Margherita Lazzati

Margherita Lazzati – Intervista sulla creatività

Margherita Lazzati è una fotografa, nonché volontaria in carcere da circa dieci anni. Racconta che ha sempre fotografato, malgrado non abbia mai fatto un corso di fotografia a causa della sua dislessia, scoperta durante gli anni del liceo; per lei un manuale è sempre stato qualcosa di inaccessibile rispetto alla realtà e all’utilizzo della macchina fotografica.

Nel 2009 un giornalista e critico d’arte ha visto i suoi scatti e le ha suggerito di pubblicarli. Con l’insosituibile lavoro di raccolta di scatti, di selezione e progettazione da parte degli amici della “Galleria l’Affiche” di Milano, è stato possibile realizzare esposizioni collettive e personali. Quindi ha iniziato a fare una serie di mostre a tema creativo. In occasione dell’Expo le è stato chiesto di fare una serie di scatti sugli homeless di Milano: una ricerca fotografica di visibili, le architetture nuove per l’Expo, e gli invisibili che vivevano le strade sotto queste architetture. In seguito a questa mostra Margherita Lazzati è stata contattata dal direttore della Sacra Famiglia di Cesano Boscone che desiderava effettuare un servizio fotografico sulle persone gravemente disabili, in occasione dei 120 anni dell’Istituto. Per sei mesi ha fotografato luoghi e volti di queste persone e ne sono nate due mostre. La prima dal titolo “Sguardi”, esposta nella Fondazione Ambrosianeum, la seconda dal titolo “Un paese aperto”, esposta in via Dante e in piazza a Cesano Boscone.

Dal 2011 Margherita Lazzati ha iniziato il suo lavoro di fotografa in carcere diventando volontaria nel laboratorio di lettura e scrittura creativa del carcere di Opera. Nel 2015 ha chiesto al direttore del carcere Giacinto Siciliano il permesso di fotografare quello che avveniva all’interno del laboratorio: il tavolo intorno al quale ci si trovava e i volti delle persone. Il progetto è talmente piaciuto al direttore che ne è nata una mostra: “Ritratti in carcere”. La sfida era riconoscere chi fosse il volontario e chi la persona detenuta. Il lavoro è stato presentato al MIA ed è stata installata una mostra nella casa di Rigoletto durante il Festival della poesia di Mantova.

 

In seguito, il direttore Siciliano ha chiesto a Margherita Lazzati di fotografare tutto il carcere di Opera e lei ha trascorso più di sei mesi a fare scatti nel carcere di settimana in settimana. Quando il dottor Siciliano è diventato direttore della casa circondariale di San Vittore Margherita ha iniziato qui un nuovo progetto di viaggio fotografico durato altri sei mesi, durante i quali ha conosciuto Carla Chiappini e Laura Gaggini, le quali avevano presentato un progetto di biografie delle persone che vivono in carcere: i detenuti e gli agenti penitenziari, ma anche una moltitudine di persone che gravitano nella casa circondariale per i motivi più disparati: lavoro, volontariato, missione. Con l’approvazione del dottor Siciliano, Margherita Lazzati ha usato parte delle fotografie raccolte durante il viaggio fotografico a San Vittore per questo progetto, ma con una determinazione assoluta nel non voler mostrare le persone. Infatti, desiderava che le persone emergessero dalle biografie raccolte e chi vedeva la mostra chiamata “San Vittore, quartiere della città”, vedesse i luoghi dove queste persone vivono, lavorano, operano. L’immagine dei luoghi che Margherita ritrae non vogliono essere né un racconto retorico del carcere né una denuncia, ma semplicemente una raccolta di immagini lungo un viaggio.

Michela: Che cos’è per lei la creatività?

Margherita Lazzati: per me la creatività è un capitale di magia. Io credo che sia qualcosa iscritto nel DNA e solo in un secondo momento questa capacità può trovare il modo di esprimersi.

 

Asia: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Margherita Lazzati: innanzitutto trovare il linguaggio per esprimere questa creatività, che io considero un atteggiamento, uno sguardo sulle cose, sulla vita e su ciò che accade, compreso il modo di porgersi nei confronti delle persone, il vestirsi, il cucinare, la scelta dei colori, delle letture. È tutto un atteggiamento creativo.

 

Michela: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

Margherita Lazzati: la mia creatività credo che nasca da una difficoltà, cioè dalla mia dislessia. Ai miei tempi non si sapeva assolutamente di che cosa si parlasse. Mi ricordo di essere stata considerata una pessima scolara, quando invece ci mettevo tutta la mia volontà possibile.

Durante le lezioni di matematica guardavo le cartine geografiche che erano dietro la cattedra e viaggiavo guardando queste mappe, per cui non imparavo i numeri.

Un’altra grande difficoltà era la scrittura: mi chiamo Margherita e nel mi nome c’è la H che non sapevo mai dove mettere. Per me la scrittura era un disegno e cercavo di ricordare la composizione delle lettere per scriverle. Quindi per me la creatività è riuscire a fare uno slalom nelle tue difficoltà.

 

Asia: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e il suo stato d’animo la produzione creativa?

Margherita Lazzati: se per produzione creativa parliamo solo della fotografia, questa è una cosa che mi piace da pazzi. La fotografia è il mio modo di raccontare, che sia per le strade di Milano o stando coi miei nipoti o in carcere o in un viaggio, la fotografia è il mio linguaggio di espressione silenzioso. Questo linguaggio ha un impatto molto positivo sulle mie emozioni.

