Il timone della mia adolescenza

Ricordo ancora il numero telefonico di casa dei miei nonni paterni, dove sono nato e dove ho trascorso infanzia e adolescenza. Tutti i giorni, in orari che mi dettavano i miei stati d’animo, aspettavo che squillasse il telefono (la chiamata di mio padre). Attese deluse, accompagnate sistematicamente dalle stesse mazzate.

Riuscivo a sentire la voce di mio padre grazie ai rimproveri di mia nonna che, almeno una volta a settimana, lo chiamava per ricordargli della mia esistenza e della sua irresponsabile assenza.

La solitudine che paralizzava le mie curiosità e la necessità di sentirmi accudito, cercavo di colmarle con i sorrisi e qualche carezza delle persone anziane del vicinato. Ma più tempo passava e più l’infame necessità di quel riconoscimento prendeva possesso del mio timone.

Iniziai così a farmi “guidare”, come una prostituta accetta la seduzione più proficua, dal miglior offerente: “Robertino, ma tu sei molto intelligente“, ”Aiutami a scaricare queste casse di sigarette che poi ti do 2 mila lire”, ”Bravo Roberto! Stai diventando un vero uomo e più tardi ti porto con me a vedere le corse clandestine dei cavalli “…

E così, pian piano, iniziarono per me le prime chiamate, fin quando arrivò, dopo tanti ”trofei ” conquistati, la vera, illusoria e definitiva chiamata di Lucifero.

Da quel giorno, pur tra improvvisi turbamenti e il delirio che li imbavagliava subito dopo, cominciai a sentirmi protagonista e compartecipe di un progetto chiamato distruzione e che oggi identifico con il mio fallimento.

La complessità del male aveva spianato la strada alla sua indegna banalità, fino a farmi abortire il dolore per la mancanza dell’unica, vera chiamata che, se ci fosse stata, mi avrebbe probabilmente impedito di consegnare il timone della mia adolescenza e della mia responsabilità al primo e più astuto offerente.

Lo 095/317006 non squillò mai e, quando lo fece, purtroppo per lui e me, si interruppe per sempre la linea.

Roberto Cannavò

Percorsi della DevianzaLa Chiamata

Il padre

I Greci antichi avevano capito molte cose. Tra le loro opere l’Odissea può ancora oggi trasmetterci messaggi preziosi che, tra l’altro, aiutano anche a chiarire alcuni concetti su cui anche noi del Gruppo stiamo riflettendo, accettando alcune interpretazioni o dubitandone.

Nell’isola di Itaca spadroneggiano i Proci, figure proterve che circondano con la loro tracotanza Penelope, regina dell’isola, rimasta sola a governare perché il marito Ulisse è partito per la guerra e, dopo anni, ancora non fa ritorno. La insidiano, si sono installati nella reggia dove passano il tempo tra gozzoviglie e alterchi. Insidiano la sua virtù di donna chiedendola in moglie e pretendendo che lei scelga uno di loro e insidiano nel contempo il suo potere, perché bramano il regno.

Penelope si difende come può, procrastinando la scelta fino al momento in cui avrà finito la tela che la vede impegnata ogni giorno. Ogni giorno diligentemente tesse e la tela si allunga ma poi la notte con altrettanta diligenza la disfa, accorciandola.

Telemaco, il principe figlio di Ulisse e Penelope, cresciuto senza padre e divenuto adolescente non sopporta più la situazione. È arrabbiato col padre perché è cresciuto senza di lui, gli sono mancati attenzione, affetto, insegnamenti, sicurezza che la presenza di un padre dovrebbe garantire. È arrabbiato, poco gli importa che suo padre sia un guerriero valoroso, un eroe di cui la società ha bisogno.

È molto arrabbiato ma capisce che senza il padre la situazione sua, familiare, dell’isola, sarebbe precipitata fino a un punto di non ritorno. E allora prende la sua prima decisione da uomo: va a cercarlo. Arma una nave, si procura l’equipaggio e lui, giovane che non si è mai allontanato da casa, inesperto di mare e digiuno di arte della navigazione, va a cercare il padre.

