Curiosità e arrovellamenti

Cecilia Braschi, Matricola: 788994
Corso di studio: Scienze e tecniche psicologiche
Tipo di attività: stage esterno

Periodo: dal 01/04/2017 al 30/04/2017

Titolo del progetto:
STAGE ESTERNO PRESSO “GRUPPO DELLA TRASGRESSIONE”

Caratteristiche generali dell’attività svolta: istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

Ho svolto il mio tirocinio presso il Gruppo della Trasgressione, un’associazione e cooperativa assolutamente innovativa e fuori dagli schemi ideata vent’anni fa dal dott. Angelo Aparo, psicoterapeuta che da quasi quarant’anni lavora all’interno delle carceri milanesi. Le attività del Gruppo sono molto variegate, ma tutte finalizzate al coinvolgimento ad un pari livello di detenuti, studenti universitari, adolescenti e liberi cittadini. Il Gruppo opera con le persone che vi partecipano, indipendentemente da età, status di detenuto o provenienza sociale, studiando e interrogandosi su tutto ciò che attiene alla sfera umana e relazionale, dal rapporto con le autorità al dialogo con se stessi, dal rispetto per gli altri al riconoscimento delle proprie fragilità, dal pericolo di cadere nella mediocrità all’importanza della relazione e tanto altro ancora.

Non so se il dott. Aparo abbia una corrente psicologica di riferimento, ma se dovessi definire l’approccio teorico/pratico adottato nel corso delle attività sicuramente lo etichetterei come “apariano” e niente di più. A chi non conoscesse il suddetto metodo lo spiegherei sintetizzandolo in tre parole: curiosità, arrovellamento e schiettezza, mentre per ulteriori dettagli suggerirei di partecipare in prima persona, perché solo così si può capire davvero.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Il ruolo richiesto a noi studenti è (tutt’altro che semplicemente) quello di partecipare ad ogni attività, quale che essa sia, dando il nostro personale contributo, cercando di metterci in gioco il più possibile e avendo il coraggio di mettere a nudo le nostre fragilità davanti agli altri membri del gruppo. Quest’ultimo aspetto è forse quello che viene maggiormente incoraggiato, poiché, sebbene possa sembrare destabilizzante per la persona, nei fatti è ciò che ci fa sentire vivi e uniti gli uni agli altri: un aspetto che mi ha colpito fin da subito nei detenuti è proprio il valore che attribuiscono al riconoscimento delle loro fragilità più profonde, riconoscimento che li rende più degni di stare al mondo invece che indebolirli. Ecco, da questo sforzo non è esente nessuno di noi, ognuno deve impegnarsi a tirar fuori ciò che di più profondo possiede, perché così facendo arricchisce il gruppo ma soprattutto se stesso. In un’accezione più pratica invece potrei aggiungere che nel mio ruolo rientravano compiti quali la stesura di verbali relativi alle attività svolte e la gestione di una bancarella di frutta e verdura di cui parlerò qui di seguito.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Le attività del Gruppo sono molto varie ed in continua evoluzione: alla base ci sono le discussioni che si svolgono tutte le settimane all’interno delle carceri di Opera e Bollate e in un ATS di Milano, momenti di studio, analisi e discussione di molte tematiche tra cui quelle prima citate. Sempre più consistenti e soddisfacenti stanno diventando inoltre le attività di prevenzione al bullismo e alla tossicodipendenza svolte nelle scuole, momenti in cui i detenuti insieme agli studenti offrono i racconti delle loro storie e crescite personali a ragazzi adolescenti che hanno già mostrato qualche segno di devianza, cercando di instaurare un sano rapporto di fiducia reciproca a due scopi: allontanare l’adolescente da un mondo che lo farebbe affondare e dare la possibilità al detenuto di ripagare in parte il danno commesso nei confronti del bene comune.

Recentemente alla cooperativa è stata affidata la gestione di un terreno in zona Barona a Milano che, ripulito e vivificato, oggi ospita la bancarella di frutta e verdura gestita dalla cooperativa stessa e mira a diventare luogo di ritrovo e libera espressione per detenuti, studenti, comuni cittadini del quartiere e non, ospitando eventi ed attività legati a teatro, musica, fotografia, orticoltura ecc.; il nome del terreno, “Coming out”, indica appunto la possibilità offerta da questo spazio di “venire fuori”, esprimersi liberamente e creativamente, superare la paura di esporsi.

Altra attività interessante coltivata negli anni dal Gruppo è la rappresentazione teatrale del mito di Sisifo, che per i temi affrontati ben si adatta alle vicende dei detenuti e infatti sono essi stessi ad andare in scena insieme agli studenti improvvisando di volta in volta le parti che vengono loro assegnate, proprio perché avendone studiato a fondo i significati non necessitano di alcun copione. Infine, non perché meno importanti ma semplicemente perché non vi ho mai assistito in prima persona, il gruppo svolge diverse attività di restauro a Milano e dintorni, al fine di trasmettere ai detenuti quell’idea di lavoro come gratificazione e costruzione personale, idea che in passato molti di loro avevano rifiutato scegliendo di vivere nella mediocrità.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

Nonostante lui non ami identificarsi in tale figura, il coordinatore del tirocinio è stato il dott. Angelo Aparo, il quale, al di là di ogni definizione, si è rivelato una figura a tal punto “trasgressiva”, ispiratrice e quasi comica da aver in qualche modo segnato il mio percorso di formazione in quanto psicologa ma soprattutto in quanto persona. Ciò che fa continuamente, anche partendo dalle piccole cose, è di spingerci a riflettere oltre i normali limiti e le frettolose conclusioni cui si giunge la maggior parte delle volte. Innumerevoli sono state le occasioni in cui, in seguito alla riflessione di un qualsiasi membro, lui ha risposto senza tanti complimenti “no, non sono d’accordo” e con tutta la calma e le parole necessarie ha accompagnato tutti noi un po’ più in là rispetto al punto in cui ci eravamo assestati fino a quel momento. Lui è colui che si fa ispirare dalle piccole cose, dalle semplici emozioni e dalle belle immagini dando poi vita a ciò che il gruppo concretamente fa. Il suo modo di assicurarsi la nostra partecipazione consiste nel farci “pagare il biglietto”, per citare le sue parole, ovvero stuzzicarci e stimolarci per farci sempre dare un nostro contributo personale, se questo non avviene già spontaneamente. Inoltre ci è richiesta la redazione occasionale di verbali piuttosto che di qualsiasi genere di scritto, sia esso in poesia o in prosa, che insieme alle produzioni dei detenuti vanno ad alimentare il bagaglio di testimonianze provenienti dal gruppo.

Aparo è sicuramente il motore del Gruppo della Trasgressione, ma ci si augura che negli anni abbia saputo trasmettere le sue idee a tal punto da lasciare dietro di sé una traccia che possa essere ricalcata da chi meglio l’ha conosciuto e apprezzato.