 

Michela: Nel rapporto con gli altri il suo atto creativo cosa determina? Per esempio, nel lavoro in carcere con i detenuti, la sua creatività cosa determina con gli altri?

Margherita Lazzati: in carcere è una cosa bellissima, è successo qualcosa di veramente sorprendente quando mi hanno visto arrivare in laboratorio con la macchina fotografica. C’è stata un’accoglienza molto fiduciosa: io non avrei mai usato le fotografie che scattavo se non per mostrare una realtà nella quale anche io ero immersa alla pari. Loro donano le proprie composizioni poetiche e io ricambio con i miei scatti. La cosa sorprendente è quella del lavoro con i ritratti perché la maggior parte delle persone non si è riconosciuta perché non è abituata a vedersi allo specchio. Tutti, compresi i più giovani, vedendo il proprio ritratto si sono visti vecchi o si immaginavano diversi in quanto la loro immagine interiore corrispondeva a vent’anni prima. È stato un lavoro che mi ha fatto molto riflettere. Alcune persone invece si sono talmente riconosciute da mandare felici il proprio ritratto a casa come se fosse un trofeo.

 

Asia: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso o dell’autore in genere?

Margherita Lazzati: io lo considero il mio modo di esprimermi. L’unico social che uso è Instagram, ma non sono solita inserire commenti: inserisco il luogo e poi sottopongo il lavoro allo sguardo degli altri.

 

Michela: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Margherita Lazzati: diciamo che fino al 2009 erano le persone alle quali regalavo le fotografie che sceglievo come dono… possiamo chiamarle cartoline di viaggio o ritratti. Questo instaurava un rapporto privato tra me e chi riceveva questi doni. Ho una raccolta di album tematici con foto stampate… poi dal 2009 ci sono le mostre. Mi stupisco sempre molto dell’accoglienza che ricevono i progetti nel pubblico e anche in alcuni giornalisti sensibili.

 

Asia: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Margherita Lazzati: non saprei. Credo che centri in un qualche modo nello star bene con sé stessi. C’è chi scrive un diario, c’è chi raccoglie immagini, io raccolgo immagini.

 

Asia: Siccome ha parlato dell’importanza di raccogliere immagini, quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Margherita Lazzati: non ce n’è solo una. Posso dire che io lavoro con una macchina fotografica semplice, una Leica, in modo quasi automatico e uso tantissimo il telefonino. Questi due mezzi sono molto diversi nella raccolta delle immagini. Oltre al fatto che in carcere non si possa portare il telefonino, capisco che la raccolta di foto da me scattate con la Leica richieda un’elaborazione, una archiviazione complessa. Invece la raccolta di immagini per mezzo del telefonino è come un “prendere appunti” sulla vita. Alla fine della giornata seleziono sempre la mia scelta ma vedo, per esempio, i miei nipoti prendono spesso in mano il mio telefonino e guardano le foto che scatto loro…quasi come se le foto che scattassi raccontassero dei momenti di vita insieme. Per me è il modo di rivedere una giornata.

 

Asia: Quindi, se dovesse paragonare l’atto creativo a una fotografia, a un’immagine o a un dipinto, quale potrebbe rappresentarlo al meglio?

Margherita Lazzati: per me è una fotografia. Rubo una frase del grandissimo Giovanni Gastel, il quale diceva “la più bella fotografia è quella che non ho ancora scattato”.

 

Michela: Pensa esista una relazione tra depressione e creatività?

Margherita Lazzati: su questa domanda ho riflettuto parecchio. Secondo me dipende dal tipo di espressione artistica. Io se ho delle preoccupazioni o dei pensieri importanti, non vedo e non fotografo. Lo sguardo è come rivolto a me stessa e al mio vissuto. Io fotografo nel momento in cui sto bene, in cui mi accorgo del sole. Credo che, invece, un poeta abbia molta più confidenza con l’espressione della propria depressione rispetto all’emozione di un atto felice che forse considera più banale.

 

Asia: Quando un prodotto creativo è per lei davvero concluso?

Margherita Lazzati: io credo mai. Anche quando si progetta una mostra, è sempre tutto un divenire, non si riesce mai veramente a mettere un punto e dire “non potrebbe esserci altro”.

 

Michela: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Margherita Lazzati: sì, è importantissimo. La scuola difficilmente aiuta questa sensibilità o fa crescere questo capitale di magia. Per lo meno, questo avviene fino alle scuole materne, dopo è l’apprendimento ciò che prevale e non si cerca di capire se la difficoltà nell’apprendimento può essere invece espressione di creatività. Io sono molto preoccupata di questo…concedere ai bambini o ragazzi più grandi di creare o produrre qualche cosa di diverso dall’apprendimento stesso, è un dono di pochi insegnanti.

 

Asia: Quindi, collegandoci anche a questa domanda, la creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata in qualche modo?

Margherita Lazzati: entrambe le cose. Ci sono persone che hanno nel proprio DNA qualche capitale di magia in più, ma in tutti va educato il senso creativo del vivere. E, soprattutto nelle persone che possiedono questo capitale di magia, va sostenuto, va fatto crescere e va riconosciuto.

 

Michela: Già in precedenza abbiamo parlato del ruolo della scuola nello sviluppo della creatività e dell’importanza della stessa per il condannato. Vorrei chiederle se, secondo lei, lo sviluppo della creatività potrebbe essere gestito in modo migliore sia all’interno delle scuole che nelle carceri?

