La “mia” mappa per la pena

Nel trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio (simbolo di una memoria collettiva rivolta a tutte le persone perbene, uccise da mani mafiose), rimetto in ordine alcuni appunti e li affido – sempre più fiducioso – alla nostra capsula del tempo

 

Accadde che un pomeriggio di fine aprile 2022 Angelo Aparo detto Juri, con quel tempismo organizzativo che tutti gli riconosciamo, mi chiamò chiedendomi se “avessi piacere” a presenziare il 25 maggio successivo ad un incontro a Roma presso il Senato della Repubblica e a dire qualcosa.

Quando ho riattaccato il telefono, dopo avergli detto di sì meravigliandomi di ritrovare in agenda proprio quella giornata libera da impegni di udienza, mi sono chiesto se per questo incontro avesse pensato a me come magistrato o come cittadino: la domanda è solo apparentemente mal posta perché, se mi guardo indietro, ho conosciuto prima il Gruppo della Trasgressione e, solo dopo un anno, sono diventato pubblico ministero per aver superato un concorso pubblico.

Ed in effetti fu proprio grazie alla lettura del libro “I pugni nel muro” che esattamente 20 anni fa aiutai un Professore di una scuola superiore a portare una sua classe nel carcere di San Vittore, perché ritenevo importante anche io – ai tempi solo un educatore,  anche se laureato in giurisprudenza – che dei giovani potessero avere occasioni di “aprire gli occhi” sul mondo che li circondava.

Di questo mio primo incontro con i detenuti del Gruppo ho già scritto una volta:

Ricordo ancora perfettamente 40 minuti fitti fitti a sentire parlare, tra le altre cose, di uno psicologo che aveva fondato un Gruppo detto addirittura “della Trasgressione” e ad un certo punto, seduto fino a quel momento in silenzio intorno al tavolo, una voce che soddisfa la mia curiosità: “il dott. Aparo sarei io”.

E’ capitato a molti di scambiare Juri per un detenuto, e così è capitato a me fino a quando l’ho sentito prendere la parola.

E non è stato amore a prima vista, si badi bene… questo lo ricordo sempre perché a quell’incontro ne seguì un altro, nei mesi successivi in un bar vicino al carcere, che suggellò quello che in altre occasioni ho definito “un patto tra macellai”.

Nella mia incoscienza educativa proposi [ad Aparo] uno scambio di prigionieri: carne giovane di giovani scout in cerca d’autore vs. carne meno giovane ma ugualmente interessante. I primi prigionieri dei preconcetti tipici dei loro 19/20 anni, i secondi prigionieri di mura troppo strette. Entrambi però desiderosi di evasione, e – sia pure in quella prima fase inconsapevolmente – di mettersi a nudo fino al punto di farsi tagliare a piccoli pezzi da questa prospettiva di cambiamento interiore.

Nonostante queste premesse e la circostanza che poi superai anche il concorso per magistratura, l’idea (nostra, perché in fondo in fondo so per certo che lui non aspettava altro per il Gruppo) risultò vincente: partimmo nel marzo dell’anno dopo (2003) con il primo incontro in carcere, e da quel momento non abbiamo mai smesso […].

Questo fiume vitale [di giovani, entrati negli anni in carcere] condusse, quale dono della moltiplicazione, all’approdo del Gruppo della Trasgressione in molti istituti scolastici. Ed impagabile fu per me il piacere di constatare che un gruppo di criminali riusciva ad incidere sull’indole di adolescenti, in 3 ore di “lezione” nelle classi, molto più di quanto gli insegnanti in un triennio.

All’esito di questo mio cammino ventennale, a me sembra importante (e spero utile) mettere ordine ad alcuni accadimenti – di cui posso dirmi testimone diretto in quanto legati alla mia frequentazione con il Gruppo della Trasgressione – i quali con il tempo hanno generato nella mente (e anche nella pancia) di un pubblico ministero questi due spunti di riflessione.

Il primo parte da un passaggio dell’intervento (a ricordo dell’impegno sociale e culturale di Francesca Morvillo con i più giovani) che ho sentito pronunciare dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia lo scorso 6 maggio quando anche io mi trovavo nell’aula bunker di Palermo all’esito dell’incontro dei Procuratori europei del Consiglio d’Europa:

“C’è un nesso tra educazione e contrasto alla criminalità che non dobbiamo stancarci di coltivare.

E c’è un nesso tra rieducazione dei detenuti e sicurezza pubblica che dobbiamo imparare ad apprezzare in tutta la sua portata, come ci indicano anche gli strumenti internazionali […]”.

Vorrei concentrarmi sulla prima frase e, dalla mia particolare prospettiva di pubblico ministero, affermare che questo “nesso tra educazione e contrasto alla criminalità” deve necessariamente essere coltivato a partire dalla formazione degli studenti di giurisprudenza, prima che essi intraprendano il percorso per diventare magistrati (ma anche, lasciatemelo dire, avvocati).

Questa idea, che forse può apparire a prima vista un poco astrusa, io la voglio invece con forza ricollegare al bel titolo di questo incontro in Senato – “una mappa per la pena” – perché mi ricorda quando, alcuni anni fa, proprio con il Gruppo della Trasgressione siamo andati in un Istituto di istruzione superiore a Sesto San Giovanni a passare un intero pomeriggio solo perché una Professoressa (che si chiama Sofia Lorefice e che conobbi, quattordici anni prima, quale giovane scout partecipante ad uno dei nostri primi incontri in carcere) si era messa nella testa che si potesse parlare di Cittadinanza e Costituzione agli studenti del quinto anno anche in questo modo, ossia grazie ad un incontro di testimonianze apparentemente diverse.

