La Responsabilità dei Burattini

“[…] tra giusto ed equo pur essendo entrambi buoni, è l’equo che ha più valore. 

Ciò che produce l’aporia è il fatto che l’equo è sì giusto, ma non è il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale. 

Il motivo è che la legge è sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattare correttamente in universale. […] l’errore non sta nella legge né nel legislatore, ma nella natura della cosa, giacché la materia delle azioni ha proprio questa intrinseca caratteristica. 

Quando, dunque, la legge parla in universale ed in seguito avviene qualcosa che non rientra nella norma universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno, per avere parlato in generale, correggere l’omissione, e considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione. 

Perciò l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto, assoluto, bensì del giusto che è approssimativo per il fatto di essere universale. Ed è questa la natura dell’equo: un correttivo della legge, laddove è difettosa a causa della sua universalità. 

Questo, infatti, è il motivo per cui non tutto può essere definito dalla legge […]. Come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo: il regolo si adatta alla configurazione della pietra e non rimane rigido, come l’equo si adatta ai fatti […]”. 

Aristotele, Etica a Nicomaco, cap V,14 – 1137b

L’Istituto IIS Spinelli di Sesto San Giovanni ha ospitato gli autori dello Strappo: quattro chiacchiere sul crimine, per condividere con gli studenti al quinto anno, una delle tante riflessioni possibili sul tema Cittadinanza e Costituzione, che sarà oggetto di colloquio in sede d’esame di maturità a partire da quest’anno.

Tra gli altri, sono intervenuti alcuni detenuti che fanno parte del Gruppo della Trasgressione, una realtà che opera da 22 anni nelle carceri milanesi con l’obiettivo di promuovere l’evoluzione dei condannati e il loro possibile reinserimento sociale dopo il fine pena.

Dalle parole dei detenuti del Gruppo della Trasgressione è emerso che all’epoca in cui commettevano reati la vittima per loro non esisteva, non esisteva il suo dolore, non esistevano le conseguenze dell’azione che stavano compiendo così come non esisteva la possibilità di scegliere di agire altrimenti.

A dire di chi ha commesso reati, nel momento in cui il fatto avviene il suo esecutore ha in mente solo l’azione da compiere e tutto il resto non esiste, nel senso che non viene neanche preso in considerazione. 

Oggi i detenuti che negli anni si sono allenati a riflettere dicono che in passato sono stati come burattini che eseguivano ordini di qualcun altro o di una parte di se stessi con la quale non erano capaci di dialogare per proporre alternative alle azioni che erano determinati a compiere.

Da qui è stata sollevata la domanda: “Se i responsabili del reato oggi considerano che ai tempi in cui lo hanno commesso erano burattini, come si può giudicare la loro responsabilità nel momento in cui bisogna decidere di comminare loro una pena?”.

Hanno provato a rispondere studenti, docenti, magistrati e psicologi.

Uno studente ha detto: “Prima che le persone commettessero reato non era possibile aiutarle, quindi bisognerebbe provare a farlo dopo”.

Il magistrato seduto al tavolo della discussione ha chiarito che per la legge esiste il soggetto e la sua responsabilità che è sempre individuale: lo dichiara la Costituzione al primo comma dell’art 27, quello stesso articolo che poco più sotto dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.

Lo psicologo che coordina le attività del Gruppo della Trasgressione ha fatto presente che prima del reato esiste l’ambiente in cui il reato si produce e che, quasi sempre, commette reato chi vive nel degrado. Pertanto la società che vuole tener conto della Costituzione deve interrogarsi sul rapporto che c’è tra il degrado in cui si cresce e il degrado che si appropria della mente delle persone che commettono reato. Questo non per sollevarle dalla responsabiltà delle loro azioni ma per non rinunciare alla complessità che la domanda sulla responsabilità dischiude.

Nel tentativo di mettere in ordine le suggestioni raccolte per cercare di dare il mio contributo alla costruzione del pensiero, mi chiedo: 

Ammesso che le persone che hanno commesso i reati fossero responsabili al momento dell’azione, quanto di fatto erano libere? Ovvero quanto erano libere di avere sentimenti diversi da quelli che le hanno indotte a scegliere di fare quello che hanno fatto? 

Se è vero che la responsabilità dell’atto criminale non può che essere imputata all’individuo che lo ha compiuto, chi è responsabile dei condizionamenti che hanno contribuito a costruire il degrado nella mente di chi all’epoca dei reati non era capace di fare una scelta diversa da quella criminosa?”. 