Margherita Lazzati: sicuramente, in entrambi i casi, ma è qualcosa che dipende molto dagli incontri. É chiaro che se una persona detenuta dovesse incontrare la poetessa Silvana Ceruti, il poeta e giornalista Alberto Figliolia o il Professor Aparo, avrebbe un’occasione di espressione e di scoperta delle proprie doti creative al di là del crimine commesso, a differenza di chi, non avendo il dono di questi incontri, rimane recluso nella propria condanna. Lo stesso discorso vale per la scuola. Dalle elementari fino all’università, la fortuna di incontrare un buon insegnante a tutto campo che, oltre all’apprendimento riconosca nello studente qualche cosa su cui puntare e su cui far crescere l’interesse per lo studio, è quanto di più importante si possa fare. Io penso che questa scuola “a crocette”, di risposte a test, sia un massacro dell’educazione.

Intervista ed elaborazione di
Asia Olivo e Federica Turolla

Interviste sulla creatività

Spazio e nutrimento

Relazione finale di tirocinio

Federica Turolla, Matricola: 815067
Psicologia Clinica e Neuropsicologia nel ciclo di vita
Tipo di attività: Stage esterno
Periodo: dal 12/10/2020 al 26/02/2021
Titolo del progetto:
Il Gruppo della Trasgressione: spazio di nutrimento

Caratteristiche generali dell’attività svolta: istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

L’Associazione e Cooperativa Trasgressione.net ha sede in Via Sant’Abbondio 53/A, a Milano. Sfortunatamente, a causa dell’emergenza Covid-19 non è stato possibile usufruire di questo spazio, se non per qualche incontro iniziale. Per permettere ugualmente lo svolgimento delle attività si è ricorso all’utilizzo della piattaforma ZOOM.

Il Gruppo della Trasgressione è un’associazione che, in linea generale, si occupa del tema della devianza, sia in ottica di prevenzione che di contrasto. In particolare, l’associazione collabora con le Carceri di San Vittore, Bollate ed Opera, allo scopo di favorire il recupero, il reinserimento sociale e la prevenzione di recidiva per coloro che hanno commesso reati. A causa delle restrizioni imposte, non è stato possibile svolgere le attività all’interno degli istituti penitenziari.

Hanno dunque partecipato ai differenti incontri ex-detenuti oppure detenuti in misure alternative (ad esempio, detenuti in Articolo 21, in affidamento sociale o agli arresti domiciliari). Nonostante ciò, la possibilità di utilizzare la piattaforma ZOOM ha permesso di superare i limiti spaziali, consentendo la partecipazione di persone che si trovavano in città o regioni differenti.

Il Gruppo della Trasgressione opera attraverso uno scambio attivo con il territorio, che vede come interlocutori protagonisti non solo detenuti ed ex-detenuti, ma anche comuni cittadini, studenti universitari tirocinanti e i familiari delle vittime di reato, nella costruzione di un dialogo e confronto tra l’interno e l’esterno del carcere.

Proprio attraverso la cooperazione di diversi interlocutori diventa quindi possibile progettare interventi di prevenzione e utilità sociale per il territorio che, se da un lato consentono lo sviluppo di responsabilità e autonomia per i detenuti, dall’altro diventano strumento e spazio di riflessione per chiunque partecipi.

Nel raggiungimento dei propri obiettivi e nella realizzazione dei propri progetti, il Gruppo della Trasgressione lavora in stretta collaborazione con il territorio, sviluppando interventi insieme al Municipio di Zona 5, a Regione Lombardia, ma anche a scuole, enti e associazioni che si occupano di temi affini, con l’intento di prevenire degrado, bullismo e tossicodipendenza.

La cornice di riferimento teorica del Gruppo si ispira ad alcuni autori classici di matrice psicodinamica e sociale, come ad esempio Bion e Lewin, in riferimento alle dinamiche di gruppo, spesso presenti all’interno della criminalità organizzata, ma anche a Winnicott, per indagare come le relazioni primarie costituiscano una base importante per lo sviluppo individuale del Sé.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Come tirocinante, viene richiesto di partecipare alle differenti attività proposte, frequentando con regolarità gli incontri settimanali e contribuendo attivamente allo sviluppo dei progetti. Inizialmente, i primi incontri nel mese di ottobre erano incentrati sull’ideazione di attività da svolgere all’interno della sede di Via Sant’Abbondio, creando uno spazio di cui avrebbero potuto usufruire anche i residenti della zona, appartenenti a fasce d’età o contesti differenti.

Successivamente, a causa delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria, le attività settimanali che potevano essere ugualmente svolte con il collegamento ZOOM sono state il Cineforum sulla banalità e complessità del male, l’incontro sulla Genitorialità responsabile e le attività dell’Officina Creativa.

In particolare, ho contribuito a redigere i verbali inerenti ai diversi incontri, che non rappresentano una semplice stesura di quanto detto, ma costituiscono una rielaborazione dei contenuti emersi, generando un documento che possa diventare utile e fruibile per chiunque lo legga.