Io arrivai a quell’appuntamento con un passaggio di un intervento di Piero Calamandrei (tenuto alla Assemblea Costituente nella seduta del 4 marzo 1947) il quale ricordava a tutti noi come la Costituzione è fatta anche di disposizioni cd. programmatiche e tra esse, a mio modesto avviso, è compreso anche l’art. 27 comma 3. Calamandrei propose di inserire questo tipo di disposizioni non già nella forma di articoli ben determinati ma in una sorta di Preambolo. Ma poi, proprio in questo intervento, spiegò chi riuscì a fargli cambiare idea e come:

Ecco, nell’essere pionieri in questo nostro viaggio dovremmo iniziare a distribuire queste mappe sulla pena nelle aule universitarie, prima che nei Tribunali. Perché, allo stesso modo, anche quando siamo andati – grazie, questa volta, ad un fecondo protocollo di intesa tra le università milanesi e l’associazione Libera – un intero pomeriggio all’Università Bicocca di Milano ad accompagnare alcuni Familiari delle vittime della criminalità mafiosa (ricordo, in particolare, Paolo Setti Carraro e Marisa Fiorani) ho percepito, alla fine della profondità dei loro interventi,  la fortuna che quei giovani studenti di giurisprudenza avevano avuto proprio grazie quell’incontro.

Fortune che, per esempio e per quanto possa qui valere, io non ho avuto: diversi Professori (da Federico Stella ad Angelo Giarda) mi hanno lasciato un segno indelebile nel diritto e nella procedura penale ma quanto a tutto il resto (che oggi è al centro di questo nostro ragionamento) io personalmente lo devo ai casi della vita e non alla struttura precostituita del mio percorso universitario.

Concludo allora questo primo spunto con una rivelazione per quei detenuti del Gruppo che erano a Sesto San Giovanni quel pomeriggio del 2019: alcuni mesi fa, mentre ero in ufficio in Procura, verso le 13 bussa alla mia porta un ragazzo che mi dice: “sono venuto in Tribunale per un convegno, lei sicuramente non si ricorda di me ma volevo dirle che dopo quell’incontro nella nostra scuola mi sono deciso ad iscrivermi a giurisprudenza. Buon pomeriggio e grazie”. Ecco, ve lo dico oggi perché se poi Giacomo diventerà un magistrato lo avrete anche voi sulla coscienza!

Questo poi lo dico anche perché ricordo perfettamente, una decina di anni fa, la posizione di alcuni magistrati (sia pure autorevoli) contrari al fatto che gli allora uditori giudiziari (oggi magistrati ordinari in tirocinio) cominciassero a svolgere – per la prima volta rispetto a quanto era sempre avvenuto in passato – una parte del loro percorso  formativo dentro il carcere, perché (si sosteneva) era importante rimanessero “non psicologicamente condizionati” in tal senso.

Per quanto mi riguarda, posso dire – come avrete ormai capito – di avere una fitta frequentazione (non solo nel mio lavoro quotidiano ma anche quando poi, quantomeno un fine settimana all’anno, mi metto le scarpe da tennis e vado a partecipare ai lavori del Gruppo in carcere) con persone detenute per aver commesso dei reati ma di stare invece, nonostante questo tipo di frequentazione, dalla parte delle vittime.

Io, tra vittima e carnefice” è appunto il titolo di una mia riflessione che accompagna un importante lavoro che, insieme a Juri Aparo e altri due professionisti (il criminologo Walter Vannini e il giornalista Carlo Casoli), nel 2017 – dopo una gestazione di oltre 7 anni – fa abbiamo regalato alla città di Milano, a Libera, all’Agesci e a tutte quelle altre realtà educative interessate a far capire cosa succede – nel tessuto sociale – ogni volta che viene commesso un reato.

Questo lavoro è racchiuso in 63 minuti di un documentario, liberamente fruibile in rete dal sito lostrappo.net, che appunto si intitola “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”. Abbiamo rivolto le stesse tipo di domande a chi ha subito un crimine, a chi lo ha commesso (e qui il documentario è ricco di interventi di molti detenuti del Gruppo della Trasgressione, ripresi nei loro ragionamenti durante alcuni incontri), a chi è chiamato ad amministrare giustizia e a chi invece è chiamato, nel mondo dei media, a raccontare a tutti noi questi fatti.

Tutto questo materiale è stato montato da 4 bravissimi professionisti (che si fanno chiamare Dieci78) in maniera tale che, come ha scritto in una acuta recensione Manuela D’Alessandro,

“i protagonisti dello ‘Strappo’ hanno una cosa in comune. Si cercano tutti, in uno strano girotondo, anche per maledirsi, e si toccano tutti anche solo per vedere com’è la pelle dell’altro”.

E arrivo allora al secondo spunto di riflessione, che questa volta mi chiama in causa direttamente come pubblico ministero (e non più come, in un tempo ormai lontano, studente di giurisprudenza): cosa ci faccio io in questo “strano girotondo”?

E questo spunto di riflessione lo ricollego, ancora una volta, a quella “intervista sulla punizione” a cui il Gruppo sottopose me – insieme ad altre persone, a dire il vero molto più esperte di me su quel tema – nel 2005. Io ero alla fine del mio primo anno in Procura a Milano dopo la presa di possesso come pubblico ministero e già mi sembrava che qualcosa non tornasse nel modo in cui l’art. 27 comma 3 della Costituzione venisse “declinato” nella pratica.