 

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

Le conoscenze che ho acquisito durante questo periodo di tirocinio sono senza dubbio molto consistenti sul piano personale, hanno contribuito e stanno contribuendo a farmi capire chi sono e solo in conseguenza di ciò imparo come dovrei lavorare in futuro. Effettivamente potrei dire di aver partecipato ad ogni incontro come ad un momento di studio da cui ogni volta sono uscita arricchita, talvolta turbata ma sempre con qualcosa in più su cui riflettere. Ora riconosco che per ascoltare e capire veramente le storie delle persone l’attenzione e l’empatia non sono mai abbastanza; che per guadagnarsi la stima e la fiducia del gruppo oltre che dei singoli bisogna impegnarsi costantemente, anche con piccoli contributi, ma cercando di esserci sempre e di farsi sentire.

Ora ne so un po’ di più di un mondo che mi era completamente estraneo, quello carcerario, ma soprattutto vedo quanta necessità vi è di rivoluzionare questo stesso mondo, promuovendo a braccia aperte iniziative come quella del dott. Aparo, alla base della quale c’è il tentativo di relazionarsi con le persone, evitando di lasciarsi ingabbiare da categorie ideologiche. Ho scoperto che chiunque può tornare indietro e cambiare, apprezzare cose che prima nemmeno vedeva e gioire di emozioni molto più semplici di quelle che per una vita ha ricercato. Inoltre ho capito che i modi che usiamo per relazionarci agli altri sono giusti solo se in linea con la persona che siamo, con il nostro modo di essere, con l’esperienza che viviamo in prima persona e che ci permette ogni giorno di affinarli.

 

Abilità acquisite (tecniche, operative, trasversali)

Le abilità che sento di aver acquisito durante questo tirocinio riguardano principalmente le dinamiche di gruppo, in quanto ho potuto sperimentare pro e contro di un’attività che va avanti se e solo se è il gruppo a darle continuo carburante. Inoltre ho potuto mettere alla prova me stessa all’interno di queste dinamiche, provando tutto quel continuum di sensazioni che vanno dal senso di estraneità e inadeguatezza iniziale al sempre più forte senso di complicità che si sviluppa col tempo e la conoscenza delle persone.

 

Caratteristiche personali sviluppate

Ciò che mi porterò dietro da quest’esperienza è la spinta a riflettere con più attenzione innanzitutto su di me, sulla mia storia e la mia evoluzione, individuando le fragilità che mi porto dietro per poterle meglio affrontare. Sono proprio i detenuti ad avermi mostrato le difficoltà e le soddisfazioni legate a un percorso di scoperta di se stessi: sebbene per loro si tratti di un sentiero più tortuoso e doloroso, nessuno di noi dovrebbe sottovalutare le piccole cose che ci permettono giorno per giorno di evolverci e di conoscerci meglio, presupposto fondamentale per poter lavorare con gli altri.

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Homo sum…

Cristina Brioschi, Matricola: 801356
Corso di studio: Scienze e Tecniche Psicologiche
Tipo di attività: Stage esterno

Periodo: dal 13/03/17 al 4/05/17
Titolo del progetto:
Il Gruppo della Trasgressione
Homo sum, humani nihil a me alienum puto

Caratteristiche generali dell’attività svolta: istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

Il Gruppo della Trasgressione opera all’interno del carcere in modo del tutto singolare. Si tratta di un gruppo in cui detenuti e liberi cittadini hanno modo di confrontarsi, portando il proprio punto di vista e servendosi delle personali esperienze di vita, su tematiche di ampio respiro, come ad esempio la relazione con l’autorità, la responsabilità di ciò che si fa, la costruzione della propria libertà. Tutti possono partecipare agli incontri in modo costruttivo poiché ciascuno ha una vita che è stata portata in una certa direzione grazie alle scelte prese, ha delle spinte regressive ed evolutive che deve amministrare, ha trasgredito le regole, ha dentro di sé luci e ombre da riconoscere. Ciascuno cioè ha nella propria esperienza elementi che può mettere in campo e condividere con gli altri: ciò è faticoso, ma utile per il singolo che vuole conoscersi meglio e arricchire il gruppo collaborando con la ricerca che si fa. Questi incontri hanno luogo al SerT e all’interno del carcere di Bollate e di Opera.

Ci sono poi occasioni (ovvero gli incontri di prevenzione al bullismo e alla tossicodipendenza nelle scuole e la rappresentazione del mito di Sisifo) in cui il gruppo si mette in dialogo con la società nel tentativo di portare un cambiamento concreto. I detenuti in questi casi mettono a disposizione la loro esperienza, che comunicano a comuni cittadini e agli adolescenti delle scuole medie con delle sottolineature un po’ diverse rispetto a quel che accade in altri gruppi: in questo caso, l’obiettivo della comunicazione non è quello di mettere in guardia dalle conseguenze negative del trasgredire in modo impulsivo e disordinato, ma piuttosto ricostruire la gamma di scelte che li ha portati sulla strada della devianza e gli sforzi che oggi stanno facendo in favore della propria evoluzione. Grazie a questo lavoro, ciascuno può riconoscersi in tali spinte e rintracciarle nella propria esperienza e i detenuti si sentono parte attiva e utile di una società che in passato hanno ferito.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Non saprei dire con precisione quale ruolo ho svolto, il gruppo non ha una struttura e un’organizzazione rigida in cui è possibile sentirsi parte che dà un contributo chiaro e riconosciuto da tutti in modo univoco. Come componente, ho cercato di condividere le mie riflessioni e di partecipare con costanza ai gruppi in modo da riuscire ad avere più familiarità con i contenuti e con il livello del confronto, sempre alto e in alcuni casi difficile da approcciare.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Per riuscire ad orientarmi nelle dinamiche del gruppo e a pormi in modo costruttivo ho innanzitutto considerato con serietà i contenuti trattati e mi sono messa in discussione cercando sempre dentro di me o nella mia storia qualcosa che corrispondesse a ciò di cui si stava parlando. Sono così riuscita a cogliere più in profondità alcuni degli aspetti umani su cui il gruppo si interroga.

Inoltre mi sono impegnata nel redigere i verbali di alcuni incontri: mi è stato utile per chiarirmi i concetti trattati e per tenere una traccia dei passi fatti nell’avanzare della ricerca.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

Spesso faccio fatica ad accettare e riconoscere come tale il ruolo di chi “supervisiona” su ciò che faccio negli ambiti in cui mi sperimento, lo percepisco come un intralcio alla mia autonomia, della quale sono molto gelosa. In questo caso però con il dottor Angelo Aparo (fondatore e coordinatore del gruppo nonché tutor del mio tirocinio) ho avuto meno difficoltà: ha trattato la questione come un gioco ed io ci ho trovato più gusto nel cercare un equilibrio tra ciò che voglio liberamente fare e i limiti che non posso oltrepassare… Mi sono divertita! L’ho trovato edificante per la mia crescita personale.