Reparto LA CHIAMATAGenitori e Figli

Nuccia Pessina

Sentirsi parte del mondo

Sono atea ma credo nell’uomo. Credo fortemente che l’essere umano abbia la necessità, dalla nascita alla morte, di sentirsi aiutato a comprendere se stesso, a farsi strada nel mondo per sentirsene parte vitale. Ognuno di noi sente il bisogno di essere supportato e affiancato lungo questo cammino, per riconoscersi ed essere riconosciuto per ciò che si è o che si vorrebbe diventare. Che sfida! Che lavoro e… che fatica!

Quanti di noi possono dire di avere avuto, nel percorso della propria storia, alleanze e collaborazioni che lo abbiamo supportato ed aiutato a scoprirsi e a valorizzarsi con un progetto credibile? Io, per prima, se penso a me stessa in adolescenza, ho immagini e sensazioni di frustrazione ed immane senso di disorientamento, condito con una buona dose di sfiducia ed il tutto accompagnato da paura del futuro e senso di inadeguatezza.

Sono sensazioni alle quali il più delle volte non troviamo una giustificazione o di cui non arriviamo a comprendere il senso e l’origine, la complessità. Molte volte si incontrano persone, adolescenti per i quali a tale complessità si aggiungono rabbia, arroganza, fonti di frustrazioni e malesseri tali da portarli all’abuso sugli altri e ai reati.

Bene, di fronte a loro e con loro, altri uomini hanno la possibilità di esserci! Con il reparto “La Chiamata”, esseri della stessa specie spalancano, gli uni agli altri, il portone alla bellezza ed al valore della propria esistenza. Persone, tutte le persone che saranno parte di questo progetto (detenuti, ex detenuti, studenti, psicologi, comuni cittadini, ecc.), dovranno scambiarsi emozioni, pensieri, vita.

Penso che attraverso la riscoperta della grandezza dell’essere umano e la frequentazione delle sue bellezze (letteratura, opere d’arte, scienza, filosofia), in questo reparto si debba dare a ciascuno, con lo sguardo, l’ascolto, il confronto, la possibilità di rendersi attivamente partecipi di questa immensità e di arrivare ad appropriarsene, a crescere e, perché no, a creare nuova bellezza. Ciò che di immenso e bello ha potuto creare un uomo, può e deve essere per altri un contenitore per sentirsene parte e uno stimolo per aggiungere la propria parte.

Spero e credo possibile che in questo reparto tutti possano giungere a sentirsi capaci e fieri di coltivare, anche attraverso la propria fragilità, le proprie potenzialità, fieri e capaci di guardare in faccia il proprio passato, ringraziandolo di essere tale e di proseguire il cammino, acquisendo ogni giorno nuova consapevolezza, responsabilità e il piacere di vivere per se stessi e per gli altri.

Reparto LA CHIAMATA

Ludovica Pizzetti

Avrei dovuto chiedere aiuto

Un futuro esiste anche per me… bah, lo spero! Sono stato prigioniero di un circolo vizioso fatto di volere cose, ottenerle e poi volerne delle altre. Provavo insoddisfazione… non riuscire a smettere di desiderare sempre altro è deprimente, non c’è dubbio.

La sofferenza è sempre stata dentro nella mia vita, avrei dovuto accettarlo e trovare il modo di elaborarla. Sono convinto che l’energia che c’è dentro di noi ci permetta di crescere e di vivere le nostre emozioni, ma io, purtroppo, non sono riuscito ad incanalarla come avrei dovuto. Ora non so se la mia vita è degna di essere vissuta, sono bloccato in questo circolo vizioso di lotta e desiderio.

A vent’anni non riuscivo a superare la mia infanzia turbolenta, che mi impediva di fare ciò che volevo e di raggiungere ciò che desideravo diventare. Se fossi riuscito a non dare troppo peso a quello che altri facevano della mia sofferenza, forse non avrei procurato danni ad altri.

Mi rimane la frustrazione di non essere riuscito a parlare con qualcuno di questa mia sofferenza, di non avere saputo affrontare me stesso, capire che mi stavo autodistruggendo… ma non ci sono riuscito. Ma sono io… come avrei potuto, se non ero capace di esternare le mie emozioni o di stare tranquillo mentre tenevo un discorso con qualcuno? Da quando ho memoria di me, non ci sono mai riuscito.

