Ci vuole orecchio

Per fare certe cose ci vuole orecchio

Mi sono occupato e mi occupo da sempre della creazione di immagini, ma ho iniziato tardi a fare quadri. I primi, più simili ad illustrazioni che a veri e propri lavori artistici, li ho fatti proprio grazie al dott. Aparo, alla Trsg.band e alle canzoni di De André. In seguito la mia produzione ha continuato spesso in parallelo con le iniziative e i progetti del Gruppo della Trasgressione. Da allora sono trascorsi quindici anni; oggi faccio molto meno cose, il più delle volte per amici e conoscenti.

Mi piace che alcuni miei lavori compaiano sul sito del gruppo, ci sono molto affezionato, al gruppo ma anche ai quadri. Quelli che compaiono in questa galleria sono legati a momenti diversi di ricerca espressiva, perché di ricerca principalmente si è trattato. Nel frattempo il mio rapporto con il fare artistico è cambiato molto, più disincantato. Mi diverte sempre mettere insieme forme, colori, materia, ma è più un libero gioco creativo, un piacere estetico fine a sé stesso, un pretesto per uno scambio fra amici, senza la necessità di trasmettere messaggi o particolari significati, più o meno comprensibili.

Mi sono convinto infatti – o più semplicemente mi piace vedere la cosa in questo modo – che un quadro non deve essere la trasposizione di pensieri che anziché essere stati scritti o detti sono stati dipinti, non deve essere tradotto in concetti per essere capito; anzi a mio avviso un quadro non va capito, va semplicemente guardato. Si capiscono i libri, non i quadri.

Quando ascoltiamo un brano musicale cosa facciamo? Lo dobbiamo tradurre in concetti prima per goderne poi? Lo ascoltiamo e basta; il linguaggio della musica non necessita di traduzioni per essere goduto, la sua comprensione è immediata e del tutto interna a quello che sentiamo.

I quadri sono come una composizione musicale: la musica si ascolta, il quadro si guarda. E quello che vediamo non sta al posto di un’altra cosa ma è esattamente l’evento a cui stiamo partecipando. Avviene come nella musica dove i suoni arrivano direttamente all’orecchio, e cominciano ad evocare atmosfere, sensazioni, emozioni. Non c’è bisogno che il cervello si chieda che cosa significa quello che stiamo ascoltando, per sentire il piacere di ciò che ascoltiamo.

Fare un quadro è mettere insieme forme, colori, materiali e accostarli tra loro ad “orecchio”. Se si è operato bene ne risulta una composizione viva e di ampio respiro. E se c’è questo, c’è quello che serve per produrre in chi “ascolta” il quadro, il piacere di un’esperienza visiva. Senza ovviamente togliere ad ognuno la libertà di speculare a proprio gusto su ulteriori piani di significato.

Adriano Avanzini

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Enzo Jannacci – Ci vuole orecchio –  YouTube

 

Burattini danzanti

Burattini, burattinai, scelte, libertà.
Ragnatele per catturare burattini,
che diventano labirinti in cui si perdono i burattinai.

Danziamo, seguendo ritmi e melodie,
che ci trascinano fino a farci perdere,
mentre cerchiamo armonie di cui sentirci autori.

Ci deve essere un modo, una palestra, una via
per non sciupare la malinconia,
per una speranza che non sia pura follia,
per un gradino che allarghi l’orizzonte,
senza scordare che non c’è vita senza ponte.

Angelo Aparo

La responsabilità dei burattiniNelle mani del burattinaio
Un labirinto dove si è perso Dedalo – Lo scopo del dolore
La nostra palestraLa galleria di Franco Scoccimarro

 

Dialogo tra inconscio e ragione

DIALOGO TRA INCONSCIO E RAGIONE
Scoccimarro non ha padri
di Davide Lajolo

Questo è sostanzialmente vero e nuovo: ecco un pittore per il quale è inutile cercare i padri, vicini o lontani. E’ un pittore che si è costruito, grezzo o elegante, così come è, in modo piuttosto strano: ragionando con l’inconscio. Pare ed è una contraddizione mettere accanto all’inconscio la ragione, ma tant’è, a Franco Scoccimarro è toccata quest’avventura.