Durante il mio periodo di tirocinio è stato sviluppato un progetto inerente a interviste che avessero lo scopo di far conversare i diversi partecipanti del Gruppo. Attraverso la partecipazione ad alcune riunioni, insieme agli altri membri, abbiamo pensato a eventuali domande da formulare a possibili coppie di persone, come ad esempio membri del Gruppo che rivestono ruoli e posizioni apparentemente in contrasto, oppure membri del Gruppo che hanno collaborato in passato nella realizzazione di alcuni progetti (ad esempio, progetti di restauro), o ancora, creando una forma di “doppia intervista” per i membri che condividono aspetti in comune nel proprio percorso.

In occasione della giornata contro la violenza sulle donne, ho steso un testo che riflettesse e indagasse la mia percezione ed esperienza sul fenomeno, da pubblicare sul sito vocidalponte.it

Ho partecipato all’ideazione e creazione del profilo Instagram del Gruppo della Trasgressione in modo da favorire la conoscenza e la promozione delle attività svolte dall’associazione, con la pubblicazione di materiali inerenti ai differenti progetti (ad esempio, pubblicazioni delle auto- interviste, oppure promozione della Bancarella Frutta & Cultura).

Ho partecipato alla valutazione di alcuni testi scritti dai detenuti o altri membri del gruppo, inerenti al “Virus delle gioie corte” e “La nicchia, la crosta e il rosmarino”, temi di particolare rilievo all’interno del Gruppo. Lo scopo di questo lavoro è stato individuare quali testi fossero maggiormente significativi e in grado di rappresentare il Gruppo della Trasgressione, secondo l’opinione dei diversi membri. I testi selezionati verranno poi inseriti all’interno di un libro che il dottor Aparo sta preparando in collaborazione con altre associazioni.

Infine, a seconda delle necessità, mi sono occupata di svolgere alcune brevi compiti di organizzazione logistica per facilitare lo svolgimento delle attività, come ad esempio contattare i membri attuali e passati chiedendo loro di creare dei brevi video in cui raccontassero, in una forma di auto-intervista, il proprio percorso all’interno del Gruppo della Trasgressione; oppure raccogliere l’elenco dei film visti durante l’attività del Cineforum dal suo inizio, in modo da creare un indice completo da condividere sul sito vocidalponte.it, per promuovere l’attività.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Ogni lunedì pomeriggio si svolge il Cineforum che tratta il tema della “Banalità e complessità del male”. Attraverso un sondaggio proposto a tutti i membri, viene scelto un film che sia attinente all’argomento. Ogni partecipante è quindi invitato a guardare autonomamente il film indicato e successivamente, durante l’incontro, questo viene poi commentato e analizzato, attraverso la condivisione di opinioni, punti di vista ed esperienze personali inerenti al tema del male, inteso nell’accezione proposta da Hannah Arendt. Attraverso la visione di questi film diventa possibile interrogarsi sulla natura dell’uomo e sulla sua propensione ad essere attratto e sedotto dal male, scivolando progressivamente in una condizione di mediocrità. Per circa un mese hanno preso parte agli incontri del Cineforum anche gli studenti del Liceo Artistico Brera di Milano.

Nell’incontro del martedì generalmente viene affrontato il tema della Genitorialità responsabile. Durante questi incontri l’attenzione è rivolta in particolare sia a detenuti che ex-detenuti che vivono l’esperienza di essere genitori, ma anche a figli di detenuti. Attraverso un confronto tra le proprie esperienze e i propri vissuti, sia come genitori che come figli, emerge la possibilità di usufruire della genitorialità per responsabilizzare il reo e come, attraverso l’impegno per i propri figli, diventi possibile allontanarsi dall’ambiente criminale. Allo stesso tempo, tra i figli di detenuti si è venuto a creare un clima di sostegno e solidarietà reciproci nel confrontarsi rispetto all’immagine dei propri genitori e alle esperienze dolorose vissute durante le visite in carcere. L’intento dell’attività è anche promuovere nei figli di detenuti una visione positiva della polizia penitenziaria, in modo da prevenire futuri atteggiamenti ostili nei confronti dell’autorità.

Gli incontri del martedì inoltre possono variare rispetto al tema trattato. Ad esempio, in ricorrenza della giornata dedicata, si è deciso di affrontare il tema della violenza sulle donne. Questo è poi stato ripreso in diversi incontri, intrecciandosi anche con altre tematiche approfondite nel Gruppo.
In diverse occasioni è capitato di ricevere alcuni ospiti, come ad esempio, Maria Rosaria Sodano, ex magistrato in pensione, che ha richiesto di collaborare con il Gruppo per la realizzazione di un progetto inerente all’alimentazione in carcere, oppure con Lucilla Andreucci, rappresentate di Libera, con la quale è emerso un interessante confronto e scambio. Inoltre, durante una giornata di Cineforum, in occasione della visione del film “I Cento Passi”, ha preso parte all’incontro Monica Forte, Presidente della Commissione Antimafia della Lombardia, rendendo possibile uno scambio con le figure istituzionali del territorio.