Sarà che, per la mia tesi di laurea, ho lavorato più di un anno presso il Tribunale per i minorenni di Milano per “confutare”, numeri alla mano sui tassi di recidiva, il pensiero di un magistrato che riteneva che la custodia cautelare per un soggetto di minore età potesse avere, a differenza di quanto di regola non avviene per i maggiorenni, una efficacia “educativa”.

Ma al di là di questa mia esperienza pregressa, la domanda era e rimane anche oggi questa: a chi si dovrebbe rivolgere l’art. 27 comma 3? A quale magistrato questa norma, appunto e sempre nell’ottica del Sommo Poeta, deve illuminare la strada?

Solo al magistrato della sorveglianza che appunto “esegue” la pena? O, al più, anche al giudice che tale pena “applica”?

E invece, quanto al pubblico ministero…. lo lasciamo fuori dall’art. 27 comma 3 della Costituzione? Lo lasciamo fuori, a fare – permettetemi l’ironia – “il bello addormentato”?  Ossia il magistrato che, come nel quadro di un celebre pittore francese dell’ottocento (Thomas Couture), se la dorme nel mentre? Ricordo peraltro a tutti che è il pubblico ministero, di regola, il primo “volto della giustizia” che il reo incontra sul suo percorso!

Ecco, io ho sempre creduto di no… ho sempre creduto che l’art. 27 comma 3 della Costituzione chiami in causa anche me e, più in generale, ciascun pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Ed è anche per questo che ricordo di aver passato un lungo pomeriggio in un bar (un altro bar sempre nei dintorni di San Vittore) a cercare di farmi spiegare dal dott. Aparo perché quel mio indagato – rispetto al quale tutta la scena del crimine parlava a favore della sua colpevolezza – non volesse raccontarmi la verità.

Volevo farmi spiegare quali fossero i meccanismi, nella testa di una persona, che potevano consentirle di cogliere per davvero il senso di quanto avesse compiuto ed intraprendere così un percorso di cambiamento.

Ma, credetemi, ritenevo che non tanto per me (o, ancora peggio, per il buon esito della mia indagine) quella verità doveva essere raccontata.

Perché 13 colpi erano esplosi alle 9 del mattino in un parcheggio di una città dell’hinterland milanese, due persone erano morte e ad un’altra persona (allo stesso tempo sorella e figlia delle due vittime) durante tutto il processo non importava nulla del fatto che il pubblico ministero (che ero io) avesse chiesto l’ergastolo … lei voleva una cosa diversa: voleva parlare con il carnefice!

Ecco, gran parte di quello che posso dire di aver imparato dalla mia frequentazione con il Gruppo della Trasgressione può essere ben riassunto da una domanda di senso. Domanda alla quale io ho personalmente assistito, con una sofferenza per me lacerante (ma questa è un’altra storia che qui non interessa) mentre il dott. Aparo si rivolgeva ad un detenuto non del Gruppo che, sia pure condannato in nome del popolo italiano, aveva appena concluso un suo intervento pubblico affermando di “non sentirsi responsabile” per quello che era successo:

 “se lei è un cristiano, come dice di essere, la vittima per definizione è suo parente… non le sembra quindi strano che lei non sappia come rivolgersi a quella persona che è morta, se non dirle che non si sente responsabile per quello che è successo? Perché è solo quando l’uomo cerca la sua responsabilità che diventa libero”.

Ecco, io credo che questa mappa di cui stiamo cercando di tracciare i contorni debba arrivare a concepire una modello di giustizia penale nella quale il reo non sia più responsabile solo “di qualcosa” (di un omicidio o di una truffa qui poco importa) ma  anche responsabile “verso qualcuno”.

Una mappa che ci porta verso quella necessità di “punire bene”, per dirla con Duccio Scatolero le cui riflessioni mi hanno letteralmente folgorato durante la mia tesi di laurea.

Dove appunto il “punire bene” diventa un vero e proprio diritto per il reo e per l’attuare del quale è imprescindibile una punizione in cui il ruolo di colui che punisce non si esaurisca nell’atto di irrogare la pena.  Perché appunto se ogni colpevole ha il diritto ad essere punito bene, questo significa – in altre parole – che proprio tramite l’atto del punire lo Stato deve prendersi idealmente carico del suo esito e, per esso, della sua piena efficacia. Solo in questo modo – continuava Scatolero – la punizione acquista allora anche il significato dell’essere presente per il reo, laddove altri – la famiglia, gli amici, la società – non ci sono stati.

L’essere presente per il reo” allora, per il pubblico ministero e come accennavo prima, è essere dunque “qualcuno che ti cerca”. Qualcuno che cerca non solo di rendere verità e giustizia per le vittime ma che si pone, all’interno delle indagini che è chiamato a compiere per il compito che la Costituzione gli affida, tra gli obiettivi anche quello – se possibile – di cercare l’uomo dentro il criminale.

Il che è un compito difficilissimo, cari componenti del Gruppo della Trasgressione, perché l’esame di magistratura – al momento – non ci chiede neppure lontanamente di sapere fare anche questo…

Così come immagino sia stata una iniziativa personale ed estemporanea della Prof.ssa Mariella Tirelli (e non già del sistema universitario in sé) quella che ha portato Alessandra Cesario a frequentare il Gruppo, durante il suo percorso di studentessa di giurisprudenza che l’ha vista poi laurearsi nel 2008 con una tesi sul metodo APAC (carcere senza carcerieri, nelle quali “entra l’uomo” e “il reato resta fuori”).