Perché lui è fatto così, la sua cultura si è intrisa nei suoi pensieri intimi e pubblici, nelle sue idee cui gli è impossibile rinunciare fino a sposare, con una testardaggine impetuosa e tenera, l’inconscio con la ragione. Perché lui vuol essere un uomo sempre usando la ragione fino ai limiti dell’impossibilità. Di fronte si è trovato l’abisso vertiginoso dell’inconscio.

Se c’è un padre a questi lucidi furori è Freud, ma Freud non dipingeva, scavava immagini e sensazioni, diagnosi e contraddizioni, ritorni indietro e fughe in avanti fino a tentare di mettere la mordacchia ai suoi allievi quando tentavano di andare oltre le sue scoperte o cercavano applicazioni inedite. Freud può essere un amico o un nemico. Bisogna intendersi. L’affascinante è pericoloso, lo è sempre più oggi in cui il mondo rotola verso rivoli o fiumi che paiono non avere sbocco. Non c’è più il mare, s’è perduto o si è fuso con il cielo o con altre cose o materie incomprensibili?

In questo mistero Franco Scoccimarro si è buttato a capofitto perché l’aveva, questo mistero, chiuso dentro di sé ed era come crepitasse, anzi gli scoppiasse in petto.

C’era una sola possibilità per evitare la fine minacciata, arroccarsi nella solitudine; attorno vi era troppo chiasso, troppa incompatibilità, c’era la caserma degli uomini e ceppi per chi non voleva sottostare. La tentazione era forte. La solitudine è abbacinante per i giovani. C’è l’illusione di trovare la purezza dell’incontro con se stesso. Ma Franco Scoccimarro ha voluto evitare questo miraggio; da un lato con il lavoro quotidiano ma nel vero, per l’anima cercando nel segno e nel colore di riproporre a sé e agli altri le immagini, le folate di colori, gli intrecci inesplicabili tra spazio, presente e tempo.

Certo che questo giovane meditativo e colto sapeva che per fare il pittore bisogna anche conoscere il mestiere oltre a certe doti che nessuno sa di possedere appieno; ma lui ha cominciato, come detto all’inizio, ragionando con il suo inconscio per il bisogno di popolare la sua solitudine esistenziale, per parlarsi e scoprirsi nella realtà sempre più fantomatica e nei sogni. Non sono i sogni quando senti di dormire e quando stai nell’inedia operativa ad occhi aperti a proporti tutti gli incontri e i dialoghi, tutte le visioni e gli interrogativi più peregrini? Non è nel sogno che dai mano a Freud e vai avanti in una strada che forse è in grado di rivelarti il tuo Io?

Ecco perché Scoccimarro ha cominciato a dipingere prima che a disegnare, ad incontrarsi nei suoi arcobaleni dentro i quali colloca tante presenze incompiute, figure multiple, volti e mani e il corpo delle donne dispiegato come un’onda, a volte intoccabile, a volte da sentirlo tattilmente con i polpastrelli e non solo nel lucore delle pupille.

Eccone i frutti. Questi dipinti, questi disegni, questo dialogo incompiuto, questo gemere e questo urlare, questo tacere e questo ragionare. La radice è qui. Ho detto all’inizio di questa presentazione che Scoccimarro non ha paternità da rivendicare né da rinunciare, né da difendere. Però insistendo nel guardare di giorno in giorno sorgere le sue immagini e le sue meditazioni a segni e colori, mi sono venuti in mente certi dipinti fra l’elegante e l’ironico di Roy Liechtenstein, del tempo della Pop Art, ma visti con i suoi mezzi e la sua cultura, con quei lampi di giallo e rossi e neri e quel volteggiare di luce che ti possono dire appunto con l’ironia del confronto, come è lucente il buio della notte. Un pittore che è entrato fatalmente nel suo subconscio e se ne è liberato sbrigativamente all’apparenza, ma senza aver tratto la convinzione di avere saputo esplorare la profondità della psiche, anzi la certezza opposta: più vai a fondo e più ti perdi.