Con gli anni la cosa è andata sempre peggio, pur conducendo una vita tranquilla e riuscendo in parte a nascondere questo mio lato. Poi, però, sono arrivati i primi problemi, quando per nascondere tutto ciò non bastava più solo una maschera. Arrivati ad una certa età, bisogna esternare le proprie emozioni, la propria personalità, il vero io, altrimenti i legami che crei, man mano con il tempo, si sciolgono, oppure passi per un debole.

Ogni persona si rapporta con te in base a come è fatta e in base a ciò che tu riesci a trasmettere. Sono riuscito a nascondermi così bene che in una relazione durata anni non ho mai tirato fuori chi ero veramente. È brutto svegliarsi di fianco alla persona che ami e sapere che nascondi parte di te. Ancora peggio, non riuscire a mostrare tutto te stesso neanche con la tua famiglia. Ho passato la mia vita in gran parte intrappolato in un limbo tra me e me, nell’illusione di conoscermi.

La droga per me è stata come un tappeto elastico, dove quando salti e sei in alto nell’aria ti senti leggero, e in quel momento, anche se breve, pensavo di potermi liberare… ma in realtà non era così. Non ero veramente io, l’ho capito solo dopo, anche se quasi sicuramente lo sapevo anche prima… ma d’altronde era più facile pensarla così, mentre vivevo certe situazioni scomode, certi pensieri e certe gesta.

Come si può pensare di vivere una vita, dopo che tu stesso ne hai tolta una? Quindi, come si può pensare di andare avanti? Sono pentito fino al midollo e vorrei poter fare uscire questa stranezza da me. Ma sono stanco. Dovrei solo accettarla.

In carcere è ancora più difficile, perché si è costretti ad aprirsi per forza, che lo si voglia o no. Un percorso del genere non dovrebbe essere una forzatura, ma sono dovuto passare di qui per farlo. Ho avuto 24 anni per farlo, ma non ne sono stato capace.

Spero che ci sia un Dio in grado di darmi delle risposte. Sono certo che non possano esserci mezze verità dopo la morte, o c’è tutto o non c’è niente, accetterò ciò in cui credo.

Si raccoglie ciò che si semina, e purtroppo ho seminato poco e quel poco l’ho bruciato troppo in fretta. È questo il momento di gettare nuove fondamenta, per essere sicuro che siano solide.

Riprendendo il filo del discorso, io ho tanta paura di ciò che c’è dopo la morte, ma allo stesso tempo, in realtà, non ce l’ho. Qualsiasi punizione mi verrà assegnata, so che sarà giusta. Alla fine, la paura è radicata in ognuno di noi, e chiunque dica che non ha paura di nulla mente solo a se stesso, perché prima o poi nel corso della propria vita si arriva a farci i conti. Che poi si sia diventati bravi a nasconderla è un altro conto, ma la paura non ci abbandona mai, è costantemente lì.

Sono logorato e soffro ogni giorno e cerco di nascondere tutto con una tranquillità assurda, non riesco a concepire come io sia stato capace di togliere una vita. Quel giorno se ne è andata via anche una parte di me.

Non sono mai riuscito ad impuntarmi nella mia vita, avrei potuto affrontare tutto come un uomo, quando invece ho solo agito da ragazzino, pensando di essere un uomo.

Avevo la possibilità di confessare tutto e prendermi fin da subito le mie responsabilità, ma anche in quel caso il ragazzino ha preso il sopravvento: la codardia, il guardare negli occhi la mia famiglia e non riuscire a dire niente. Avevo perso tutto e non riuscivo ancora a capacitarmi di come sia potuto succedere, come io abbia potuto superare il limite.

Tutto il dolore che io ho causato alla famiglia della vittima – e anche alla mia famiglia – è un peso troppo grande da sopportare. Dovrei lasciarmi tutto alle spalle come mi dicono, ma solo un pazzo potrebbe fare una cosa del genere. Sicuramente anche io sono preda della mia pazzia, ma non così tanto da sopprimere tutto ciò, o almeno per il momento.

Se avessi avuto più spina dorsale nella vita, se avessi provato a mettermi in gioco e non a nascondermi sempre, molto probabilmente non sarei qui ora. Ci sono stati diversi traumi nella mia vita, che piano piano mi hanno fatto costruire questa sorta di maschera che mi serviva da parafulmine contro gli altri, soprattutto per non ricordare. Ma questa situazione non ha fatto altro che peggiorare, facendomi chiudere definitivamente in me stesso, non permettendomi più di dire la mia, per quel poco che riuscivo, diventando come un giocattolo che sta fermo ovunque lo metti.