Nella mia tesi di laurea, invece, nel 1997 avevo inserito anche questa citazione letteraria, quasi un omaggio alla mia importante esperienza educativa scout:

“C’è anche questo di bello nella legge della Jungla: che la punizione salda ogni conto e non lascia rancori. Mowgli appoggiò la testa sulla groppa di Bagheera e si addormentò così profondamente che non si risvegliò nemmeno quando fu deposto a fianco di mamma Lupa nella caverna”.

Nella mia continua ricerca di una terra dove il punito Mowgli possa addormentarsi, lui sì, sulla groppa di Bagheera (che lo ha ben sanzionato dopo averlo cercato e compreso), consentitemi però – giunto alla fine di questa mia testimonianza – una domanda retorica: “caro Juri, cosa succederà quando, come ragionevolmente te lo puoi concedere dopo tutti questi anni di fatiche, non avrai più piacere a continuare a camminare lungo questo percorso?”

In altre, e meno retoriche, parole: chi dovrà clonare il dott. Aparo? Chi dovrà saperne estrarre il DNA del suo metodo di lavoro? Chi dovrà continuare a tenere acceso quel “lume”, a cui Dante faceva riferimento, verso questa direzione già intrapresa e ben fino ad ora sperimentata?

Bene, anche a beneficio di tutti quei giovani che si vorranno avvicinare a questa così impegnativa professione che è quella del magistrato, credo che davvero sia arrivato il momento che le Istituzioni facciano la loro parte, a partire da domani mattina, perché questo “centro studi e laboratorio permanente” che viene proposto in questo incontro in Senato possa diventare presto una realtà feconda in tutta Italia e non solo nelle tre carceri milanesi dove il Gruppo attualmente opera.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

– F. MANTOVANI, “Diritto penale. Parte generale”, III edizione, Milano, 1992, pp. 741 ss
– F. STELLA, Prefazione in E. WIESNET, “Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita”, Milano, 1987
– D. SCATOLERO, Atti delle Giornate nazionali di studio e di riflessione sull’applicazione del nuovo codice di procedura penale minorile, Milano 23-24 ottobre 1992, p. 136
– C. MAZZUCATO, La giustizia dell’incontro in G. BERTAGNA-A. CERETTI-C. MAZZUCATO (a cura di), “Il libro dell’incontro”, Milano, 2015
– F. OCCHETTA, “La giustizia capovolta”, Milano, 2016

Una mappa per la pena

Un pomeriggio di libertà

Alcuni giorni fa, con il Gruppo della Trasgressione, ho avuto la possibilità di trascorrere un pomeriggio nel carcere di Opera, una realtà che mi ha sempre incuriosito sin da ragazzina. Premetto che già in altre occasioni ho potuto assistere alle attività del gruppo e più volte avrei voluto scrivere un mio pensiero riguardo le emozioni che ho provato in questi incontri, ma essendo riservata e insicura mi sono sempre bloccata.

Sembra un paradosso, ma ascoltando le parole di alcuni detenuti ho provato una sensazione di pura libertà. Quella libertà mentale che da tempo stavo cercando. Grazie agli interventi dei detenuti, delle vittime delle mafie e degli studenti, ho rivisto in me quella bambina che ho tenuto nascosta fino ad oggi e soprattutto la rabbia che tenevo sotterrata.

Riflettendo sul mio passato mi sento di dire che a differenza dei detenuti sono stata fortunata a non perdermi quando mi sono sentita tradita dagli affetti più cari. L’avere vissuto in un collegio per i tre anni delle scuole medie, per scelta dei miei genitori, mi ha segnato particolarmente a tal punto da farmi sentire sbagliata sia all’interno della mia famiglia che nella società. Intanto la rabbia in me aumentava sempre di più e mi spingeva a sentimenti di vendetta nei confronti delle persone che mi stavano accanto. Oggi a distanza di molti anni e mamma di tre figli posso affermare, pur non avendo commesso reati, che quell’evento ha segnato la mia vita e avrebbe potuto spingermi a svendere i miei valori.

Ascoltando le varie persone del gruppo mi sono resa conto che questo rancore e questa sete di vendetta esistono ancora dentro di me e si ripresentano in ogni occasione, ad esempio esco da una separazione dolorosa, un fallimento che mi ha portato ad avere anche qui una rabbia ingestibile dentro di me da non riuscire a perdonare e a perdonarmi. In carcere, accanto ai detenuti, mi sono sentita libera respirando la loro forte voglia di libertà. Immedesimarmi in loro mi ha permesso di percepire le motivazioni che li spingono al cambiamento, proprio ciò di cui ho bisogno anch’io pur essendo una cittadina libera. Anche le parole delle vittime delle mafie e di una studentessa mi hanno colpito e ricordo che mi è sorta spontanea una domanda: ma chi sono io per poter giudicare e non riuscire a capire la forza del perdono? Q

uesta per me è stata un’esperienza forte ed emozionante al tempo stesso per cui ringrazio soprattutto il mio compagno e poi il Gruppo della Trasgressione che mi hanno permesso di viverla e di guardarmi dentro.

Francesca Zani

Il mondo della devianza

Viaggio di andata e ritorno
nel mondo della devianza

Traccia per un incontro con un gruppo di studenti
alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio cui prendono parte detenuti, studenti universitari, familiari di vittime di reato e comuni cittadini per

  • chiedersi insieme quali sono gli ingredienti che favoriscono l’ingresso nel mondo della devianza, con i comportamenti e i sentimenti che lo caratterizzano;
  • sperimentare attraverso il lavoro e dei progetti comuni le strade più utili per diventare membri attivi e riconosciuti della collettività.