E allora giochiamo con i segni e i colori, facciamo il nostro arcobaleno, i nostri salti mortali con capovolta, sfoghiamo il gusto di prenderci per il bavero. Un maestro di parodie ma mai ostile, presentate con gradevolezza.

Ecco Scoccimarro che probabilmente non ha mai visto nulla di Roy Liechtenstein scopre la sua arte con un tentativo di ironia. Forse non è scanzonato abbastanza nei confronti dell’arte e della vita, forse ha ancora il pungiglione della solitudine, il gusto della sofferenza, ma le sue figure cominciano a divincolarsi dai lacci, dagli impedimenti, cominciano a volare.

Se riescono a ghermirti mentre le osservi o almeno a conturbarti, ad emozionarti, a portarti nel limbo fra sogno e realtà, Scoccimarro ti ha fatto il suo discorso, ti ha donato un po’ della sua poesia.

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Intervista con Max Rigano

Conversazione con un giornalista libero dalla compulsione
di dover vendere eccitazione a tutti i costi e a basso prezzo

1. Che cos’è il gruppo della trasgressione?
Un laboratorio di ricerca sulle condizioni soggettive e ambientali che portano un ragazzo a negare la propria e altrui fragilità, a diventare sempre più sordo alla voce dell’altro e a inquadrare come obiettivi della propria vita ricchezza e potere invece che conoscenza e nobiltà. Ma il gruppo è anche un laboratorio dove detenuti, studenti universitari e familiari di vittime di reato si sollecitano vicendevolmente a superare la sordità e a recuperare frammenti di coscienza di sé e dell’altro. Quando le cose funzionano, tale attività permette di vivere nuove alleanze e di uscire dalle paludi morali e psicologiche nelle quali a volte si finisce.

2. In che modo questo processo di autocoscienza smuove la psicologia dei detenuti arrivando a cambiarli?
Uno dei processi che avvengono quando si frequenta il gruppo per anni è l’investimento sulla propria curiosità e il piacere di scoprire che si possono utilizzare risorse personali cui prima non si faceva caso. In ognuno di noi ci sono parti della mente che somigliano a un pianoforte di cui non ci siamo mai accorti o sul quale non avevamo mai avuto il coraggio di mettere le mani. Al gruppo della trasgressione le persone (detenuti, studenti, familiari di vittime) prendono confidenza con lo straniero e, gradualmente, sviluppano una lingua e delle procedure che permettono di giocare lo stesso gioco e di prenderci gusto, cioè di vivere il piacere di allargare i confini della coscienza e della conoscenza.

3. Come hai conosciuto Giacinto Siciliano e quando hai capito di poter cominciare questo percorso con i detenuti?
Ci siamo conosciuti nel 2007, poco prima di portare anche a Opera e a Bollate il gruppo della trasgressione, fino a quel momento attivo solo a San Vittore. I detenuti che frequentavano il gruppo a San Vittore (carcere che ospita chi non ha ancora ottenuto la condanna definitiva) chiedevano di poterne far parte anche dopo il trasferimento in altre carceri. Con il provveditore regionale di allora, Luigi Pagano, con il direttore di Opera, Giacinto Siciliano, e con la direttrice di Bollate, Lucia Castellano, abbiamo quindi concordato di far partire il gruppo anche negli istituti di Opera e Bollate.