I modi che il dottore ha di verificare il lavoro dei tirocinanti sono principalmente la lettura dei loro verbali oppure la richiesta di una rielaborazione orale durante lo svolgimento degli incontri. In questi casi si è sempre posto con una certa severità nei confronti della trasmissione dei contenuti e della forma in cui questi vengono espressi, ciò mi ha spronata a fare sempre più attenzione ai dettagli, a cogliere le differenze e a provare a rendere attraverso le parole la complessità del reale e delle questioni trattate.

E’ successo più volte durante i gruppi che mi invitasse a dire la mia, mi è stato d’aiuto per andare un po’ oltre la mia chiusura e riservatezza solite. Ho imparato grazie a questa cosa a chiedere più spesso a me stessa che cosa io abbia di tanto segreto e inconfessabile da doverlo nascondere agli altri e da tenere imprigionato dentro di me, il risultato è che mi esprimo con più facilità, lo considero come un valore e perciò riesco ad avere meno timore di quello che gli altri potrebbero pensare o a eventuali giudizi.

 

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

Trovo difficile identificare delle conoscenze nozionistiche o circoscritte apprese al Gruppo della Trasgressione; più che altro ho acquisito molti spunti di riflessione in più sulla natura umana, sull’equilibrio tra la persona e l’ambiente circostante e sulla società in generale. Spesso mi trovo ad approcciare situazioni del quotidiano utilizzando spunti o coordinate appresi al gruppo, le trovo molto concrete come conoscenze perché vive e aderenti al reale, al contrario di molte delle cose apprese dai libri all’università.

Nel corso del mio tirocinio non ho puntato però ad acquisire un corpus di conoscenze e di risposte da calare nelle situazioni, piuttosto ho visto nascermi dentro molte domande, le trovo più nutrienti, mi spingono a continuare a cercare e sperimentare ancora.

Inoltre ho scoperto che cos’è una nevrosi.

 

Abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)

Ho acquisito maggior fiducia in me stessa per quanto riguarda la rielaborazione dei contenuti trattati e la capacità di trasmetterli ad altri in modo chiaro. Mi sono impegnata nel riflettere sulle tematiche e nel lasciarmi interrogare, credo di essere diventata più abile nel venire a capo di questioni espresse in modo non lineare o addirittura contorto, cercando sempre di scovare l’essenza, il nocciolo.

 

Caratteristiche personali sviluppate

Durante la mia permanenza al gruppo ho sfruttato l’occasione succosa del tentativo delle persone di portare fuori ciò che dentro di sé è difficile da accettare ed esporre agli altri per affinare le mie capacità di ascolto, cercando di porre l’attenzione sulle emozioni e le sensazioni che queste cose mi provocavano dentro, per stabilire una connessione diversa con chi parla e per espandere la mia comprensione. Ciò è stato possibile anche perché ho riconosciuto nei processi e in alcuni stati interiori descritti dai componenti del gruppo (detenuti e non) qualcosa della mia storia, perciò mi sono sentita simile, vicina, appartenente.

 

Altre eventuali considerazioni personali

Or ti piaccia gradir la sua venuta:  
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.”

Grazie a questa esperienza mi si è aperta una finestra su un aspetto della società e della realtà interiore delle persone che troppo spesso non viene considerata: la libertà è soprattutto una condizione interna che dobbiamo costruire e tutelare, ha poco a che fare con i limiti fisici come ad esempio le mura del carcere. Capisco di aver avuto dentro già da tempo questa consapevolezza, certo è che poterla toccare con mano e poter andare a fondo nei vari aspetti della questione con i detenuti (i quali in molti casi nella loro vita hanno portato all’esasperazione conflitti che tutti hanno, rendendoli così più facilmente osservabili) mi ha svegliato il desiderio di prendermi cura di questa cosa dentro di me, e di combattere per un mondo che non sia di persone libere nei fatti ma prigioniere nella sostanza.

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“La storia siamo noi” (e 15 compleanni ben lo dimostrano)

L’esperienza con i boyscout è alle nostre spalle, ma sento che gran parte del suo valore lo ritroveremo e lo spenderemo nel tempo che abbiamo davanti

(Milano, 28.3.2003)

Questo pomeriggio dentro il carcere di Opera sentirò raccontare delle storie, ma una storia ne ha sempre un’altra che la contiene…

Pausa in cambusa – duellanti [2003]
Juri canta De Andrè [2003]
Incontro con Luigi Pagano [2003]
Rielaborazione [2003]
Stato di arresto [2003]
Nel nome del Padre [2004]
Cerchio scout [2004]
Juri, sempre immerso [2004]
Evasione [2006]
Staff al completo [2006]
Gloria Manzelli interroga su “vita, morte e miracoli di San Vittore” [2007]
Pulsanti scout [2007]
Antitesi e tesi [2008]
Accettazione qui! [2009]
Reato o non reato? [2009]
Uscita dal Tribunale [2009]
Pranzo domenicale [2009]
8 marzo [2009]
Restituzione al Gruppo della Trasgressione [2009]
Scontro tra Istituzioni [2009]
Le rappresentazioni della Giustizia a Palazzo di Giustizia [2010]
I simboli della Giustizia a Palazzo di Giustizia [2010]
Prove tecniche di trasmissione all’UEPE [2010]
Prove tecniche di ascolto all’UEPE [2010]
Sole fuori da San Vittore [2010]
Il dono del calzino [2011]
La persona offesa al centro [2011]
10 anni [2012]
E!STATE LIBERI [2012]
Trasgressione [2012]
Caccia al tesoro [2012]
Luci e voci [2012]
Noi chiediamo rispetto! [2012]
Cosa cuoce in pentola [2012]
Vittime per sempre [2012]
Bilancia [2012]
Uscita da San Vittore [2012]
Incontro con Maria Rosa Bartocci [2012]
Sito Internet [2012]
Imparare ad imparare [2012]
Vittime nella nostra città [2013]
CAPITOLO PRIMO

Per quanto mi riguarda, il “c’era una volta” parte dal febbraio del 2002 quando – per i misteri della vita – mi sono ritrovato ad accompagnare una scolaresca in visita alla redazione de “Il due” nel carcere di San Vittore. Ricordo ancora perfettamente 40 minuti fitti fitti a sentire parlare, tra le altre cose, di uno psicologo che aveva fondato un Gruppo detto addirittura “della Trasgressione” e ad un certo punto, seduto fino a quel momento in silenzio intorno al tavolo, una voce che soddisfa la mia curiosità: “il dott. Aparo sarei io”.

E’ capitato a molti di scambiare Juri per un detenuto, e così è capitato a me fino a quando l’ho sentito prendere la parola.