A tale scopo,  i diversi componenti del gruppo, danno spazio ai sentimenti e alle loro eterogenee esperienze per chiedersi in collaborazione:

 

come si acquista il biglietto di andata:

  • Le condizioni familiari e ambientali, i conflitti, le turbolenze dei primi anni di vita;
  • le fragilità, il bisogno di conferme, la rabbia, il senso di rivalsa dell’adolescenza;
  • La brama di diventare grandi e l’urgenza di accorciare i tempi per sentirsi indipendenti dalle prime figure di riferimento;
  • la seduzione, gli attori, le forme, i meccanismi;
  • I modelli di riferimento e l’ambiente nel quale si ottengono i primi riconoscimenti dal boss, dalla banda;
  • L’iniziazione, la sfida, i gradini dell’ascesa all’interno del gruppo dei pari;
  • I meccanismi di assuefazione all’abuso con “la banalità e la complessità del male”;

 

come si lavora per quello di ritorno:

  • le attività, le aree di interesse e di intervento, i progetti;
  • le collaborazioni all’interno del gruppo e con le istituzioni;
  • le risorse interne e le alleanze possibili.

 

L’incontro con alcuni studenti della cattedra del prof. Francesco Scopelliti è stato registrato su Zoom ed è conservato negli archivi del Gruppo della Trasgressione.

Percorsi della devianza

Ancora in piedi [I’m still standing]

Dice bene quel grande genio di William Kentrigde:  “il suono cambia quello che vediamo e quello che vediamo ha un effetto su quello che sentiamo”.

Uno stesso suono può dunque essere diversamente veicolato nella nostra mente a seconda delle immagini alle quali esso viene abbinato. E così può accadere che, per i casi della vita, una canzone che mi aveva sempre parlato – per tanti anni fino a quel preciso momento – di un amore disperato tra un uomo e una donna possa assumere, meravigliosamente quanto imprevedibilmente, il significato diverso di un legame tra un padre ed un figlio.

https://www.youtube.com/watch?v=pHZneOidj9A

Don’t you know I’m still standing better than I ever did /non lo sai che sono ancora in piedi meglio di quanto non lo sia mai stato ?

Looking like a true survivor, feeling like a little kid / sembrando un vero sopravvissuto, sentendomi come un bambino piccolo

I’m still standing after all this time / sono ancora in piedi dopo tutto questo tempo

“Papà, ma se era così tanto forte non poteva scappare prima dalla prigione?”

“Non credo, lo ha potuto fare solo grazie al potere della musica”, ho abbozzato io come risposta alla curiosità di mio figlio.

Devo ammettere che prima di scoprire il Kentrigde regista teatrale mi aveva colpito il Kentrigde disegnatore “in bianco e nero”, e più ancora quanto l’artista sudafricano è solito raccontare nelle interviste in merito a quella scatola che vide sulla scrivania di suo padre quando aveva l’età di 6 anni. Credendo contenesse cioccolatini, la aprì e vi trovò invece “immagini di una donna con la schiena spazzata via dai colpi d’arma da fuoco, di qualcun altro di cui la metà del viso era visibile”. Questo perché il padre, Avvocato di Johannesburg, un anno prima aveva assunto la difesa delle famiglie delle vittime del massacro di Sharpeville (21 marzo 1960 – la polizia sparò sui dimostranti, uccidendo 69 persone di colore).

Nell’osservare le animazioni di Kentridge si nota come la cancellatura di un tratto di matita non viene utilizzata per eliminare un errore quanto per dare costruzione al filmato. Allo stesso modo mi ha sempre colpito il fatto che l’artista difficilmente utilizzi un foglio bianco per i suoi disegni ma parta sempre da qualcosa già realizzato in natura. Come se per riprendersi da quello shock avesse trovato nell’Arte il giusto vaccino per restituire al dolore subìto un significato più profondo, che nulla ha a che fare con il dimenticare quanto piuttosto con il lasciare riemergere quello che è stato senza che di conseguenza quello che sei diventato  venga per ciò stesso rimesso sullo sfondo.

Allo stesso modo anche questo 2020 ci ha regalato, anche recentemente in diretta Zoom e sempre complice l’infaticabile Juri Aparo, testimonianze di padri che riescono a cogliere – nel tempo lungo della pena detentiva – l’occasione per tentare recuperare il loro rapporto con i figli (anche essi, in questo senso, vittime dei reati da loro commessi e congelati negli affetti di un tempo passato).

Ed è così che, alla fine di quest’anno così difficile per tutti (vittime o carnefici poco importa anche durante questa pandemia) e così inaspettatamente faticoso anche per me, ho pensato fosse utile ripartire da quelle parole rosa scritte da mia figlia per la Giornata della memoria e dell’impegno, rimaste appese sulla porta della nostra cucina nelle settimane successive del nostro lungo lockdown milanese.

E custodire tra le cose che mi hanno più utilmente sconvolto l’immagine di Ulisse in un letto di ospedale, alla quale – nel mezzo del mio cammino che è stato fortemente segnato dall’esperienza del Gruppo della Trasgressione e dall’incontro di molti Familiari di vittime – oggi posso anche io aggiungere un suono (potere della musica, altra medicina di questo triste 2020): “sono ancora in piedi”.