Sicuramente le droghe non hanno fatto altro che peggiorare le cose, portandomi sempre più a fondo… tutto per quel poco di libertà che credevo potessero darmi. Se non fosse stato per le droghe, quella situazione molto probabilmente l’avrei affrontata in un altro modo: come al solito a testa bassa, mandare giù e via. Sarebbe stata sicuramente la cosa migliore. Avrei dovuto chiedere aiuto, ma chiedere aiuto significa dover affrontare tutto il tuo passato, significa mettersi a nudo, cosa che non ho mai fatto.

Pensavo di conoscere me stesso? Ma come possiamo essere certi di conoscerci, quando forse nella nostra mente ci sono zone che non siamo in grado di conoscere direttamente, come stanze che restano sempre chiuse, nelle quali non ci è dato entrare?

Ripensando alla mia storia personale, sono giunto alla conclusione che la vera origine del mio malessere sia dovuto a quel tipo di ricordo inquietante che io trattavo come se non lo fosse. Poi ci sono le cose che vogliamo fare e quelle che non ci rendiamo conto di voler fare. La mente le reprime, prova a tenere questi pensieri nascosti nell’inconscio. Molti di questi si formano durante l’infanzia, come ad esempio avvenimenti accaduti quando ero piccolo, che possono riemergere durante l’età adulta.

Questa terapia detta “parola” sblocca i pensieri che ci turbano e rimuove alcuni sintomi. È come se l’azione di parlare alleggerisse la pressione delle idee con le quali le persone, sofferenti come me e bloccate dalla paura, vorrebbero confrontarsi. Un altro modo per rendersi conto di questi sintomi è attraverso i lapsus, che escono fuori quando ci capitano situazioni che rivelano i desideri che ci rendiamo conto di provare.

Spero che il gruppo della trasgressione, gli altri gruppi che frequento e il confronto possano in qualche modo far emergere questi desideri, per renderli guardabili e forse anche superarli. Con la consapevolezza di portarmi questo peso sulle spalle per tutta la vita, sperando che il mio senso di colpa non mi schiacci.

Reparto LA CHIAMATA  –  Percorsi della Devianza

Hamadi El Makkaoui

La parola come terapia

Una delle cose che mi ha colpita di più durante gli ultimi incontri nel carcere di San Vittore è stato l’uso della parola come terapia. Prendere parola davanti ad altre persone non è mai stato il mio forte, non intervenivo mai in classe, non rispondevo alle domande dei professori, nemmeno quando sapevo la risposta giusta. La paura di far brutta figura o di non essere all’altezza di quello che le altre persone dicevano mi ha sempre bloccata. Tante volte, poi, mi sono pentita di non essermi buttata, di non aver avuto il coraggio di parlare o di rispondere, di mettermi a nudo.

Mi ricordo il primo giorno che mi sono collegata al gruppo esterno online, tutta contenta ed emozionata di ascoltare gli altri con telecamera e microfono spento, come se fossi un fantasmino. La stessa cosa feci le prime volte in carcere. Ero convinta che andasse bene così, che bastasse starmene in un angolino ad ascoltare e ad osservare, a trascrivere tutto quello che sentivo sul mio quadernino.

Mi sbagliavo. Sono stata più e più volte (e per fortuna) incoraggiata dal professore a condividere con i presenti i miei pensieri e le mie emozioni. Inutile dire che, quando toccava a me, aprivo i rubinetti alla massima potenza senza dir nulla oppure tiravo fuori parole arrangiante in modo confusionario e disordinato, giusto per non fare scena muta.

Mi sono chiesta tante volte il motivo di questo mio atteggiamento, ma non ero mai riuscita a darmi una risposta che mi convincesse davvero. In questi giorni ci ho pensato ancora e forse una risposta l’ho trovata. Mi sono resa conto, da quando frequento il gruppo, che effettivamente la parola sblocca i pensieri che viaggiano incontrollati da una parte all’altra della nostra mente. Parlare permette di decifrare questi pensieri e, in questo modo, aiuta ad avere consapevolezza delle proprie emozioni.