E non è stato amore a prima vista, si badi bene….. questo lo ricordo sempre perché a quell’incontro ne seguì un altro, nei mesi successivi in un bar vicino al carcere, che suggellò quello che in altre occasioni ho definito “un patto tra macellai”.

Nella mia incoscienza educativa proposi uno scambio di prigionieri: carne giovane di giovani scout in cerca d’autore vs. carne meno giovane ma ugualmente interessante. I primi prigionieri dei preconcetti tipici dei loro 19/20 anni, i secondi prigionieri di mura troppo strette. Entrambi però desiderosi di evasione, e – sia pure in quella prima fase inconsapevolmente – di mettersi a nudo fino al punto di farsi tagliare a piccoli pezzi da questa prospettiva di cambiamento interiore.

In questa trattativa la frase più “gentile” che Juri mi attribuì fù la seguente: “tu puzzi troppo di cristiano”. Falso… e comunque, nel corso degli anni, le parti si sono invertite anche su questo tema.

Nonostante queste premesse e la circostanza che poi superai anche il concorso per magistratura, l’idea (nostra, perché in fondo in fondo so per certo che lui non aspettava altro per il Gruppo) risultò vincente: partimmo nel marzo dell’anno dopo (2003) con il primo incontro in carcere, e da quel momento non abbiamo mai smesso.

Il nostro workshop scout sull’educazione alla legalità, dopo una prima esperienza nel 2001 completamente diversa ma ugualmente significativa, partiva proprio ponendo l’incontro con il Gruppo della Trasgressione al centro dei temi da affrontare insieme, anche grazie al prezioso supporto dell’Associazione Carcere Aperto di Monza, portata in dote a Milano da Silvia Consonni (compagna di clan prima e di studi universitari dopo, oggi Avvocato penalista) che in quei primi anni ebbe l’intuizione di utilizzare il tema carcere come “esca educativa”.

Il sabato pomeriggio, usciti dal carcere di San Vittore dopo quel primo incontro con il Gruppo, le emozioni di tutti i ragazzi partecipanti erano palpabili: passammo l’intera serata intorno a un grande cerchio, ciascuno raccontando di sé attraverso una canzone. Arrivò a sorpresa anche Juri con una chitarra, e cantò De Andrè (prove per i primi concerti della Trsg.band) per 4 volte di seguito (la capacità di sintesi del personaggio è nota). E io, ovviamente, De Gregori… ma, per me, bastava solo “La storia siamo noi”.

Nonostante questa ulteriore frattura (musicale), anno dopo anno, incontro dopo incontro, da Juri arrivò anche un complimento … meritato, perché rivolto (non certo a me ma) ai partecipanti dei primi quattro anni: “in carcere è entrato un fiume vitale, capace di moltiplicare le possibili combinazioni del desiderio di riconoscersi”.

Questo fiume vitale condusse, quale dono della moltiplicazione, all’approdo del Gruppo della Trasgressione in molti istituti scolastici. Ed impagabile fu per me il piacere di constatare che un gruppo di criminali riusciva ad incidere sull’indole di adolescenti, in 3 ore di “lezione” nelle classi, molto più di quanto gli insegnanti in un triennio.

Ma nonostante questa nuova forza (e, con essa, una sempre maggiore “dispersione positiva di energie”), con il Gruppo continuammo a progettare insieme nuove possibili combinazioni, financo a coinvolgere in questa esperienza di incontro – per ben due anni nel 2011 e 2013 – anche educatori scout provenienti da tutta Italia.

Fino ad allargare quel “desiderio di riconoscersi” alle vittime di reato

CAPITOLO SECONDO

Ma questa storia non avrebbe senso se non riconoscessi, anche qui, quello che mi sono portato a casa io.

Molte cose necessariamente dovranno rimanere, anche dopo 15 anni, ancora custodite in me: sono quelle storie (non mie) che alcuni ragazzi e ragazze hanno voluto affidarmi, adottandomi spesso come un fratello maggiore.

Altre le ho risistemate, in queste settimane, mettendole ad una ad una in fila in una bacheca elettronica e pescandole – per lo più – da alcuni miei appunti che poi hanno preso la forma di pensieri (spero) più strutturati ma soprattutto dai vecchi resoconti ancora online sulle pagine di trasgressione.net.

Di questi ultimi, alcune riflessioni finali dei partecipanti hanno avuto la forza di cambiare – insieme a me – anche il peso specifico del workshop stesso: penso, tra le tante, alle parole di Valeria e di Sofia… due visioni contrapposte che nel tempo hanno trovato una loro, oserei dire, mediazione.

Già… perché in tutto questo c’è anche un’altra data di questa storia: 30 giugno 2005. E’ proprio a quell’incontro sugli “obiettivi della punizione”, organizzato dal Gruppo della Trasgressione, che conobbi Walter Vannini e Guido Bertagna, entrambi amici di Juri.

Guido “incastrò” me l’anno dopo nell’organizzazione di una giornata con alcuni ragazzi sul tema delle vittime di reato, e io – che non sapevo poi come continuare da solo su questi temi ma che percepivo essere importanti (perché effettivamente “siamo più probabilmente vittime che probabilmente criminali”) – a mia volta “incastrai”, anche professionalmente, Walter.

A questo punto il passo verso il Centro per la giustizia riparativa e la mediazione del Comune di Milano è stato breve, fino a quella silenziosa lettura dei nomi delle vittime innocenti della mafia lo scorso 21 marzo all’interno del carcere di Opera.

E così, partendo da quella feconda idea di carcere come “esca educativa” per i ragazzi, siamo col tempo finalmente riusciti a regalare – in tre giorni dell’anno, tra febbraio ed aprile – occhiali per una visione prospettica su quello che succede quando viene commesso un reato: uno strappo nel tessuto sociale.

Uno strappo di cui, molto spesso, gli stessi ragazzi partecipanti sono stati vittime. E sono venuti al nostro workshop per iniziare ad afffontrare la fatica del ricucire, del rimettere insieme pezzi di carne. Anche se si sono ritrovati “dalla parte sbagliata”.

Non sempre però tutto è andato secondo le previsioni: ed anzi un incontro pubblico (durante il quale prese la parola anche un detenuto in permesso e in quel periodo ospite dell’Associazione Il Girasole) riuscì a mettere a dura prova le mie piccole capacità di uomo…. ma anche qui Juri è stato, come sempre, protettivo.

Protettivo nel senso di marcare sempre il campo di gioco per un confronto costruttivo…. ho recuperato gli appunti di quella domenica mattina e ho trovato anche la domanda di Juri a chi aveva appena concluso l’intervento: “se lei è un cristiano, come dice di essere, la vittima per definizione è suo parente… non le sembra quindi strano che lei non sappia come rivolgersi a quella persona che è morta, se non dirle che non si sente responsabile per quello che è successo? Perché è solo quando l’uomo cerca la sua responsabilità che diventa libero”.