Una scena dell’opera lirica «Il ritorno di Ulisse in patria» di Monteverdi [allestimento di William Kentridge]

Ma, potendo scegliere, non voglio “sembrare un vero sopravvissuto” quanto piuttosto “sentirmi come un bambino piccolo” che è stato (ri)generato da una esperienza terribile. Perché – davvero – sono le nostre fragilità, se affrontate, a renderci più forti.

Con affetto e riconoscenza, nella speranza di rivedervi tutti di persona nel 2021 per continuare insieme il nostro viaggio finora così fecondo.

Empatia fra persone diverse

Filippo Greco

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Cambiare il mondo

Luigi Negrini

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Intervista con Max Rigano

Conversazione con un giornalista libero dalla compulsione
di dover vendere eccitazione a tutti i costi e a basso prezzo

1. Che cos’è il gruppo della trasgressione?
Un laboratorio di ricerca sulle condizioni soggettive e ambientali che portano un ragazzo a negare la propria e altrui fragilità, a diventare sempre più sordo alla voce dell’altro e a inquadrare come obiettivi della propria vita ricchezza e potere invece che conoscenza e nobiltà. Ma il gruppo è anche un laboratorio dove detenuti, studenti universitari e familiari di vittime di reato si sollecitano vicendevolmente a superare la sordità e a recuperare frammenti di coscienza di sé e dell’altro. Quando le cose funzionano, tale attività permette di vivere nuove alleanze e di uscire dalle paludi morali e psicologiche nelle quali a volte si finisce.

2. In che modo questo processo di autocoscienza smuove la psicologia dei detenuti arrivando a cambiarli?
Uno dei processi che avvengono quando si frequenta il gruppo per anni è l’investimento sulla propria curiosità e il piacere di scoprire che si possono utilizzare risorse personali cui prima non si faceva caso. In ognuno di noi ci sono parti della mente che somigliano a un pianoforte di cui non ci siamo mai accorti o sul quale non avevamo mai avuto il coraggio di mettere le mani. Al gruppo della trasgressione le persone (detenuti, studenti, familiari di vittime) prendono confidenza con lo straniero e, gradualmente, sviluppano una lingua e delle procedure che permettono di giocare lo stesso gioco e di prenderci gusto, cioè di vivere il piacere di allargare i confini della coscienza e della conoscenza.

3. Come hai conosciuto Giacinto Siciliano e quando hai capito di poter cominciare questo percorso con i detenuti?
Ci siamo conosciuti nel 2007, poco prima di portare anche a Opera e a Bollate il gruppo della trasgressione, fino a quel momento attivo solo a San Vittore. I detenuti che frequentavano il gruppo a San Vittore (carcere che ospita chi non ha ancora ottenuto la condanna definitiva) chiedevano di poterne far parte anche dopo il trasferimento in altre carceri. Con il provveditore regionale di allora, Luigi Pagano, con il direttore di Opera, Giacinto Siciliano, e con la direttrice di Bollate, Lucia Castellano, abbiamo quindi concordato di far partire il gruppo anche negli istituti di Opera e Bollate.

4. Cosa significa cambiare un uomo? Come avviene il cambiamento?
Il cambiamento suscita sempre delle resistenze. Se poi una persona deve cambiare nella direzione predefinita e dettata da un’altra, allora il cambiamento viene vissuto come una minaccia alla propria identità e la resistenza aumenta. Ciò detto, Il cambiamento meglio accetto, più significativo e duraturo è quello che avviene senza che la persona si accorga di cambiare e, soprattutto, senza che un agente esterno imponga di cambiare. Il cambiamento, dunque, avviene intanto che si gioca, si lavora, si progetta insieme. Quando si hanno obiettivi comuni, ciascuno mette in campo risorse utili al raggiungimento dell’obiettivo. Gli obiettivi che si coltivano al gruppo della trasgressione fanno sì che autori e vittime di reato, studenti e comuni cittadini investano parte delle proprie risorse e delle proprie energie per raggiungere lo stesso scopo: oggi prendere lo straccio e il detersivo per pulire la sede che abbiamo appena aperto, domani andare in una scuola dove detenuti e studenti insieme mettono in scena il mito di Sisifo per poi stimolare gli studenti a riflettere sui tanti possibili percorsi della fragilità, dell’arroganza e della coscienza.

5. Essere uno psicologo ti mette a confronto anche con le tue parti più profonde, con la tua affettività o con la tua aggressività: come le gestisci quando vengono sollecitate nel lavoro di gruppo?
Mi sono allenato negli anni a far diventare la mia aggressività un gioco, un esercizio per riformulare i termini della relazione fra lo psicologo e il detenuto. Negli anni, l’affetto che cresce col tempo fra me e i detenuti e la mia stessa aggressività sono diventate risorse per riformulare i criteri delle gerarchie e rendere tangibile che il potere più duraturo e gratificante viene dalla capacità di aiutare l’altro a crescere e a migliorarsi. Quando ho bisogno di affermare la mia forza e il mio legame con loro mi metto a parlare di cose complicate e un po’ disorientanti. Per esempio, li rimbambisco sostenendo che il delinquente è una persona che ha bisogno di ripristinare una giustizia violata, ma non avendo strumenti adatti per farlo, si serve della pistola. In questo modo, spesso riesco a convincerli che loro hanno bisogno di me per capire meglio quale giustizia cercavano quando usavano la pistola o la cocaina.