A partire da queste domande propongo due considerazioni.

Prima considerazione:

Personalmente credo che la responsabilità delle condizioni di scarsa libertà in cui gli esecutori dei crimini hanno agito sia in parte di ciò che la Costituzione all’art. 3, comma 2, chiama la Repubblica:

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Mi piace pensare che nella mente dei padri costituenti, quando hanno scritto il terzo comma dell’art. 27 che dice che la “la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”, ci fosse la consapevolezza che la Repubblica può fallire il compito che le affida il terzo articolo della stessa Costituzione ovvero “eliminare gli ostacoli che limitano la libertà delle persone e l’uguaglianza dei cittadini”. 

Se questo avviene, se la Repubblica fallisce il dettato dell’art 3, la ri-educazione di cui parla l’art. 27 non è altro che la seconda possibilità che la Costituzione si dà, e dà a tutta la società civile, per non rinunciare a perseguire il suo obiettivo: ovvero promuovere la formazione di cittadini come persone libere e quindi individui pienamente responsabili delle proprie azioni.

Perché per la Costituzione l’obiettivo collettivo da perseguire è più importante dell’errore individuale da stigmatizzare.

Seconda considerazione:

Se i giudici che in Tribunale comminano le pene devono per forza fare riferimento al valore della Giustizia intesa come fedele applicazione della legge e quindi devono considerare responsabile delle sue azioni chi ne è di fatto l’esecutore; la Repubblica di cui parla la Costituzione e che mi piace considerare nel senso alto della Politeia platonica che letteralmente significa “cittadinanza” ovvero “insieme di tutti i cittadini”, ha bisogno di fare riferimento al valore dell’Equità così come è descritta da Aristotele nel libro V della sua Etica a Nicomaco.

Per Aristotele la Giustizia è la più alta delle virtù etiche, tuttavia non è un concetto assoluto e monolitico. Il filosofo distingue tra Giustizia ed Equità, sostenendo che la seconda sia un correttivo della prima, che ha per sua natura la necessità di fare riferimento a principi universali, intatti e perfetti incapaci di tenere conto di realtà individuali imperfette e multiformi.

Aristotele sostiene che chi in ogni occasione pretenda di decidere appellandosi a un principio di giustizia considerato saldo e inflessibile si comporta come l’architetto che tenti di usare una riga dritta per misurare le complesse curve di una colonna scanalata. 

La Repubblica/Cittadinanza di cui parla la Costituzione non sta solo nei Tribunali, pertanto dopo che la pena è stata comminata dal giudice sulla base del principio legale della Giustizia, la Repubblica depone il metro rigido e si sforza di costruirne uno sufficientemente equo per compensare lo scarto tra il principio universale a cui si deve fare riferimento e la realtà, troppo complessa, fuggevole e imperfetta per poter essere ricercata, compresa e misurata col metro della perfetta giustizia.

[l’immagine è stata presa dal sito karatedomagazine.com]

 

Un fardello con cui lavorare

Un fardello con cui lavorare
Roberto Canavò

 
Mi sono sentito veramente colpevole
quando ho trovato chi mi ha fatto capire
che anche io ero stato vittima

Pasquetta 2019, Piazza del Duomo Milano,
Lidia Brischetto al clarinetto: Only you

Ognuno di noi possiede una sorgente di purezza dal valore inestimabile. Quando, per varie ragioni, tra cui l’ignoranza, l’insicurezza e la mancanza di una guida, non riesci ad attingervi, cadi nell’oscurità, poiché la mente ti inganna, lasciando terreno fertile alla profondità del male.

Nel mio caso, quando commettevo atti indegni e irreparabili, avvertivo prima, durante e dopo, quel campanellino d’allarme di cui è dotata la coscienza, ma nello stesso tempo, cercavo di attutirne il suono attraverso la pseudo gratificazione che mi trasmetteva il mio gruppo di appartenenza. Spesso, guardandomi allo specchio, non mi riconoscevo nell’immagine che vedevo, eppure ero io a commettere i reati che portavo a termine con la massima determinazione. Dopo avere a lungo riflettuto sul mio passato, credo semplicemente che, quando commettevo reati, non concedevo alla mia coscienza l’opportunità di consigliarmi.