Il giovedì invece si tiene l’incontro sull’Officina creativa, attività finalizzata alla continua produzione di iniziative, nella valorizzazione delle risorse e mezzi creativi dei partecipanti al Gruppo. Un esempio di questa attività è stato sviluppare il progetto inerente alle interviste sopracitate. Da questa attività è emerso come grazie alla formulazione di specifiche domande, l’intervista possa diventare mezzo per sviluppare un dialogo che permetta di analizzare e ripercorrere il proprio percorso individuale (ad esempio, nel caso la coppia fosse composta da due detenuti), oppure di indagare come sia stato possibile costruire una relazione tra le due parti, ad esempio, nel caso in cui la coppia fosse composta da un ex-detenuto, appartenente in passato a organizzazioni mafiose, e un familiare di vittima di reato. Un altro tema approfondito durante gli incontri dell’Officina creativa e particolarmente rilevante per il Gruppo della Trasgressione è la rappresentazione teatrale del Mito di Sisifo. Il teatro diventa infatti utile strumento che permette al detenuto di interrogarsi sulle condizioni che l’hanno spinto verso l’ambiente deviante, ripercorrendo il proprio vissuto all’interno della criminalità fino ad arrivare alla scoperta di sé come nuovo cittadino, grazie a un parallelismo con la narrazione del mito.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

Il coordinatore del Gruppo della Trasgressione è il dottor Angelo Aparo. Oltre a rappresentare l’elemento cardine all’interno del percorso di ciascun detenuto, costituisce un punto di riferimento per ogni membro. Il dottor Aparo organizza, gestisce e supervisiona le diverse attività svolte. Queste, infatti, spesso vengono realizzate grazie alla collaborazione con la rete sociale che il dottor Aparo ha costruito negli anni, attraverso l’invito di ospiti durante gli incontri, in un clima di scambio e dialogo attivo con l’esterno, come enti istituzionali o associazioni.

In riferimento alla figura del tirocinante, il dottor Aparo si assicura che questo partecipi ai diversi incontri e monitora il lavoro, in particolare in riferimento alla redazione dei verbali, che vengono condivisi attraverso una cartella in Google Drive, oppure si assicura che vengano prodotti degli scritti da pubblicare sul sito vocidalponte.it. Nonostante la sua presenza, il tirocinante è invitato gestire il proprio lavoro in maniera responsabile ed autonoma.

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

Sicuramente l’esperienza svolta presso il Gruppo della Trasgressione mi ha permesso di venire a conoscenza delle dinamiche che riguardano il contesto penitenziario. Anche se non è stato possibile entrare all’interno dei diversi istituti, ho imparato a comprendere quali siano i sentimenti e vissuti personali di coloro che hanno trascorso parte della loro vita in carcere. Grazie ai racconti di detenuti ed ex-detenuti ho potuto conoscere le loro storie, le loro sofferenze e fragilità e il percorso che li ha portati a delinquere, ma anche la loro esperienza in carcere sia prima che dopo aver incontrato il Gruppo della Trasgressione. Oltre a una dimensione individuale, sono anche stati approfonditi i meccanismi e le dinamiche di gruppo che sottendono e regolano le organizzazioni criminali, in particolar modo quelle mafiose.

Ritengo che la parte più interessante e arricchente di questo tirocinio sia stato l’incessante interrogarsi tra detenuti, comuni cittadini e studenti su quali siano le condizioni che spingono l’uomo a delinquere e quali siano invece gli strumenti che consentono al reo di acquisire un senso di consapevolezza e responsabilità rispetto al proprio agito. Attraverso la presa di coscienza, la valorizzazione delle proprie risorse e l’utilizzo di strumenti inediti, diventa quindi possibile per il detenuto riprendere la propria crescita e trasformarsi in nuovo e autentico cittadino, abbandonando l’etichetta stigmatizzante di “ex-detenuto”. Dalle riflessioni è emerso come esista un continuum, o meglio un confine sottilissimo, tra chi si avvicina all’ambiente deviante e commette reati e chi invece rimane un comune cittadino, in quanto il male e il potere rappresentano un elemento di forte seduzione per chiunque. In ottica di prevenzione, diventa dunque fondamentale comprendere quali siano gli aspetti che favoriscano il procedere verso l’arroganza e quali invece permettano di raggiungere un senso di consapevolezza e responsabilità individuale.

Inoltre, ho potuto usufruire trasversalmente di quanto appreso e delle esperienze condivise durante l’attività sulla Genitorialità responsabile, per realizzare un progetto che indagasse le diverse forme di genitorialità in un corso universitario.

 

Abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)

L’abilità più rilevante che riconosco di aver sviluppato durante quest’esperienza con il Gruppo della Trasgressione è l’ascolto rispettoso, autentico e attento dell’altro. Molti racconti di vita ed esperienze dei detenuti, ma in generale anche degli altri membri del Gruppo, spingono chi ascolta ad accedere a una dimensione empatica del dolore.

Di grande importanza è stato anche imparare a redigere i verbali: proprio perché questi mirano a una rielaborazione dei contenuti emersi, diventa quindi possibile sia impadronirsi in maniera globale degli argomenti trattati, ma anche sviluppare e potenziale le proprie capacità di scrittura.

Sempre inerentemente alla scrittura, ho trovato molto formativo avere la possibilità di scrivere un testo che indagasse la mia percezione riguardo al fenomeno della violenza sulle donne. Lo strumento di produzione libera dello scritto permette di accedere ai propri vissuti e sofferenze interiori, nella valorizzazione del proprio intuito creativo.

Competenza sicuramente trasversale e spendibile in contesti altri, è stato anche lo spirito di collaborazione che sottende il Gruppo della Trasgressione: infatti, la realizzazione dei progetti diventa possibile proprio attraverso un approccio di cooperazione tra i diversi membri.

 

Caratteristiche personali sviluppate

Tra le caratteristiche personali sviluppate emerge chiaramente una componente empatica, già citata, nel guardare al vissuto degli altri e saper accogliere il dolore altrui.