Protettivo anche nei miei confronti, nel senso di togliere la parola ai detenuti quando tentavano di barattare l’immagine di me in carcere (cittadino come tutti gli altri, che si vuole porre delle domande di senso) con quella di una Autorità assente (che io non ho mai inteso, peraltro, difendere).

E poi ci sono stati anche gli spari in Tribunale a Milano, la mia Polizia Giudiziaria nei corridoi con le pistole di ordinanza in pugno e la mia amica Caterina, incinta e chiusa in una stanza insieme ad altre 40 persone. E la mia (seconda) fatica di passare oltre durante il workshop dell’anno successivo…

Ma tutti poi ci siamo rimessi in cammino, grazie a quella forza accumulata (come una piccola riserva interiore) durante gli anni precedenti, workshop dopo workshop.

CAPITOLO TERZO

Certo … fin dal 2003 parte essenziale in tutto questo camminare l’hanno fatta anche persone straordinarie come Luigi Pagano, Gloria Manzelli e Giacinto Siciliano che negli anni hanno voluto, anche loro, mettersi in gioco con noi.

Ad essi si aggiungono tutti coloro che, con spirito di servizio, hanno condiviso le fatiche organizzative e supportato/sopportato il tutto (sottoscritto compreso). Carlo Sbona in primis, che mi ha regalato il pallone per iniziare a giocare. Offrendomi così l’occasione concreta per rimettermi in cammino e senza del quale dunque – mi piace pensare anche oggi – io sarei rimasto vittima delle mie idee astratte (e, come tali, campate per aria).

Perché “una idea, un concetto, una idea fin che resta una idea è soltanto un’ astrazione”….  ed effettivamente, Gaber docet, siamo davvero riusciti a “mangiarci” questa idea, metabolizzandola e facendola camminare con le gambe di tutti i capi scout della staff organizzativa che, negli anni, hanno poi aggiunto idee su idee. Grazie anche a sensibilità diverse dovute a professioni diverse e a traiettorie esistenziali non pienamente sovrapponibili a quelle di un Pubblico Ministero e/o di un Avvocato penalista. E, tra queste idee, è pure fiorito Il Girasole che è diventata una realtà associativa all’avanguardia – a due passi dal carcere di San Vittore – anche nell’accogliere i familiari dei detenuti, familiari che scontano una analoga pena senza aver commesso il reato.

Ed, infine, parte ugualmente essenziale sono stati tutti quei professionisti che abbiamo scomodato, spesso al freddo ed in week end improponibili, per aiutare – con la loro presenza attiva durante tutte le varie fasi del workshop –  i ragazzi (ma, prima ancora, noi della staff). E tutti i Familiari che hanno voluto regalarci un pezzo della loro fatica nel rendere testimonianza ai loro cari uccisi.

Si capisce dunque che siamo oggi di fronte ad un “noi” molto numeroso, non più limitato a detenuti da una parte e ragazzi dall’altro.

In mezzo a questo “noi” ci sono (e ci sono sempre stato) anche io… e l’esercizio di rimettere tutto in ordine in quella bacheca, in uno con alcuni messaggi pervenuti per la festa di compleanno di domani, mi ha dato l’occasione di voltarmi per vedere limpidamente tutta la strada percorsa. E ho riscoperto il tesoro di questi 15 anni insieme, perché – altro tema ricorrente del coach Aparo e che ho riscritto sul mio taccuino di strada anche il 7 settembre scorso nel carcere di Opera con Marisa – “la riflessione è un lusso che non sempre l’essere umano si vuole concedere”.

Da buon macellaio che volevo essere, il primo che si è “fatto tagliare a pezzetti” da tutta questa storia sono stato io. Perché il Gruppo della Tragressione è stata una palestra vitale anche per il mio essere Pubblico Ministero, e di questo esercizio porto ancora con me il peso della maggior fatica nell’affrontare il mio ruolo istituzionale ogni giorno. Ma, come contrappeso, l’impagabile senso di una ritrovata profondità d’animo.

E allora grazie a tutti per questa storia, che finalmente posso qui raccontare anche ai miei due piccoli tesori in carne ed ossa, anche se stasera li ritroverò già addormentati al mio ritorno a casa.

THE END

And in the end/the love you take/is equal to/the love you make”…. Forse Juri, questo pomeriggio, mi ricorderà pubblicamente che anche questa strofa puzza di cristiano, ma è sempre un altro evergreen della mia colonna sonora. E poi su una cosa anche sir. Paul sbaglia: dall’esperienza del Gruppo della Trasgressione io ho ricevuto più di quanto possa essere riuscito a dare!

Grazie quindi anche a te, caro Angelo detto Juri per motivi ancora a me non del tutto chiari (al di là di quanto tu sei solito professare): nonostante le incommensurabili distanze nel nostro apparire e al netto di questo mio resoconto storico strampalato, tu sai quanto sia stato per me importante tutto questo nostro incontrarsi, “dentro e fuori” dal carcere.

E, last but not least, grazie a tutti noi per questo bel regalo di compleanno che ci siamo fatti, in tutti questi 15 anni.

Il mito di Sisifo a San Donato

Il mito di Sisifo a San Donato milanese
Scuola Santa Maria Ausiliatrice
Via Sergnano, 10

Qualche notizia sul nostro mito di Sisifo

www.mariausiliatrice.it

 

 

Raccontare una storia

In questo periodo di tirocinio ho affinato le mie capacità di ascolto e di empatia. Ascoltare non vuol dire semplicemente sentire la storia dell’altro distribuendo consigli, ma essere vicino a quella persona, nel qui e ora del racconto, cercando di intercettare e abbracciare ciò che l’altro vive. Sembra una cosa semplice e quasi scontata, soprattutto per noi studenti di psicologia, ma in questo periodo mi sono sempre più resa conto di quanto sia difficile. Tante volte ci auto-imponiamo di dare la risposta “giusta”, come se di risposta giusta si potesse parlare, perdendoci la ricchezza emotiva che solo un reale coinvolgimento nella discussione può dare.

Ho imparato che per conoscere e capire l’altro ci si deve armare di strumenti; primo tra questi è l’emozione che l’altro suscita in noi. Ogni giorno capisco qualcosa di nuovo rispetto a questa nuova modalità di sentire l’altro e sto imparando quanto sia divertente e, clinicamente utile, raccontare la storia di un’altra persona.

Mi sono cimentata, anche se pochissime volte, nella narrazione di una storia, ma ho già ripetutamente constatato che narrare una storia vuol dire farla nostra, vuol dire creare un legame, una relazione con il personaggio della storia.

Inoltre, chi narra una storia tende inevitabilmente a enfatizzarne alcuni aspetti e a minimizzarne altri; in questo modo viene offerta all’altro una lettura delle sue scelte e una direzione che possono anche essere diverse da quelle che il protagonista ha pensato fino a quel momento.

Non va trascurato, infine, che narrare una storia permette a noi stessi di riflettere sulla nostra.