Il mio arresto, che poi è stato il male minore, visto che altrimenti sarei stato ucciso, mi ha condotto, dopo un decennio di tentennamenti, ad ascoltare finalmente la mia coscienza, che altro non è che quella fonte di purezza insita in ognuno di noi. Dal profondo ho fatto emergere pian piano la mia vera identità, quella che oggi mi sta permettendo di trasformare l’uomo che ero (libero col corpo, ma prigioniero di mente) in un uomo diversamente libero; oggi posso dire di aver conquistato la libertà mentale, pur essendo prigioniero o, come è più corretto dire, detenuto.

Il mio cammino è stato favorito anche dalla Direzione dell’Istituto di Opera (MI), che mi ha dato l’opportunità di partecipare al Progetto Sicomoro, una esperienza forte basata su incontri settimanali tra parenti delle vittime di mafia e i loro carnefici. Durante gli incontri ho avuto più volte la sensazione di non essere all’altezza di quei confronti, di non essere stato attento quanto avrei dovuto con le vittime. Tuttavia, dopo il primo incontro, il più importante, il più emozionante, non conoscendo l’effetto di ciò che avrebbe sortito psicologicamente in ognuno di noi, vittime e carnefici, ho iniziato, pian piano, a prendere contatto con realtà che mai avrei pensato di poter capire o di vivere così positivamente. In quella realtà ho sentito il bisogno di esternare cose molto riservate che difficilmente avrei detto in un contesto diverso. Ho sentito e vissuto, attimo dopo attimo durante gli incontri, i dolori, le paure, la rabbia, la voglia di giustizia, ma soprattutto la necessità delle vittime di capire le ragioni e le “motivazioni” per le quali “gente” come me aveva potuto commettere fatti gravissimi come uccidere. Attraverso i loro racconti, le loro fragilità emotive, mi sono reso conto di quanto dolore ho provocato ai familiari, agli amici, ai passanti, all’intera società e a me stesso, e di quanta fragilità avevo io, nascosta da scelte scellerate, dominante dal delirio di onnipotenza.

Sì, sono colpevole d’avere sgretolato il vero senso della vita, sono altresì consapevole, una volta riemerso dalle macerie causate dalle mie nefandezze, che la mia vita ha ancora ragione di esistere e di essere messa al servizio di azioni giuste. Oggi, grazie alle possibilità che mi ha concesso l’Istituto di Opera, ho l’onore di andare nelle scuole dove porto la mia negativa esperienza di vita affinché i giovani comprendano il più possibile come si può giungere al punto dove sono arrivato io e i danni che ne derivano per tutti. Faccio questo nella consapevolezza che nessuno può cancellare il mio passato, un fardello che, insieme al mio gruppo, cerco di trasformare giorno per giorno in strumento utile alla prevenzione della devianza in generale.

Purtroppo le scelte che si fanno quando si è adolescenti sono figlie di altre scelte, il cui senso rimane difficile comprendere fino a quando non si instaura un rapporto d’ascolto con il nostro Io. Le scelte sono sempre dettate dagli stati d’animo e gli stati d’animo sono, senza che ce ne rendiamo conto, il terreno in cui si definisce la direzione della nostra vita. Una volta presa consapevolezza di ciò, si può superare quella piattaforma costruita da stati d’animo fragili per cominciare a costruirne una più solida, basata su scelte maturate attraverso lo scambio con gli altri e il contatto con noi stessi. Per questo credo oggi che l’ascolto, il dialogo, soprattutto tra genitori e figli, sono importantissimi, sono la base per un continuato d’identità e per una buona relazione con la società. Le giustificazioni, gli alibi, per andare contro le leggi e la morale, sono solo delle scorciatoie che arrecano dolore a se stessi e agli altri.

Queste cose mi sono state impresse nella mente da persone degne di valore e da veri rappresentanti della legalità. Oggi, con orgoglio, le faccio mie perché ne sono intimamente convinto. Contribuire alla rinascita e alla evoluzione di chi ha deviato è, dal mio punto di vista, un valore inestimabile. L’essere stato riconosciuto dalla società mi ha permesso di acquisire quell’autostima necessaria per mantenermi in equilibrio nei consensi e nei dissensi e per comunicare con gli altri.