6. Ho fatto la stessa domanda a Giacinto Siciliano: che significa essere un uomo?
Cercare, evolversi, contribuire all’evoluzione della specie e della realtà in generale. La velocità con cui la specie umana è cambiata e ha prodotto cambiamenti nell’ambiente non ha paragoni con quello che possono fare gli altri animali. Essere uomo per me vuol dire coltivare il piacere di conoscere e di evolversi, utilizzando i percorsi degli altri uomini per migliorare il proprio e viceversa.

7. Rifaresti tutto quello che hai fatto?
Nei fatti sto continuando a farlo. Saranno poi gli altri a decifrare se l’ho fatto perché ostinato come un mulo o perché ne valeva la pena. Dopo tanti anni di impegno, oggi vedo crescere il numero e la portata delle iniziative e delle collaborazioni fra il gruppo della trasgressione e la realtà istituzionale e questo mi fa pensare di poter fare ancora strada verso l’obiettivo con cui sono partito quando ho aperto il gruppo 23 anni fa, cioè contribuire a una cultura della pena che abbia come unico scopo l’evoluzione della persona condannata e delle istituzioni che se ne occupano. Non ci sono infatti pene afflittive, retributive o riparative che, di per sé e senza un progetto oltre la pena, permettano alla collettività di ottenere gli stessi vantaggi che vengono raggiunti con l’evoluzione psichica e morale di chi ha abusato del proprio potere sull’altro. Evolversi è una necessità per l’uomo e un dovere per ogni cittadino e per ogni collettività. La pena, dal mio punto di vista, deve consistere solo nel costringere la persona ad evolversi, ricordando che la sola evoluzione possibile avviene quando non ci si sente costretti a cambiare.

Interviste: Giacinto SicilianoAngelo Aparo

Max Rigano su Facebook – Torna all’indice della sezione

Te chiedo scusa a Ma’

A Ma’ stasera nun torno
va a letto nun m’aspetta’
faccio ‘n sarto all’artro monno…
Te chiedo scusa a Ma’
c’era n’amico ‘n difficoltà
nun me la sentivo de scappa’…
Erano tutti grossi e muscolosi
c’avevo na paura
se vedeva che erano pericolosi…
M’hanno ammazzato come n’animale
ma che ho fatto de male ?!?!?
A Ma’ hai visto come so piccolo
però so dovuti veni ‘n tanti
co sto sorriso li sdrajavo tutti quanti …
Mortacci loro come menavano
io ar massimo je sorridevo…
Te chiedo scusa Ma’
ma quarcuno li doveva affronta’ …
Quarcuno je doveva fa capì che sbajaveno
c’avevano troppo veleno…
Quello che nun capisco de sta gente
invece de divertisse e ride
vanno in giro a cerca’ e sfide…
Se sentono forti e onnipotenti
ma a strigne so na massa de deficienti…
A Ma’ io volevo solo mette pace
de litiga’ nun me piace…
Aho’ mo non voglio passa’ da eroe
l’ho affrontati
ma c’avevo na paura de sti tatuati…
Poi a Ma’ non ho più sorriso
Ma che se fa così
senza neppure n’avviso
Me so spento
lento lento…
Ancora adesso me sto a chiede er perché
de tutta sta cattiveria e rabbia verso de me…
Ora te saluto a Ma’
Che c’ho da fa’…
Sto a sali e scale
Me devi promette che nun starai male…
Ammazza quante so che fatica
ricorda che la vita nun è finita…
Ogni vorta che te manco pensa a sto sorriso
Che er fjo tuo te sta vicino dar paradiso

Er Poeta Romantico Fastidioso

In ricordo di Willy Monteiro Duarte

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Un vaso a me caro

Sto ristrutturando un vaso a me molto caro.
Andato a pezzi molti anni fa.
In parte già ricostruito.
Ora devo colmare una voragine.
Sto mettendo stucco.
Un pezzetto alla volta.
Lascio asciugare e poi vado avanti.
Ci vuole tempo
Tanto tempo
E pazienza.

Quando sarà finito lascerò ben evidenti le fratture.
Le dipingerò con pittura dorata.
Come nell’arte giapponese del kintsugi.
Ciò che ne verrà fuori sarà qualcosa di diverso .
Ma pur sempre un vaso.
Bellissimo e prezioso, almeno ai miei occhi.

Fin troppo facile il paragone con la mia vita.
Andata a pezzi.
Ricostruita un pezzetto alla volta.
Con i segni evidenti di ciò che fu, di ciò che rimase e di ciò che ora è.

Ma è pur sempre vita.
Meraviglioso dono di un Dio che ho rinnegato troppo a lungo
Ma al quale ora la affido dicendogli
Sia fatta la tua volontà.

Elisabetta

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Per quanto voi vi crediate assolti…

“Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti “
Fabrizio de André

Mi aggancio alla citazione finale di De André nello scritto di Manuela per proporre una riflessione ulteriore sul film “L’insulto” di Ziad Doueiri.

Riparto dalle parole finali del giudice del film che prima di emettere la sentenza assolutoria dice:”Qui ci sono due persone che sostengono di essere vittime e ci chiedono di decidere chi ha più torto”.

In questa premessa ci sono a mio avviso due concetti utili per nutrire la riflessione sulla banalità e complessità del male.

Concetto numero uno: “ La dialettica dei pugni”. Ovvero stabilire chi ha più torto ha senso solo se si suppone che esista una sola ragione.

Nel film vengono presentate ragioni opposte, entrambe valide, che determinano un conflitto insanabile finché le posizioni restano orientate l’una contro l’altra.