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Vulnerabilità e fragilità

Ivan Puppo

Le otto del mattino di un lunedì qualunque, nel tragitto che separa la mia cella dal luogo di lavoro sguardi di facce assonnate mi sfiorano per estorcermi un buongiorno. Ne concedo sì e no una manciata. Come al solito, la giornata mi scivola addosso, piatta e avara come un corpo di donna ostile. Tutto regolare, salvo un pensiero che mi incalza, come un accordo musicale ripetuto all’infinito, mi perseguita. A volte i pensieri sono come ragnatele, si attaccano addosso e non li scrolli più via. L’ossessione ha un nome: “vulnerabilità e fragilità”. Un tema che ultimamente è oggetto di discussione al gruppo.

Scrivine, dice, e me lo scaraventa addosso come un regalo ormai sgradito. È una parola. Ho con questi concetti la stessa confidenza di un gorilla e un gorilla maschio per giunta. Poi sono pigro, scrivo se ne so di che. Però eccomi qua, chino sul tavolo, sigarette e penna tra le mani, deciso a liberarmi di questo tarlo.

Vulnerabilità e fragilità, due quasi sinonimi, in quanto siamo vulnerabili perché possiamo essere danneggiati da persone o da eventi esterni e siamo fragili in quanto soggetti alle debolezze e alle umane passioni. Vulnerabilità e fragilità sono proprietà intrinseche dell’essere umano che però, a seconda di come vengono coltivate, hanno implicazioni e sviluppi differenti.

Vivere sotto costante minaccia distorce la visione del mondo, induce ad attaccare per primi e, infine, traccia la rotta per un naufragio. Attaccai per non essere attaccato, così smisi di sentirmi vulnerabile, una corazza mi permise di sopravvivere, dove sopravvivere era il massimo consentito, ma una corazza indossata troppo a lungo diventa parte di te: a causa di essa non sei parte degli altri, non ti riconoscono, non li riconosci; ma non sai più farne a meno.

È una ragazza intrappolata in una fotografia. La guardo, è lì, così giovane e immobile nella fissità di un tempo perduto, sorride all’obiettivo. Mi ricorda quei soldati che a guerra finita non vollero o non seppero smettere di combattere. Forse perché combattere, qualche volta, è la sola cosa che ti resta. Bisogna cambiare, dice, ma cambiare implica possedere gli strumenti, il tempo, lo spazio per impiegarli. Senza strumenti e progetti in cui spendersi, so adesso, l’uomo è perduto. La guerra non ha mai fine.

Un filo sottile tesse una parentela tra vulnerabilità e fragilità, ma la fragilità trova il suo valore nella consapevolezza e nell’accettazione, ci permette di riconoscerci uomini negli altri uomini. Sì, la fragilità si impara. Qui, nella penombra di questa cella mi riconosco fragile, di una fragilità che non seppi mai. Proiettata dalla lampadina nuda, l’ombra sul muro fa la giusta supplenza di una donna che non c’è. Immaginandola, mi procuro il calore di un’illusione.

Guardo fuori dalla finestra, c’è un albero al limitare del campo: anche lui prigioniero, le sue radici nodose lo ormeggiano al terreno, a questo posto, come una nave in disarmo alla banchina del porto.

Con l’amarezza di chi ha distolto lo sguardo, soffoco un’imprecazione. Ma poi un pensiero si affaccia alla mente: “e se mi sbagliassi? Se ci fosse ancora in serbo per me una fortuna inaspettata?”. A proposito di illusioni necessarie.

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Figli dello stesso seme

Siamo figli dello stesso seme!

Lo si dice ovunque e forse ne siamo consapevoli un po’ tutti; ma, evidentemente, ciò non basta per individuare facilmente la direzione in cui procedere. Forse la  provenienza comune non è così riconoscibile, forse non è per tutti così significativa o forse occorre del lavoro per rendersene conto… e se, strada facendo, questo lavoro diventa un gioco, tanto meglio! Il nostro gioco si chiama:

Ti racconto la sua storia
dal rifiuto del mostro all’interesse per il vicino

Descrizione del gioco e istruzioni
Due persone si intervistano a vicenda per 10/15 minuti ed esplorano l’una la vita dell’altra per individuarne vicende, momenti significativi, relazioni, paure, conflitti, aspirazioni, emozioni che serviranno poi a raccontare la storia della persona intervistata.

In occasione del workshop del 13 aprile 2017 nel carcere di Opera, una mezza dozzina di detenuti del Gruppo della Trasgressione intervista altrettanti scout, che a loro volta intervistano i detenuti.

Pochi minuti per elaborare una storia, che viene raccontata subito dopo a tutti i presenti in presenza del protagonista intervistato poco prima.  Il racconto viene poi commentato da 3/4 persone del pubblico e dallo stesso protagonista, che comunicherà cosa ne ha ricavato.

Infine, il racconto viene giudicato e classificato sulla base della sua bellezza complessiva e di alcuni parametri specifici. Nel nostro gioco, è importante che in ogni storia siano riconoscibili:

  • il divenire della persona e dei suoi orizzonti, con i momenti e le fasi di evoluzione e/o di involuzione;
  • i momenti di massima distanza e di massima vicinanza emotiva fra il protagonista e il narratore;
  • uno sviluppo dinamico per cui colui che in una fase della storia sembra alieno e irriducibilmente distante, possa essere riconosciuto in un altro momento come nostro prossimo e parte significativa della nostra stessa natura.


Crediamo inoltre che per raccontare una bella storia sia utile:

  • tenere a mente e prendersi cura di dettagli ed episodi dell’altro ai quali spesso non si dedica attenzione;
  • individuare nella storia del protagonista conflitti fra spinte regressive ed emancipative. Nella vita di ciascuno di noi, in fondo, convivono da un lato dolori e dispiaceri che tengono ancorati al passato, dall’altro speranze e desideri di evoluzione che proiettano verso il futuro;
  • imparare a far sì che la persona di cui si racconta non si senta un insieme di avvenimenti ma un soggetto in divenire;
  • imparare a coinvolgere le persone che ascoltano.

Homo sum, humani nihil a me alienum puto
Tutto ciò che proviene dall’uomo mi riguarda
(Terenzio, 
Heautontimorumenos)

Alcune storie

La Ferrari

Nuccia Pessina

Il bambino era andato con la mamma dal meccanico a ritirare l’auto. La mamma era entrata negli uffici e stava facendo la fila per pagare. Il bambino si annoiava molto, voleva andare a casa prima possibile, i suoi amici lo aspettavano per una partitella al pallone. Poi vide una magnifica collezione di auto da corsa. Erano tutte ben allineate in un armadio di vetro, c’erano più ripiani dove auto di grossa cilindrata di tutte le marche e i colori erano disposte secondo l’epoca. In particolare fu una Ferrari rosso fiamma che lo colpì. Era un appassionato d’auto e, come la mamma uscì, subito le chiese se non potevano comprarla. La mamma gli disse sei matto, è un’auto da collezione, chissà cosa costa.

