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Il lievito madre

A volte di fronte a un gesto di apertura, a uno scambio coraggioso proviamo commozione. Ci inteneriscono e ci conquistano i bambini, gli animali protagonisti di questo genere di eventi… che noi guardiamo con il sorriso benevolo dell’adulto e un po’ col desiderio di trovarci al loro posto.

L’improvvisa vicinanza, la sintonia fra soggetti, che a prima vista sembrano tanto distanti da non poter comunicare, ci cattura come se quella nuova e inattesa prossimità fosse la meta dei nostri desideri più antichi.

In questi giorni attorno a Natale girano tanti video che raccontano del bisogno nato con noi stessi, quello di trovare una risposta protettiva alla nostra fragilità, una esigenza così arcaica che non si lascia zittire nonostante le dimenticanze di cui siamo tutti più o meno responsabili, nonostante i ripetuti tentativi di surrogare il nostro primo bisogno dell’altro con pratiche mirate a dominare il bisogno e l’altro in quanto tale.

Mi fa piacere riportarne qualcuno dei video visti in questi giorni e di fronte ai quali mi sono sentito come un bambino che, tornando a casa dopo avere a lungo giocato, trova ad attenderlo il pane caldo preparato dalla nonna. E, a proposito di pane caldo, credo che quello che ognuno di noi prova di fronte al risveglio del desiderio antico possa e debba essere usato con i più giovani e… con le persone più distratte come fanno il panettiere o la vecchia nonna con il lievito madre: lo usano per dar vita al pane fresco e dall’impasto del nuovo pane ricavano quello che sarà il lievito per il prossimo giro.

Va nella stessa direzione dei video il dialogo a distanza pubblicato da Paolo Foschini sul CORRIERE DELLA SERA del 24/12/2018.

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