Ecco perché mi riesce così difficile. Non sono molto brava a capire le mie emozioni, non riesco a decifrarle e a dar loro un nome. Questo mi porta ad arrabbiarmi e a piangere. Sto male e mi consumo, finché qualcuno mi ferma e mi aiuta a ragionare in maniera tranquilla. Ma che fatica!

Il problema è che dire qualcosa ad alta voce mi spaventa, come se la cosa diventasse vera per il fatto che la dico, che le do un nome. C’è stato un episodio in particolare nella mia vita che mi ha fatto rendere conto di quanto io faccia fatica a dire le cose ad alta voce e a chiamarle col loro nome, invece di trovare sinonimi che ne sminuiscano l’entità.

Ci sono state occasioni in cui, pur avendone bisogno, non sono riuscita a chiedere aiuto, a dire a voce alta che era successo qualcosa. Nella vita però sono stata fortunata, perché ho avuto accanto persone che sono state in grado di cogliere il mio malessere e di accompagnarmi piano piano alla decisione di parlarne con un professionista.

Questo mi ha aiutata a prendere consapevolezza di quanto mi era successo…  e non dico di essere riuscita a superare quel dolore al 100%, ma sono riuscita quanto meno ad accettarlo, a conviverci e a non farmene più una colpa.

Quando vedo persone che riescono a fare tutto questo io mi emoziono, perché ci vuole non poco coraggio. Spero col tempo di riuscire ad essere così brava anche io, di riuscire a togliermi di dosso questa maledetta insicurezza, perché a me, le persone che hanno il coraggio di essere loro stesse, piacciono tantissimo.

Camilla Bruno

Reparto LA CHIAMATA

Cavarmela da solo

Ciao mi chiamo O. Se devo pensare a una delle prime delusioni, forse alla prima volta che mi sono sentito davvero tradito, è stato all’età di 8 anni circa. Correvano i primi anni 2000 ed io ero un bambino curioso e con molta immaginazione, avevo molti amici nel quartiere, certo non erano dei santi ma erano i miei amici, loro c’erano.

I miei litigavano di continuo e forse per questo vedevo negli amici una seconda famiglia. Un giorno mentre siamo a tavola con mio zio, mio padre insulta mia madre. Lei ferita, nell’orgoglio, prende la bottiglia di vino che stava lì sul tavolo, la rompe e si squarcia il petto.

Tra il vino rosso e il sangue non sapevo più dove iniziava il sangue e dove finiva il vino. Pochi istanti dopo mi ritrovo sull’ambulanza con mia mamma.

Conoscendo già la mia situazione a casa, la polizia porta direttamente mio padre in carcere. Io e mia madre dopo la notte in ospedale veniamo accompagnati in una comunità per madri e figli. Il giorno dopo mi sveglio in questa casa nuova dove non conoscevo nessuno. Che ne sarebbe stato di tutti i miei amici?

Come potevo spiegare delle cose che non capivo neanche io? Mi sono sentito tradito dalla vita, da mio padre, da mia madre. Per molto tempo sono rimasto chiuso nel mondo che mi sono creato. Crescendo, ho cominciato a non fare più affidamento sui più grandi e a cavarmela da solo.

Sentivo che nessuno poteva capirmi, ma allo stesso tempo sono sempre rimasto fedele ai miei amici. Certo non tutti lo sono stati con me, ma sto imparando bene a selezionarli. Per esempio questo gruppo della chiamata mi sembra uno di quegli amici che possono lasciarmi qualcosa di buono e io spero di fare altrettanto.

Reparto LA CHIAMATA  – Percorsi della Devianza

Aprire le porte

Il reparto “La chiamata” per me è speranza: è qualcosa di presente perché dobbiamo attuarlo adesso; è qualcosa di futuro perché deve espandersi nel tempo e nella nostra realtà.

Molte persone non credono nella reintegrazione dei detenuti, si chiedono “ma davvero chi ha commesso dei reati può cambiare?”. E penso che a quest’ultimi e a questa società ci sia bisogno di dare una risposta anche nel concreto. E possiamo farlo con il nuovo reparto.