Nel caso del film le posizioni conflittuali vengono sintetizzate dai due avvocati difensori e sono le seguenti:

  1. Anche se Yasser fosse l’uomo più oppresso de mondo, nessuno gli dà il diritto di farsi giustizia da solo.
  2. Yasser Salem reagisce a parole che hanno offeso la sua identità e quella del suo popolo. Quando si oltrepassa il limite, ci si deve aspettare una reazione. È normale, inevitabile, umano.

Gli avvocati argomentano dialetticamente a favore dell’una e dell’altra tesi: ciascuno segue una traiettoria riconoscibile, sensata, condivisibile a seconda dell’orientamento personale di chi ascolta. Tuttavia ciascuna posizione corre parallela all’altra: è impossibile che si incontrino e si accordino.

La prima affermazione sta alla base dello Stato di diritto.

La seconda ha a che fare con il conflitto tragico da Antigone in poi: ovvero la legge naturale che esiste ed ha valore anche quando entra in conflitto con la legge stabilita.

Mi vengono in mente le parole di papa Francesco che fecero grande scalpore nel mondo cattolico all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo in Francia: “Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. È vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasbarri, che è un amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno”.

Nel film è proprio un pugno ad aprire il conflitto e poi è un altro pugno a fargli cambiare rotta.

Il conflitto che per buona parte del film sembra essere insanabile comincia a cambiare direzione quando, dopo una buona dose di dolore e fatica, ciascuna delle parti in causa, Toni e Yasser, riconosce nella propria storia la presenza dei torti subiti dall’altro: solo quando ciò avviene diventa possibile chiedere scusa.

Yasser non era disposto a chiedere scusa a un arrogante che credeva di avere il diritto di insultare lui e il suo popolo: inizia a cambiare idea quando scopre che Toni gli assomiglia. Da parte sua Toni inizia a mostrare che la sua ferita ha qualcosa in comune con quella di Yasser quando decide di aiutarlo a far ripartire la macchina.

Ma non basta questo, Yasser non vuole essere perdonato o compatito.
Prima di chiedere scusa Yasser ha bisogno di sentire la reciprocità: ha bisogno di sapere che Toni è consapevole di non essere né meglio né peggio di lui ma pari, almeno nella sofferenza. Per questa ragione va per la seconda volta alla sua officina, lo provoca e si fa sferrare un pugno. Solo in quel momento, in cui è innegabile il torto di entrambi Yasser chiede scusa.

Personalmente questa scena del film mi ha colpita molto: i due protagonisti si riconoscono nelle spinte problematiche che li hanno reciprocamente portati a sferrare il pugno l’uno contro l’altro è non nelle loro legittime ragioni.

Per quanto prima si sentissero assolti ciascuno dalla propria ragione è a suon di pugni che scoprono di essere coinvolti in un torto comune che provoca dolore.

Concetto numero due: sentirsi vittime

Frequentando il Gruppo della Trasgressione credo di avere imparato che nella mente di chi commette un reato c’è quasi sempre, in qualche forma più o meno chiara, consapevole e sensata, la sensazione di essere vittima di qualcosa o qualcuno.

Questa sensazione di mancanza e/o di sopruso subito e non riconosciuto è una “fame” che autorizza la sedicente vittima a trasformarsi in carnefice che fa altre vittime, le vittime dei reati appunto.

Ma, a reato avvenuto questa “fame” del carnefice/vittima viene disconosciuta da tutti: dal giudice che non è chiamato a giudicarla, dalla vittima che fa i conti solo con il proprio dolore e dal reo stesso che spesso ha bisogno di convincersi di aver agito come ha reagito perché voleva farlo e non perché spinto da una “fame” sulla quale non ha nessun controllo.

Finché il reo non trova le condizioni per fare spazio all’ascolto della propria “fame”, riconoscerla e darle in pasto vissuti differenti, difficilmente riconoscerà la sua e le altre vittime e si muoverà nella direzione del reinserimento nella società.

Mentre il giudice in tribunale può, anzi deve, sulla base della legge decidere chi ha più torto tra le vittime più o meno manifeste, il Gruppo della Trasgressione cerca, in accordo con il dettato costituzionale, di promuovere il riconoscimento di tutte le ferite per permettere di ricucire “lo strappo” avvenuto nel tessuto sociale.

In questo senso, come diceva giustamente Manuela “per quanto noi ci sentiamo assolti siamo per sempre coinvolti”.

Infine, come sintesi dei due concetti di cui sopra, mi viene in mente l’intervento di Paolo in risposta alla domanda di Roberto che si chiedeva come facessero le persone che gli dimostrano stima e simpatia a fare i conti con il terribile passato che lui oggi disapprova ma comunque non rinnega.

Paolo gli ha risposto raccontando di quella volta in cui è arrivato sul punto di uccidere un uomo. Poi ha detto che, per certi versi, il dolore per la consapevolezza che avrebbe potuto uccidere è più pesante del dolore che ha subito per la morte violenta della sorella Emanuela.

È come se Paolo avesse voluto dire a Roberto che oggi loro due possono avere a che fare l’uno con l’altro in modo autentico, non perché Paolo sia disposto a sorvolare sul passato di Roberto o faccia uno sforzo magnanimo nei suoi confronti. Tutt’altro, Paolo può accettare di fare strada con Roberto perché non lascia che il dolore per la perdita di Emanuela gli impedisca di riconoscere le parti più problematiche del proprio sentire. Sono queste infatti che gli permettono di riconoscere Roberto, tutto Roberto, comprese la sua storia passata e la fatica della sua evoluzione.

Sofia Lorefice

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