Il Gruppo della Trasgressione mi ha spinto ad affacciarmi al mondo con impronta riflessiva: spesso, a causa della realtà frenetica in cui viviamo, diventa difficile fermarsi a riflettere in profondità su temi di grande importanza sociale. Quest’esperienza invece mi ha trasmesso la necessità di interrogarmi costantemente, alla ricerca di una consapevolezza autentica del mio agire nel mondo.

Quest’esperienza mi ha inoltre permesso di abbattere i pregiudizi e gli stereotipi che ruotano attorno al contesto carcerario: è proprio la non chiara definizione di ruoli e posizioni sociali dei diversi partecipanti al Gruppo a permettere la costruzione di una relazione simmetrica nell’incontro con l’altro. Solo attraverso la partecipazione e l’ascolto durante gli incontri, diventa possibile conoscere le storie di vita di ognuno, senza partire da concetti precostituiti.

Poiché il lavoro all’interno del Gruppo si basa sulla cooperazione con gli altri membri, è stato possibile vivere un’esperienza di responsabilità nella co-costruzione dei differenti progetti. In particolare, grazie all’attività di valutazione degli scritti mi sono potuta sentire protagonista attiva, insieme agli altri membri, della realizzazione di un disegno che andrà a definirsi meglio in futuro.

Ultima, ma non meno importante, è stata per me la capacità di aprirmi al dialogo con l’altro. Nonostante la mia insicurezza iniziale e il mio rimanere attiva ma silente, penso di essere riuscita a condividere con gli altri partecipanti parte delle mie opinioni e vissuti, verso il periodo finale di quest’esperienza.

 

Altre eventuali considerazioni personali

Sfortunatamente, realtà come il Gruppo della Trasgressione rappresentano ancora un’eccezione nel panorama attuale italiano. Sarebbe invece fondamentale trasformare l’esperienza detentiva in strumento di crescita educativa, di presa di consapevolezza e responsabilizzazione, nella formazione di futuri cittadini. Spesso, inoltre, i diritti, le risorse e le potenzialità dei detenuti non vengono valorizzati e proprio con questo atteggiamento si contribuisce al mantenimento di una condizione stagnante dell’individuo, relegandolo all’interno del ruolo di criminale. Diversamente, è proprio attraverso la fiducia restituita che diventa possibile per il detenuto passare dall’arroganza alla coscienza, interrogandosi su quali siano state le proprie fragilità e sofferenze passate che l’hanno spinto a ricercare un riconoscimento nel contesto della devianza. Emerge infatti molto chiaramente il sentimento di gratitudine e riconoscimento che i detenuti appartenenti al Gruppo della Trasgressione provano nei confronti del dottor Aparo, per aver insegnato loro a reimpostare la propria vita in un’ottica di costruzione e non più distruzione.

Oltre ad avere una particolare importanza per i detenuti, per chiunque vi acceda, il Gruppo della Trasgressione è sicuramente strumento e spazio di nutrimento stimolante per riflettere su sé e sulla società che ci circonda. Gli argomenti trattati diventano elemento arricchente per la propria crescita, esortando a non arrestarsi in una posizione statica, ma a ricercare costantemente, attraverso l’incontro con l’altro, l’evolvere del proprio sé.

Federica Turolla

Indice dei tirocini

Il dolce e l’amaro

IL GRUPPO DELLA TRASGRESSIONE 8 MARZO 2021
Cineforum su ‘’Il dolce e l’amaro’’ (Andrea Porporati, 2007)

LA TRAMA
Saro Scordia è il figlio di Vito Scordia, mafioso siciliano morto in carcere durante alcune rivolte. Dopo la morte del padre, Saro viene introdotto gradualmente nella vita mafiosa tramite un amico di famiglia, Don Gaetano, il quale gli assegna diversi “lavori” da portare a termine. Saro diviene presto “uomo d’onore”, giurando fedeltà a Cosa Nostra e assicurandosi così il “rispetto” di tutto il paese. Arriva a compiere anche degli omicidi su commissione. Inoltre, per obbedire alle indicazioni di don Gaetano, si sposa con una donna che non ama e mette su famiglia. La sua vita da deviante lo porta ad allontanarsi dal suo unico amore, Ada, la quale si rifiuta di sposarlo per la vita che conduce. Più avanti Saro inizia a guardare con una certa perplessità le dinamiche all’interno della mafia e decide di fuggire in una città del Nord Italia per rifarsi una vita sotto protezione; qui si ricongiunge con Ada, dalla quale nasce una figlia. Si rende così conto della bellezza delle cose semplici come tornare a casa dalla propria famiglia, cucinare per sua figlia e per sua moglie, lontano dalla sua vecchia vita nella mafia. 

 

L’INGRESSO
Il protagonista descrive l’ingresso nella mafia come l’ingresso nella famiglia perfetta, dove “tutto viene fatto alla luce del sole e ci si dice sempre la verità”,  principi che contrastano molto con ciò che nei fatti è la mafia. Nella prima parte del film viene ben descritto come chi entra a far parte di queste associazioni mafiose viva in una realtà parallela dove tutto viene distorto e si pensa che il rispetto e l’invidia altrui siano quello che più conta nella vita. E così, passo dopo passo, si giunge a fare giuramento a un’associazione che si vede come perfetta. 