I detenuti possono cambiare e ritrovare la propria coscienza, ma questo avviene se c’è qualcuno che li guida. Questo progetto ha l’obiettivo di dare un ruolo a tutti i detenuti e agli ospiti in generale che ne faranno parte, dà la possibilità di essere riconosciuti come uomini e come cittadini. È importante sentirsi parte di qualcosa, trovare quegli obiettivi che prima mancavano, capire che non siamo destinati ad essere alienati dalla società.

I detenuti sono uomini che devono ritrovare la propria coscienza e a cui deve essere data la possibilità di esprimersi, di riflettere su sé stessi e sulla realtà che li circonda, devono essere stimolati da professori, studenti, volontari e attraverso attività culturali.

Come si può pensare che una persona possa reintegrarsi se non dispone degli strumenti giusti? Il reparto La chiamata è il punto di partenza che deve aprire la mente non solo alle persone detenute o alle guardie penitenziarie, ma anche a tutto il mondo esterno.

Da parte mia, sento in primo luogo il bisogno di impegnarmi nella diffusione di tutte le attività proposte dal gruppo, il bisogno di sentirmi utile per l’altro.

Tutti noi siamo diversi, ed è questa la bellezza dell’uomo, ognuno di noi ha qualcosa da dare e tanto da acquisire dagli altri. Unire le abilità dei vari membri e metterle a disposizione di tutti è una grandissima risorsa che deve essere sfruttata nel migliore dei modi. Dare qualcosa è fondamentale quanto l’apprendere qualcosa di nuovo. Il reparto ci offre questa possibilità e non possiamo tenerla nascosta. Si devono aprire le proprie porte al mondo nella speranza che esso sia pronto ad accoglierci, affinché cambi finalmente la visione del carcere e del detenuto stesso.

Chiara Palma

Reparto LA CHIAMATA

Il volto si riscrive

Il volto d’ogni uomo si sciupa e si riscrive
Antonino Di Mauro

Il tempo fugge… e ogni cosa si modifica, si deteriora, cambia: mutano i paesaggi, si alterano le cose, il volto di ogni uomo si sciupa e si riscrive nel sopravvenire delle rughe, così come la sua anima.

Come mai non sono stato capace di proteggere quella bellezza naturale con cui ogni essere umano nasce e che io sento ancora dentro di me? Come sono giunto a tale degrado?

Un ambiente disattento e degradato, salvo per qualche raro caso fortunato, può spiegare la vita di un uomo incrostato nell’animo e indurito nelle sue forme? Di un individuo arrabbiato, che ha letteralmente bruciato la sua esistenza? Che cosa mi aveva ridotto a una tale condizione? Come mai non sono stato capace di proteggere quella bellezza naturale con cui ogni essere umano nasce e che io sento ancora dentro di me?

Certamente ho bisogno di curare il mio essere perché è stato trascurato! Ma come si può curare un uomo cresciuto in balia di se stesso, convinto che le sue scelte fossero quelle giuste e quelle degli altri quelle sbagliate? Come fargli capire che lui il carcere lo ha già nella sua testa e che di questo carcere è lui stesso il carceriere? Quali sono gli strumenti per aiutarlo a crescere a dispetto degli anni, delle scelte, delle trasgressioni di una vita? Per riportare l’animo a una nuova bellezza che dentro di noi vuole tornare a risplendere? Forse una risposta vera e propria non esiste!

L’essenziale, per quella che è la mia esperienza, è ricercare e ritrovare in quello stesso uomo proprio il punto in cui si è perso; nutrirsi dei primi ricordi e riprovare a crescere in maniera naturale proprio dal momento in cui la fiducia nella guida si è spezzata; ritrovare quella stessa fiducia in chi oggi è presente e ti soccorre, in chi crede nella persona che puoi essere e vuoi diventare, e ti tende una mano. E credo che la cultura abbia un ruolo fondamentale in questo processo di ricostruzione e rigenerazione della personalità.

Infine, penso che quell’uomo avrà bisogno del maggior sostegno nel momento in cui avrà piena coscienza del fallimento della propria vita. Dico il maggior aiuto, perché credo sia un momento delicatissimo, dove si può raggiungere la depressione più totale.

Personalmente, potrei dire che fra tutti i miei rimpianti vi è quello di aver trascorso così tanti anni dove sono stato e dove mi sono privato del bello.

Restauro & Recupero  – Cittadinanza Attiva alla Fondazione Clerici