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Kintsu-gi

Kintsu-Gi
Centro di svago e di ricerca creativa
Gruppo della Trasgressione

CARATTERISTICHE E FUNZIONI DELLA SEDE

  • Un centro culturale aperto (Rashomon e il Kintsugi), dove gli adolescenti e i giovani adulti di Peschiera possano portare i loro prodotti creativi (nel campo della pittura, fotografia, video, musica, scrittura) e dove si possa preparare una manifestazione In teatro nella quale, una o due volte l’anno, i diversi contributi possano essere presentati e valorizzati. A tale riguardo si prevede la collaborazione con aziende sponsor locali e non, che partecipino al finanziamento dell’iniziativa, mentre pubblicizzano se stesse.
  • Un locale per la produzione del materiale per Bio-Optica. Circa 50 mq, dove sia possibile installare le macchine necessarie per il lavoro con un’azienda produttrice di vetrini per esami istologici e, in genere, di prodotti per esami medici. Con Bio-optica abbiamo una collaborazione molto bene avviata.
  • Un mini ambiente per una cella frigorifera utile alla nostra attività con la Bancarella di Frutta & Cultura e per la distribuzione di frutta e verdura ai nostri clienti (ristoranti, bar, centri sociali, gruppi di acquisto solidale);
  • Spazi all’interno e all’esterno adibiti a ristorazione e a intrattenimento con
    • 1) frequenti incontri mirati a valorizzare la produzione artistica dei giovani del posto e dintorni e con periodiche presenze di artisti esterni di un certo rilievo;
    • 2) incontri periodici su “I protagonisti dell’avventura”.

OBIETTIVI

  • Prevenzione del degrado e, in particolare, prevenzione di comportamenti devianti, di ricorso alle droghe, all’alcol, al gioco d’azzardo (vedi La squadra anti-degrado);
  • inclusione del condannato in misura alternativa e di chi ha finito da poco di scontare la pena;
  • integrazione di immigrati residenti in situazioni di disagio e/o di emarginazione;
  • formazione di studenti universitari e di neolaureati sulla prevenzione e sul trattamento delle dipendenze da droga, alcol, videogiochi;
  • formazione e impiego di Peer support e valorizzazione del percorso grazie al quale i principali testimonial dell’iniziativa sono passati dallo stile di vita di chi alimenta e diffonde il degrado a quello di chi lo contrasta mentre promuove fra gli adolescenti un rapporto fattivo con le proprie risorse, con l’ambiente e con le istituzioni.

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“Cosa fai stasera?” [The blood of the Lazarus heart]

Oggi ha guardato sotto la sua camicia
e c’era una ferita nella carne, così profonda e larga
Dalla ferita un fiore splendido cresceva
da qualche posto in profondità
Si voltò a fronteggiare la madre
a mostrarle quella ferita

che nel petto gli bruciava come un marchio a fuoco
Ma la spada che lo aveva squarciato
stava nelle mani di sua madre.
[…] Anche se la spada era la sua difesa
era la ferita stessa a dargli forza
La forza di riplasmarsi nell’ora più buia
<La ferita ti darà coraggio e dolore> lei disse
<Quel dolore che non puoi nascondere>
E dalla ferita un fiore splendido cresceva
da qualche posto in profondità”

Sting – The Lazarus heart, 1987

Cosa fai stasera?”: la più semplice delle domande racchiude, nascosta dietro una pietra rotonda, un incontro con sé stesso. O con un-altro-da-te che, ben prima di te, ha dovuto affrontare la Vita e ha fatto delle scelte.

Per questo sabato scorso un gruppo di giovani scout, dopo aver “girovagato” per la città di Milano avendo come unica bussola alcuni pezzi di un racconto reale (“cosa faresti tu, al suo posto?”), hanno potuto trarre beneficio da un incontro straordinario.

Marisa Fiorani e Giorgio Bazzega: due storie, le loro e quelle dei loro cari uccisi, così diverse ma – a risentirle nel mezzo di un corridoio che confina con due stanze separate – per molti versi così simili.

 

Eppure quello che mi sorprende, alla fine di questa loro ennesima utile fatica nel rendere testimonianza ad una morte così assurda, è sentire rivolgere loro delle domande che sembrano un inno alla vita…. “Marisa, cosa ti rimane di bello di tua figlia?”  “Giorgio, che significato hanno quei tatuaggi sul tuo braccio?”

Ed ecco allora, in una ennesima resurrezione, arrivare Marcella: “adesso, dopo tanti anni di sofferenze, non la sogno più con solo metà corpo fuori … ora la vedo dalla testa ai piedi, danzare leggera sopra la sua tomba”. Eccola, accompagnata dal Maresciallo di Pubblica Sicurezza Sergio Bazzega: “questo teschio rappresenta mio papà, raffigurato come in quella usanza messicana della festa del giorno dei morti”.