 

LA SEDUZIONE DEL MALE
In certi ambienti e in certi contesti sociali è facile essere sedotti dal male e dalla criminalità in giovane età; è una seduzione che avviene in maniera così rapida che il soggetto quasi non se ne accorge. Il male, in questi tipi di realtà, ha un potere seduttivo molto forte. Questo film rimanda a quello che al gruppo della trasgressione viene definito ‘’il virus delle gioie corte’’: è più facile godere di qualcosa la cui fruizione è immediata piuttosto che di quello che deve essere costruito con un impegno costante. Questo vale anche per la costruzione di affetti e di relazioni durature. 

 

LE MANCANZE DI SARO
Quello che manca a Saro nella sua vita è la libertà; Saro non è libero di scegliere, deve semplicemente eseguire degli ordini, deve “riconoscere la Luna al posto del Sole” e annullare la sua individualità e i suoi affetti. Ada gli dice in maniera chiara che non può condividere la vita con un soggetto che ha uno stile di vita criminale. Saro in questi incontri con Ada esprime tutta la sua violenza, dentro di lui c’è solo l’idea di afferrare quel che considera una sua proprietà privata. Saro sposa Antonia, la prima moglie, perché il padrino ha pensato fosse il momento per lui di mettere su famiglia; la sua vita è scandita minuto per minuto dalla volontà e dalle aspettative di qualcuno che lo domina, che è estraneo ai suoi sentimenti, ma al quale ha deciso di consegnare la sua libertà. Questo film rende bene l’idea delle associazioni criminali in cui si è inglobati senza fermarsi mai a pensare, in cui viene anestetizzato tutto, dove c’è solo azione e non riflessione. 

 

CRIMINALITÀ E GIUSTIZIA
Durante il nostro incontro ci siamo soffermati sull’idea che “il delinquente pratica una sua giustizia”: egli viene da una storia che lo ha abituato a percepire solo cose appariscenti e poi a procedere in conseguenza ai suoi abbagli. Egli capisce bene che quando sequestra qualcuno o uccide non sta praticando la giustizia, ma ritiene, con il conforto dei suoi complici, che quella è la cosa da fare; tutte le sollecitazioni interne che suggeriscono altro vengono messe a tacere e, in conseguenza di ciò, egli commette abusi e azioni criminali che nel suo delirio hanno lo scopo di ristabilire un equilibrio violato. Il  “cavaliere della giustizia”, motivato a “mettere le cose a posto”  vive in un suo mondo fatto di poche cose importanti. Dal suo punto di vista,  all’interno del mondo che considera significativo si deve procedere con giustizia; ad esempio, nel film, i ragazzini accusati di aver derubato la madre di Sciacca dovevano essere puniti e non uccisi; ma dopo aver legiferato insieme, il sig. Sciacca decide che occorre procedere secondo una giustizia più appropriata e, se gli altri non capiscono, pazienza. Il mafioso, insomma, pratica la giustizia nell’Hic Et Nunc,  senza troppo preoccuparsi delle regole fissate da lui stesso o dal suo clan il giorno prima. Il suo senso della giustizia è quello del miope che inquadra ciò che conta solo all’interno perimetro che la sua miopia gli permette di raggiungere. Ciò che succede al di là non lo riguarda. Mosso dalle frustrazioni, dalla rabbia e dai modelli con cui è cresciuto, trova nel clan l’ambiente per diventare forte e ristabilire la giustizia nel mondo (nel suo cortile), senza accorgersi o senza dare rilievo al fatto che tante volte i suoi figli giocano con i bambini del cortile accanto.

 

LA LEGGE MORALE
Bisogna esplorare il percorso che porta l’adolescente a operare le sue prime scelte.  Quello che sentiamo non è solo il risultato di ciò che noi scegliamo, ma anche dello spazio che ci viene presentato dalle figure significative che ci aiutano a crescere. Saro si comporterà da burattino nelle mani del padrino Butera fin quando non capirà  di aver perso il controllo sulla sua stessa vita. A questa nuova visione delle cose contribuisce Ada, che, nonostante il contesto siciliano, rifiuta lo stile di vita di Saro; non è un rifiuto all’amore, ma della scelta di vita sbagliata fatta da Saro. 

 

AMORE E DELINQUENZA
Prendiamo ora in considerazione il rapporto con Ada, la donna di cui Saro si mostra innamorato e che continua a ricercare nel corso del film per convincerla ad avere una relazione con lui. Il forte sentimento di Saro è ricambiato, ma Ada gli dice con fermezza di non poter condividere i suoi abusi e il suo stile di vita.

Durante la discussione del film ci si è chiesti se il sentimento che Saro prova nei confronti di Ada si possa chiamare davvero “amore”, un amore assoggettato al potere e ad abusi continui. Saro non è in grado di far coesistere i suoi reali interessi: da un lato fare strada nella mafia, dall’altro l’amore per Ada.

E Ada come può  amare un violento, un assassino? Ma forse Ada riesce a vedere la violenza nei suoi confronti come una debolezza dell’uomo e questo le permette di non rifiutarlo in modo definitivo. Il sentimento della donna va oltre il delinquente, vede lontano e vede anche per Saro: alla fine l’uomo va dove la donna indica. Forse ci va perché a lui conviene, o forse perché a loro due conviene.

È bene sottolineare comunque che non tutti sono in grado di andare dove gli altri indicano: Saro invece ci è riuscito e dalla scelta di Saro di inseguire Ada nasce una famiglia.