4. Cosa significa cambiare un uomo? Come avviene il cambiamento?
Il cambiamento suscita sempre delle resistenze. Se poi una persona deve cambiare nella direzione predefinita e dettata da un’altra, allora il cambiamento viene vissuto come una minaccia alla propria identità e la resistenza aumenta. Ciò detto, Il cambiamento meglio accetto, più significativo e duraturo è quello che avviene senza che la persona si accorga di cambiare e, soprattutto, senza che un agente esterno imponga di cambiare. Il cambiamento, dunque, avviene intanto che si gioca, si lavora, si progetta insieme. Quando si hanno obiettivi comuni, ciascuno mette in campo risorse utili al raggiungimento dell’obiettivo. Gli obiettivi che si coltivano al gruppo della trasgressione fanno sì che autori e vittime di reato, studenti e comuni cittadini investano parte delle proprie risorse e delle proprie energie per raggiungere lo stesso scopo: oggi prendere lo straccio e il detersivo per pulire la sede che abbiamo appena aperto, domani andare in una scuola dove detenuti e studenti insieme mettono in scena il mito di Sisifo per poi stimolare gli studenti a riflettere sui tanti possibili percorsi della fragilità, dell’arroganza e della coscienza.

5. Essere uno psicologo ti mette a confronto anche con le tue parti più profonde, con la tua affettività o con la tua aggressività: come le gestisci quando vengono sollecitate nel lavoro di gruppo?
Mi sono allenato negli anni a far diventare la mia aggressività un gioco, un esercizio per riformulare i termini della relazione fra lo psicologo e il detenuto. Negli anni, l’affetto che cresce col tempo fra me e i detenuti e la mia stessa aggressività sono diventate risorse per riformulare i criteri delle gerarchie e rendere tangibile che il potere più duraturo e gratificante viene dalla capacità di aiutare l’altro a crescere e a migliorarsi. Quando ho bisogno di affermare la mia forza e il mio legame con loro mi metto a parlare di cose complicate e un po’ disorientanti. Per esempio, li rimbambisco sostenendo che il delinquente è una persona che ha bisogno di ripristinare una giustizia violata, ma non avendo strumenti adatti per farlo, si serve della pistola. In questo modo, spesso riesco a convincerli che loro hanno bisogno di me per capire meglio quale giustizia cercavano quando usavano la pistola o la cocaina.

6. Ho fatto la stessa domanda a Giacinto Siciliano: che significa essere un uomo?
Cercare, evolversi, contribuire all’evoluzione della specie e della realtà in generale. La velocità con cui la specie umana è cambiata e ha prodotto cambiamenti nell’ambiente non ha paragoni con quello che possono fare gli altri animali. Essere uomo per me vuol dire coltivare il piacere di conoscere e di evolversi, utilizzando i percorsi degli altri uomini per migliorare il proprio e viceversa.

7. Rifaresti tutto quello che hai fatto?
Nei fatti sto continuando a farlo. Saranno poi gli altri a decifrare se l’ho fatto perché ostinato come un mulo o perché ne valeva la pena. Dopo tanti anni di impegno, oggi vedo crescere il numero e la portata delle iniziative e delle collaborazioni fra il gruppo della trasgressione e la realtà istituzionale e questo mi fa pensare di poter fare ancora strada verso l’obiettivo con cui sono partito quando ho aperto il gruppo 23 anni fa, cioè contribuire a una cultura della pena che abbia come unico scopo l’evoluzione della persona condannata e delle istituzioni che se ne occupano. Non ci sono infatti pene afflittive, retributive o riparative che, di per sé e senza un progetto oltre la pena, permettano alla collettività di ottenere gli stessi vantaggi che vengono raggiunti con l’evoluzione psichica e morale di chi ha abusato del proprio potere sull’altro. Evolversi è una necessità per l’uomo e un dovere per ogni cittadino e per ogni collettività. La pena, dal mio punto di vista, deve consistere solo nel costringere la persona ad evolversi, ricordando che la sola evoluzione possibile avviene quando non ci si sente costretti a cambiare.

Interviste: Giacinto SicilianoAngelo Aparo

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N° 35 e N° 41

N° 35 e N° 41, Olio su tavola, 82 X 190

Il più antico sistema anti-gravitazionale

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