Costava sì, qualcosa più di cento euro, ma se il papà ci fosse stato, avrebbe potuto permettersela. Ma il papà non c’era, non c’era mai stato. Gli montò dentro una grande rabbia, e anche una incontenibile voglia di aprire l’anta di vetro e prendere l’auto, senza dire niente a nessuno. La mamma gli disse di aspettarla un attimo, che aveva dimenticato i guanti nell’ufficio. A lui non parve vero. Come in un sogno, aspettò che l’uscio si richiudesse dietro di lei, aprì l’anta, arraffò l’auto, se la infilò in tasca, richiuse con calma l’anta.

La mamma e il bambino rientrarono. La mamma preparò la cena. Il bambino era stranamente silenzioso. Il silenzio ovattato, che nella sua testa aveva accompagnato il furto, continuava. Gli sembrava di essere in un acquario.

Quando la mamma lo chiamò, si presentò a tavola per la cena. Mangiò di buon appetito, perché aveva sempre una gran fame, ma nel profondo era turbato. Sapeva di aver fatto una cosa brutta. Si vergognava, ma era anche contento di avere un’auto da corsa tutta sua.

Quando fu a letto, dopo che la mamma gli diede la buona notte, prese la Ferrari in mano e se la rigirò con calma. Era lucente, era perfetta, era un capolavoro in miniatura, era sua. Stava per appoggiarla sul ripiano, quando si rese conto che non poteva. L’auto era sua ma doveva tenerla nascosta. I suoi occhi, che durante il furto avevano brillato di determinazione e di desiderio, ora erano di una tristezza infinita. Faticò ad addormentarsi, poi la stanchezza ebbe la meglio.

L’auto era lì, era rossa, fiammeggiante, perfetta, posteggiata di fronte al bar dove la sua compagnia si ritrovava ogni sera dopo aver fatto un giro. Quella sera erano andati al cinema. Avevano visto un film d’azione, dove le auto erano protagoniste, insieme agli uomini. C’era un attore che non aveva mai visto ma che gli era piaciuto molto: Ryan Gosling. Nel film era un pilota d’auto da corsa, molto bravo, vinceva spesso. Questo nella sua prima vita. Ma poi ne aveva una seconda: guidava per una gang che metteva a segno rapine importanti. Li accompagnava sul posto e poi guidava a tutta birra, spericolatamente ma in modo magistrale e seminava chiunque. Tutto filava liscio, sembrava potesse continuare così per sempre, ma poi la sua prima vita era entrata in rotta di collisione con la seconda ed era successo il disastro.

Guardò l’auto e si sentì come in quel giorno della sua infanzia. La voleva ma non poteva permettersela, non avrebbe potuto permettersela mai. E di nuovo la rabbia dilagò dentro di lui. E di nuovo si sentì in un acquario, di nuovo un silenzio innaturale ovattò la realtà intorno a lui.

Quando il silenzio cessò, si ritrovò a guidare l’auto che aveva rubato. Era stato semplice. Aveva forzato la serratura, era salito e aveva messo in moto coi cavi. L’aveva fatto da solo. Aveva aspettato che tutti se ne andassero a casa. Era ritornato sui suoi passi e aveva messo a segno il colpo.

Stava decidendo come comportarsi, quando la polizia lo fermò, gli chiese patente e libretto e… lo arrestò. Ancora una volta il misfatto era stato scoperto, ma questa volta non dalla mamma.

Dopo qualche anno e qualche rapina, era il signore assoluto in una cella dove aveva tutto il tempo per pensare, studiare, capire, provare a spiegare, ricordare. Ripensava alla sua vita, ripensava a se stesso bambino e poi adolescente. Tutto era diverso ma, in un certo senso, tutto era uguale. Dentro di lui covava sempre quella rabbia sorda che gli aveva rovinato la vita. C’era un vuoto che nessuna auto, nessun bottino aveva saputo colmare.

Un giorno ebbe il permesso di ricevere la visita di suo figlio. Andò al colloquio senza sapere bene che cosa aspettarsi. Senza sapere bene nemmeno che cosa dire. O fare. Era totalmente impreparato ad affrontare suo figlio. Ci pensò il bambino a dirigere l’incontro. Raccontava e faceva domande. Era facile rispondergli e nello stesso tempo difficilissimo.

Si accorse che badava a quel che diceva, anche se non avrebbe saputo dire perché. Si accorse che nei racconti del bambino lui non c’era. Si accorse che nella vita del bambino lui non c’era. Si accorse che nella vita di tutti coloro che amava lui non c’era.

Quando il colloquio finì, il bambino lo abbracciò. Sentì la stretta e il calore del suo corpicino e dopo un attimo di esitazione si lasciò abbracciare e poi ricambiò la stretta. Capì che era da lì che doveva cominciare a lasciare dei segni giusti del suo passaggio. Capì che lui doveva cominciare ad esserci per suo figlio. Capì che desiderava che suo figlio gli volesse bene. E decise di provare a far sì che suo figlio non sentisse dentro di sé un vuoto che avrebbe cercato di riempire nel modo sbagliato.

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Sisifo alla villa di Giove

Marco Ghirlandi

C’è un grande parco sopra la collina. I muri di recinzione intorno sono abbastanza alti, ma non difficili da scavalcare, e c’è un viale alberato lunghissimo che dal cancello sulla strada principale porta alla casa. La villa è grande, bellissima e nel giardino di fronte all’ingresso ci sono fontane dove zampilla acqua giorno e notte. Il proprietario è un boss, anzi il boss dei boss, si chiama GIOVE; con lui vive ADE il fratello, suo braccio destro.

ASOPO è il giardiniere e tutto fare della villa, ha il compito di pulire le fontane e le piscine. Vive in una dependance con EGINA sua figlia che, come molti adolescenti, non sopporta il padre; vorrebbe fosse in un posto d’onore accanto a Giove e non un umile giardiniere. Padre e figlia litigano in continuazione perché lei rientra la notte tardi e fuma troppo.

Dopo un inverno particolarmente arido, l’acqua inizia a scarseggiare e le forniture idriche non ne danno a sufficienza per le fontane.

Giove ordina quindi a Asopo di porvi rimedio; il giardiniere decide di deviare, direttamente nel parco della villa, la conduttura dell’acqua che fornisce il quartiere di Corinto sotto la collina. Lo sfarzo del parco è garantito.

SISIFO è un piccolo boss del quartiere di Corinto, un bulletto spaccone che con il suo atteggiamento spavaldo è riuscito a diventare un riferimento per il quartiere. Tutti si rivolgono a lui per qualsiasi necessità, salvo poi contraccambiare con favori sempre più vincolanti.