Avevo 16 anni – più o meno l’età di quelle ragazze e ragazzi che guardo con una certa ammirazione– e una vita ancora tutta davanti quando mi innamorai di quella canzone di Sting, attratto soprattutto dalla musica non comprendendo ancora appieno il significato delle parole… allora non c’erano ancora cartoni animati come Coco in grado di restituire con efficacia, anche ad un bambino di 5 anni, il messaggio che una persona cara muore davvero solo quando non viene più ricordata.

Ebbene, cosa fai stasera? Che scelte hai deciso di mettere al centro della tua vita dopo aver raccolto il fiore splendido che continua a crescere dalle ferite di Marisa e Giorgio?

Tra i tanti pensieri che mi frullano per la testa non trovo – per il momento – altro di meglio che ripetere ad alta voce quella frase di Luigi Ciotti che, altri scout come loro, hanno trascritto su quel cartello che ha sfilato davanti a me lungo le strade di Padova lo scorso 21 marzo:

 

Dare un senso a tutto quel sangue versato forse è il “miracolo di ogni giorno” al quale Gordon Matthew Thomas Sumner fa riferimento quando scrive, dopo aver perso la madre: “sarei il sangue del cuore di Lazzaro”.

Muovere tutto sè stesso, come in una trasfusione vitale, per regalare la vita anche agli altri; per non far morire Marcella e Sergio, insieme a tanti altri.

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Il Gruppo della Trasgressione

di Jacopo Galasso e Angelo Aparo

L’Associazione Trasgressione.net, fondata più di vent’anni fa dal dottor Angelo Aparo, è formata da persone con alle spalle storie di vita diverse, ma accomunate da un unico obiettivo: studiare l’essere umano, con una attenzione particolare verso colui che, arrivando dal degrado, semina nel suo percorso altrettanto degrado, abuso e morte. Lo studio è rivolto anche al tempo che queste persone spendono all’interno del carcere e al come potranno impiegare questo tempo una volta che le porte della società si apriranno.

Questo obiettivo viene perseguito attraverso una sinergia tra psicologi, detenuti e studenti; ma anche familiari di vittime, giuristi, medici e comuni cittadini, i quali settimanalmente si riuniscono negli istituti penitenziari di Opera, Bollate e San Vittore.

Il lavoro svolto all’interno del Gruppo non va inteso nel senso del classico sostegno psicologico rivolto al detenuto ma come studio delle condizioni emotive e ambientali che spingono l’uomo alla voracità di potere e al successivo cambiamento. 

In merito al concetto di potere va ricordato il convegno del 21 novembre 2018 tenuto all’interno della Casa di Reclusione di Opera (Percorsi e derive del potere), dove il Gruppo ha potuto confrontarsi con personaggi illustri, quali Paolo Finzi (direttore della rivista anarchica “A”), Lella Costa, Dori Ghezzi, Amerigo Fusco e Roberto Cornelli (docente di criminologia dell’Università Milano Bicocca).  

Questo lavoro non resta isolato all’interno degli istituti di pena ma si diffonde e si concretizza anche all’esterno del carcere, dove i detenuti del Gruppo testimoniano il loro percorso, promuovono la legalità e la sensibilizzazione; prevengono le dipendenze e il bullismo; il tutto attraverso una serie di eventi con cornici diverse.

Il 26 novembre presso il Teatro De Sica di Peschiera Borromeo sono state interpretate dalla band del gruppo, la Trsg.band, diverse canzoni di Fabrizio De André. Le canzoni erano intervallate da considerazioni da parte di detenuti del carcere di Opera, ex detenuti e figure istituzionali su alcuni dei temi che uniscono il mondo di Fabrizio De André con quello del Gruppo della Trasgressione: l’abuso, il potere, il riconoscimento dell’Altro, il rapporto con l’autorità e le microscelte che portano l’individuo ad operare sul mondo ciò che si è seminato.

Un’altra serie di incontri che ha coinvolto il Gruppo prendono il nome de “Lo Strappo”, fra i più recenti quelli a Piacenza (29 gennaio) e a Novara (25 febbraio). Lo Strappo è un progetto nato dall’incontro di persone diverse ma complementari per le finalità e rivolto soprattutto alle scuole medie di secondo grado. Obiettivo principale è l’educazione alla complessità e alla cittadinanza, partendo da una domanda precisa: cosa succede a tutti i soggetti coinvolti quando viene commesso un reato? Le figure professionali che partecipano al progetto gravitano attorno al mondo della giustizia: magistrati, avvocati, giudici, psicologi, educatori, giornalisti, polizia penitenziaria, amministrazione carceraria. Tuttavia, le riflessioni più illuminanti sembrano venir fuori proprio dall’incontro paritetico dei protagonisti più coinvolti: i familiari di vittime e i rei, i quali dopo un lungo lavoro di conoscenza, introspezione, superamento del giudizio e del rancore, accettazione, apertura verso l’Altro e il suo dolore, recupero della coscienza esiliata e obnubilata, costruiscono una parentela, una prossimità. Un mutuo soccorso che può abbattere i muri più alti, quelli della mente.