La mancanza d’acqua diventa in breve un problema e tutto il quartiere pretende che Sisifo lo risolva. Con la spavalderia che lo contraddistingue Sisifo, che aveva già intuito qualcosa, promette che risolverà il problema, ma quando raggiunge la collina rimane incantato. Non aveva mai visto tanta bellezza. Decide così di tornare più volte alla villa per capire come trarne vantaggio. Trova il modo di scavalcare il muro di recinzione e di introdursi nel parco dove osserva di nascosto le feste attorno alle fontane e a le piscine.

Ora ha capito, è questa la vita che vuole fare e pensa di avere tutte le capacità per primeggiare anche fra i frequentatori della villa. Una sera mentre sta per scavalcare il muro di cinta sente Asopo e Egina che litigano come sempre. Lei esce sbattendo la porta e, mentre lei si accende una sigaretta, un macchinone che sta rientrando frena sul viale. Ne esce Giove che abbraccia Egina e la fa salire in macchina per poi dirigersi verso la villa.

Qualche giorno dopo Sisifo incontra Asopo a Corinto. Camminano sullo stesso marciapiede, Sisifo lo riconosce e provocatoriamente non gli dà il passo. Asopo si crede potente perché lavora da Giove e minaccia Sisifo dicendogli di abbassare la cresta. L’alterco sfocia in una lite; Sisifo rinfaccia ad Asopo lo spreco d’acqua nella villa, lo deride per la sua incapacità di controllare la figlia e poi gli promette di rivelargli dove è la figlia solo se in cambio riporterà l’acqua nel quartiere di Corinto. Non contento della risposta positiva, Sisifo umilia Asopo davanti a tutti i ragazzi del quartiere facendolo inginocchiare.

Quando Asopo chiede di sua figlia a Giove questi si arrabbia tantissimo, chiama suo fratello Ade e gli ordina di mandare Tanatos detto Tano il killer a uccidere Sisifo.

A Tano piace bere, lo tiene nascosto, ma Sisifo l’aveva visto una volta che era entrato nel giardino bere direttamente da un bottiglione e poi nasconderlo.

Quando Tano arriva a casa di Sisifo per ucciderlo questi lo ubriaca. Sentendosi sempre più forte e furbo, Sisifo va nella villa di Giove candidandosi come suo braccio destro e promettendogli di contribuire ad ampliarne il potere.

Giove pensa che Sisifo è troppo stupido per poter diventare un suo luogotenente, ma l’arroganza del giovane gli ricorda la sua gioventù. Decide di non ammazzarlo e di assegnargli, invece, una “missione”, in realtà una specie di vendetta che possa essere per tutti un monito e la dimostrazione di chi detiene il potere.

Lo lusinga dicendogli che potrà diventare il suo autista personale… ma solo dopo che lo avrà fatto per un po’ per tutta la “Famiglia”. Così Sisifo si ritrova a dover scarrozzare su e giù i componenti del clan e i loro parenti. Un eterno andare e venire a qualsiasi ora del giorno e della notte, senza rendersi conto che, se anche è alla guida della macchina del boss dei boss, lui rimane seduto a prendere ordini, mentre quelli che contano, compresi i bambini, sono seduti dietro a darglieli.

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Al gruppo per cercare

Cecilia Braschi

“Al gruppo si viene per cercare, non per diagnosticare”.

Queste le parole del Dott. Aparo durante un normale incontro del martedì. Parole da cui emerge l’idea del Gruppo della Trasgressione come strumento di conoscenza di sé, dell’altro e del mondo; di fronte al quale ci si dovrebbe quindi porre nel modo più umile, curioso e ricettivo possibile.

Il fatto è che siamo tutti incredibilmente piccoli di fronte alla conoscenza, o forse è quest’ultima ad essere spaventosamente ampia ed incontrollabile per le possibilità umane. Più cresco, più studio, più mi rendo conto che la strada da fare si allunga, che le cose per cui vale la pena studiare ed informarsi si accumulano smisuratamente. Il cammino della conoscenza è interminabile, anche se mi rendo conto di quanto sia gratificante percorrerlo a piccoli passi.

Ecco, rispetto a questo lunghissimo percorso possono esserci atteggiamenti diversi: da una parte coloro che si lasciano affascinare da questa avventura, cercando di avanzare sul sentiero al massimo delle loro possibilità; all’estremo opposto, coloro che, accecati da chissà cos’altro, non riconoscono o ancor peggio denigrano questo tesoro che la storia e la vita ci offrono.

La parte più coinvolgente di questa storia si presenta quando qualcuno decide di tracciarsi un sentiero per passare da una parte all’altra, dalla cecità totale all’apertura più profonda, ed è a questo passaggio che assisto giorno dopo giorno al Gruppo della Trasgressione: persone che probabilmente fino a qualche anno o decennio fa se ne infischiavano della mitologia greca, del significato della parola “dialettica”, piuttosto che di comporre poesie, oggi le vedo fare domande e incuriosirsi. I vissuti personali vengono riletti alla luce di ciò che la psicologia, la filosofia, la pedagogia, la mitologia insegnano a tutti noi; si analizzano conflitti e stati d’animo fino a farne delle rappresentazioni teatrali. Fa un certo effetto vedere come, una volta riaperti gli occhi e spolverata la coscienza, la cultura, intesa come bagaglio personale di conoscenze, possa affascinare e attrarre a sé anche chi l’aveva ignorata.

Ma se parliamo di cultura come strumento di salvezza allora non ci riferiamo soltanto ai detenuti (per quanto nel nostro caso ci si concentri su di loro), poiché tutti, ma veramente tutti, in un modo o nell’altro possiamo ottenere questo beneficio, quale che sia la nostra condizione di partenza. Mi è rimasta molto impressa la vicenda raccontatami dal Dott. Aparo della ragazzina filippina, vittima di un abuso, la quale ha accettato di interagire con lui, probabilmente grazie al fatto che la prima domanda che il Dottore le ha rivolto è stata: ma tu cosa sai delle Filippine? Dopo aver francamente dichiarato di non saperne nulla, la ragazzina si è ripresentata qualche giorno dopo fornendo una sfilza di informazioni estremamente dettagliate sul conto delle Filippine. Bene, non è esattamente quello che ci si aspetta da una persona della sua età reduce da un simile trauma, eppure in questo caso il sapere ha dimostrato di avere anche questa forza, quella di unire le persone in una relazione, di creare un legame, cosa di cui probabilmente lei ha molto bisogno.

E credo che questo valga un po’ per tutti. Al Gruppo della Trasgressione si viene continuamente esposti a nuovi contenuti, a domande e riflessioni che potenzialmente tutti possono fare, ma su cui raramente si scava a fondo durante la vita di tutti i giorni. E allora devo ringraziare per l’esistenza di quelle persone che si prendono la briga di farti accomodare, dimenticare quello che sta fuori e riflettere su quello che c’è dentro.

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