Infine il Gruppo della Trasgressione tenta di consegnare i propri approfondimenti sulla legalità e la responsabilità agli adolescenti nelle scuole superiori: luoghi dove non sono rari atti di bullismo e dipendenze. Gli ultimi incontri di quest’anno, svolti presso l’Istituto Piamarta di Milano, sono stati decisamente proficui. Infatti hanno permesso ai detenuti del carcere di Opera di ascoltare e confrontarsi con gli studenti e di aiutarli a riflettere criticamente sulle loro fragilità, interne ed esterne all’ambiente scolastico.

Uno strumento importante di cui il gruppo si serve è il mito di Sisifo che, costruito anno dopo anno al tavolo del Gruppo della Trasgressione, consente ai detenuti di rappresentare, attraverso i dialoghi fra i vari personaggi, temi quali: l’arroganza, la seduzione, il rapporto difficle con l’autorità e quindi il rapporto genitori-figli; insomma i nodi problematici che vivono gli individui più a rischio.

Gli incontri in carcere e a scuola con i detenuti hanno consentito agli studenti di analizzare e comprendere meglio le storie dei detenuti del Gruppo e ogni singolo personaggio del mito, così da poterli riprodurre a loro volta. Infatti, la giornata conclusiva all’Istituto scolastico Piamarta, ha visto questa volta gli studenti nei panni dei personaggi del mito di Sisifo. 

In conclusione va anche evidenziato che l’Associazione viene affiancata dalla Cooperativa Trasgressione.net il cui obiettivo è il reinserimento socio-lavorativo del detenuto. Grazie al Lavoro esterno (art. 21), i detenuti hanno la possibilità di uscire dal carcere per svolgere attività lavorative oppure frequentare corsi di formazione professionale. Le difficoltà che queste persone incontrano durante o dopo avere scontato la pena non sono poche. Per questo motivo la Cooperativa le affianca permettendo loro di svolgere una serie di lavori, quali la consegna di frutta e verdura a bar, ristoranti e a gruppi di consumatori associati, bancarelle rionali con gli stessi prodotti (mercato di viale Papiniano, di Peschiera Borromeo), il restauro di beni artistici, lavori di manutenzione e di piccola ristrutturazione.

Progettare e lavorare con chi ha commesso reati giova al bene collettivo e alla conoscenza dei percorsi devianti più della pena che il condannato sconta in carcere. (A. Aparo)

Memoria e Impegno (21 marzo 2019)

A Padova, come dei Pionieri, con i temi de Lo Strappo

 

“Porrete nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, perchè siano numerosi i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, come i giorni del cielo sopra la terra”.

Persone nel nome delle quali la Memoria riesce a trasformarsi in Impegno e non in vendetta.

Ecco: forse sta per arrivare davvero la primavera…

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La memoria come strumento di cucitura del legame sociale

(ore 14.30-17.00: Padova, Sala Conferenze Cuamm. Medici con l’Africa – Opera San Francesco Saverio, via San Francesco 126)

La memoria che cuce tramite l’incontro con l'”altro”:

  • l’esperienza del libro dell’Incontro:  p.Guido Bertagna dialoga con Manlio Milani
  • ricucire lo “strappo”: Francesco Cajani

La memoria che cuce costruendo consapevolezza e identità territoriale:

La memoria che accoglie:

  • testimonianze di Familiari di vittime di altri Paesi (nipoti di Hyso Telaraj; sorella di un desaparecido messicano)

Moderano l’incontro: Daniela Marcone e Nando Dalla Chiesa

 

[la registrazione audio integrale del seminario è disponibile qui]

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Elisabetta e i pozzi di Andrea

La tragedia aerea di questi giorni in Etiopia ha comportato, tra l’altro, la morte di otto persone italiane impegnate nella costruzione di spazi di libertà.

In queste settimane è in Etiopia anche Elisabetta Cipollone, un concentrato di energia puntata a realizzare uno dei desideri di suo figlio Andrea: pozzi d’acqua per chi ha sete.

Dopo la morte del figlio quindicenne, travolto sulla strada da chi una sera si era concesso alla follia, un vecchio diario di Andrea bambino le ha permesso di convertire l’odio per chi toglie la vita in determinazione a promuovere la vita e a coinvolgere nel suo progetto anche chi in precedenza ha contribuito a togliere libertà e vita.

Ecco uno scambio di lettere con chi in passato è stato portatore e burattino del degrado sociale e che oggi, grazie a un lavoro di scavo dentro di sé e a un’alleanza con Elisabetta e altri come lei (Paolo Setti Carraro, Marisa Fiorani, Giorgio Bazzega, Margherita Asta), concorre a combattere il degrado.

Ed ecco l’intervista nella quale Elisabetta parla del progetto cui dedica buona parte delle proprie energie e al quale invita a partecipare persone che sono state in passato contrapposte o molto distanti: autori di reato, vittime di reato, comuni cittadini, figure istituzionali, aziende, giornalisti, studenti.

Credo che nel prossimo futuro persone come lei, in accordo con le istituzioni, pianteranno in carcere trivelle come quelle per l’acqua in Etiopia per recuperare e nutrire la coscienza di chi sconta la pena per i reati commessi al tempo in cui la bulimia di grandiositá ottundeva la coscienza di sé e dell’altro.

Sarebbe interessante avviare e finanziare uno studio serio su una sindrome oggi molto diffusa: la bulimia di eccitazione e di grandiosità. Qualche anno fa, al laboratorio del gruppo, ne avevamo anche individuato l’agente del contagio: il virus delle gioie corte.

I pozzi di Andrea, tra l’altro, sono al momento l’antidoto migliore per contrastarne la diffusione ed è per questo che Elisabetta Cipollone, al ritorno dall’Etiopia, sarà ospite al Gruppo della Trasgressione per il progetto: I protagonisti dell’avventura.

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Cara Emanuela

Cara Emanuela,  sono trascorsi 36 anni, una vita,  da quella triste sera e quest’oggi vorrei rassicurarti, e con te Carlo Alberto, che i tuoi nipoti, quelli che a malapena hai carezzato e quelli che non hai mai conosciuto, hanno il tuo stesso sguardo limpido ed aperto verso il mondo, la tua stessa curiosità verso il diverso, libera della paura che in questi giorni attanaglia una parte del Paese. Essi hanno, quale più, quale meno, l’età che avevi quando ci hai lasciato, sono uomini e donne maturi, onestamente consapevoli, come lo eri tu, delle loro fortune e dei privilegi di cui godono, e capaci di riconoscere in ogni essere quel tratto di umanità che ci distingue tutti e che ti ha portato a restituire al prossimo meno fortunato parte della forza e dell’amore di cui godevi.

Come te essi sanno valorizzare il contributo che ognuno deve e può dare alla costruzione della società civile, ciascuno con la sua individualità, secondo le sue capacità, senza settarismi, superando con lo slancio generoso, di cui anche tu sei stata capace, i ristretti limiti degli interessi familiari, di clan, di campanile, aprendosi verso un orizzonte molto più ampio ed elevato di comunità e di Paese.

Essi coltivano la cultura del rispetto, cui sono stati educati, che nasce dal rispetto delle culture, ciascuna con la sua dignità, a dispetto delle naturali diversità, ed in ciò mi ricordano il tuo entusiastico abbraccio della natura e del mondo siciliano.

E, lasciami aggiungere, benché piuttosto silenziosi, poiché non usi a berciare e sopraffare, essi non sono soli, ma rappresentano una quota consistente della nostra travagliata gioventù.

Vorrei anche dirti quanto è stato duro, difficile e spesso doloroso combattere in silenzio e col silenzio i tentativi, anche se umanamente comprensibili, di stravolgere la tua semplice umanità per farne un modello fuori dall’ordinario, elegiaco, a rimarcare una distanza inesistente dal tuo prossimo, elevandoti a icona, perfetta ed irraggiungibile, laddove, viceversa, la tua naturale e disarmante bontà, la tua essenza generosa, erano più che sufficienti a qualificare la tua indole semplice e comune.

Siamo stati educati alla generosità, all’attenzione al prossimo, allo sguardo verso la diffusa sofferenza umana, e mi piacerebbe che anche tu sapessi quanto ho saputo e potuto fare per i miei pazienti, in Italia e all’estero, continuando, benché in modo diverso, i tuoi progetti di vita solidale.

E come non ricordare in questi giorni, in cui incultura ed incompetenza paiono eretti a valori, che nel ’68 hai nuotato contro corrente, contro le semplificazioni estreme del sapere, contro l’opportunismo dell’egualitarismo esasperato, anticamera del disimpegno individuale e dell’irresponsabilità, propugnando il valore dello studio e dell’impegno, della conoscenza e dell’apprendimento.

Vorrei rassicurarti che non ho mai smesso, neppure un giorno, di studiare, di approfondire, di sforzarmi di capire, di ricercare, di migliorarmi perché i beneficiari del mio agire medico e umano potessero e possano godere dei frutti del mio sapere, per poter restituire alla comunità, di cui godo i benefici, almeno una parte di quel che ne ottengo, nella piena consapevolezza del piacere e della gioia che me ne derivano nell’immediato. So di dirti cose che voi ben conoscete, che avete praticato, per cui vi siete consapevolmente sacrificati. Ma non di meno oggi desidero ricordarlo a tutti noi.

E voglio infine ricordarti che, come voi, non ho mai smesso di sognare, né di credere nella possibilità di cambiare la realtà a partire dall’impegno, dal sacrificio, dall’accoglienza e dall’amore.

Con l’affetto e la dolcezza di sempre ti stringo forte, Paolo.

Pensieri dal carcere

Penultima fermata, Città Nuova, novembre 2018
Pensieri dal carcere, di Elena Granata

Abbiamo passato il primo muro di cinta, poi il controllo dei documenti e il ritiro di borse e cellulari, poi un lungo cortile al buio, infine un corridoio lungo e colorato, pieno di murales e di disegni colmi di vita. Eccoci dentro il carcere di Opera, nei pressi di Milano. Entrare in carcere è sempre un’esperienza intensa. Soprattutto per chi entra per una sera e poi sa che farà ritorno alla propria casa: le porte, i muri, i chiavistelli, i controlli, i codici, le armi.

Il coro della scuola dei miei figli è stato invitato ad uno spettacolo insieme a carcerati e così – a fine di una giornata di lavoro – mi trovo lì, in quella sala al buio, da una parte il pubblico dei reclusi, dall’altra le famiglie. La separazione è netta tra noi anche in quel momento. Questioni di sicurezza, ci dicono. Poi la musica, i racconti dei ragazzi che scontano la pena, il maestro di coro che spiega il percorso fatto. Bastano poche ore per ritrovarsi dalla stessa parte, tutti colpevoli e tutti innocenti, qualcuno “dentro” per un destino che magari è stato più crudele, qualcuno “fuori” per coincidenze positive che ci hanno condotti su altre strade. Bastano poche ore per sentirsi legati dal mistero delle nostre vite, così diverse. Ci siamo guardati, ascoltati, ci siamo commossi, abbiamo riso. Di quante sfumature può essere ricca la vita umana. Non si riflette mai a sufficienza su chi rimane dietro quelle sbarre per anni. Talvolta per una vita intera. Nel racconto di tanti di loro vi è il ricordo di un “prima che”. Prima che colpissi mio fratello, prima che perdessi la testa, prima che confondessi il senso delle cose. Un prima di bambini nelle case di infanzia, dello sguardo di un papà che li ha amati, di una maestra che aveva creduto in loro. Oppure un vuoto, nessun papà, nessuna casa confortevole, nessuna maestra attenta a loro.

C’è un prima e un dopo, fatale. La violenza lega per sempre la vittima e il carnefice e poi col tempo la differenza sfuma. Quella sera mi sono sembrati tutti ragazzini – non solo perché la gran parte di loro erano giovanissimi e con pene a lunga scadenza – capaci di emozionarsi per le note di una canzone, per il racconto di un compagno, per il sorriso di una studentessa volontaria in carcere.

È stato dolce e straziante salutarci a fine serata, lì dove le emozioni paiono amplificate dal confino e dalla nostalgia. Mi sono rimaste addosso dolorose le domande di sempre, quelle che dovrebbero turbare la nostra sensibilità di persone libere: che ne sarà di questi ragazzi? È il carcere, così come lo abbiamo sempre pensato, la soluzione sul lungo periodo? Quale è il confine tra colpa e responsabilità?

Basta non varcare mai quella soglia per pensare serenamente che chi ha sbagliato deve pagare. Appena la varchi capisci che quel mondo che abbiamo separato da noi, ci riguarda più di quanto possiamo immaginare. Quello che chiamiamo assassino, ha due occhi grandi da bambino e due occhi enormi che raccontano la sua paura. Non possiamo abbassare lo sguardo.

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