 

L’ASSOCIAZIONE MAFIOSA: UNA FAMIGLIA CON GERARCHIE E REGOLE
Quando un giovane entra in un’organizzazione criminale qualcuno gli dice che deve vedere “la Luna in cielo e non il Sole”, per fargli capire chi decide l’ordine del mondo. 

Nel momento in cui a Saro viene chiesto di uccidere il giudice, egli vive un turbamento, che vorrebbe condividere con l’amico, con il quale però non riesce a confidarsi. A questo punto inizia a toccare la solitudine. Il delinquente e il mafioso a poco a poco si ritrovano soli. Di fatto, il padre aveva avvertito Saro che, entrando a far parte di quella realtà, non ci sarebbe stato solo il dolce che stava assaporando, ma anche l’amaro.

Ci sono persone che sono arrivate a uccidere le proprie sorelle, il padre, le proprie figlie perché non rispettavano le regole della loro vera famiglia, Cosa Nostra. Infatti, ai componenti dell’associazione mafiosa viene imposto il disconoscimento della propria famiglia d’origine perché la prima vera famiglia deve essere la mafia.

All’interno della “famiglia” si deve fare strada perché chi rimane indietro muore. Tuttavia, si deve accrescere il proprio potere cercando di non superare mai chi è più potente,  altrimenti si muore. 

Una regola di Cosa Nostra è quella di saper fare il padre e il marito e infatti anche Saro viene spinto a sposarsi e formare una famiglia. Tuttavia, il mafioso pensa di rispettare la moglie e i figli, ma non è capace né di essere un marito né di essere un padre. 

Nel momento in cui si entra a far parte di Cosa Nostra e si fa un giuramento, si diventa un uomo d’onore. Un “uomo d’onore” non può mai mentire ad un altro “uomo d’onore”. Per questo motivo agli occhi di Saro quel mondo appare come perfetto, come una bella famiglia di cui fidarsi.

 

IL CAMBIAMENTO
È difficile accettare l’idea che persone che hanno fatto parte di associazioni mafiose possano cambiare. Nel corso della discussione ci si chiede se Saro sia riuscito a fare un serio percorso di autocritica. Guardando il film si ha la sensazione che l’evoluzione di Saro non sia sorretta da una reale presa di coscienza del male che ha fatto. Non c’è stata una rielaborazione effettiva del suo passato e del suo vissuto emotivo. È un po’ come se si fosse trovato con le spalle al muro e si fosse rifugiato in Ada, scappando dal suo passato.

 

LA FIGURA DI ADA
Ada è una donna con una capacità straordinaria di leggere la realtà e saper guardare oltre. All’inizio dei film vediamo Ada e Saro passare insieme una giornata ed emerge chiaramente tra loro un trionfo di affettività, desiderio e amore. Lei ha affrontato molte difficoltà e fatto una scelta complessa composta da molteplici passaggi, che permetteranno a Saro di costruire un nuovo futuro, diventando una persona diversa. Non è chiaro nel film se Saro sia stato capace di aggiornare la sua visione della donna e del loro rapporto. Si intuisce però che la coppia che si è formata vive nell’universo morale della donna. Ada non scende a compromessi con Saro, lascia la Sicilia e si trasferisce in un paese del Nord Italia, paese dove Saro cercherà di aprirsi a una nuova vita,  allontanandosi dall’ambiente mafioso e consegnando ad Ada le proprie fragilità.

 

LA COLLABORAZIONE CON GLI ORGANI DI GIUSTIZIA
La collaborazione con la giustizia di Saro ha chiaramente dei connotati di interesse personale e privato e gli serve per salvarsi la vita, per portare avanti il rapporto con Ada che è stata la sua “molla”, essendo l’elemento che l’ha salvato e pungolato fino al momento della scelta di collaborare.

Al gruppo ci si chiede quale evoluzione abbia avuto la coscienza di Saro quando decide di raggiungere Ada. Prima di questa scelta, Saro si dimostra perplesso rispetto all’ordine di uccidere il giudice di cui è amico, ma non dimostra un rifiuto dei principi della mafia.

Il pentito non passa attraverso un processo di ricostruzione della coscienza, dell’identità, di un “percorso di cittadinanza”. Questo espone la categoria dei pentiti a quanto viene presentato nel film: recidive, commistione, ambiguità, ritrattazione e ricatti. Diverso è il discorso su persone che, attraverso un percorso personale di molti anni, tornano ad essere cittadini. Esistono inoltre anche i cosiddetti “dissociati”, ovvero coloro che non hanno più nulla da raccontare o comunicare, ma solo brandelli di verità da vendere per motivi differenti, che si dissociano dall’ambiente criminale per avere dei ritorni in termini di benefici modesti. Il pentito, il dissociato e il trasgressore sono tre figure che hanno caratteristiche, percorsi e lavori individuali profondamente diversi. 

 

LA PERPLESSITÀ DI SARO
In diversi momenti del film, Saro consegna allo spettatore la sua perplessità e il suo turbamento nonostante continui a procedere per la sua strada. Saro non è il fanatico che crede a quel che viene dichiarato col giuramento mafioso. I passaggi in virtù dei quali diventa progressivamente uomo d’onore non sono accompagnati da un’intensificazione del suo delirio. Potrebbe essere interessante allora chiedersi come si sente e cosa vive una persona durante il giuramento come uomo d’onore.

 

TESTIMONIANZA DI EX-DETENUTO
“Nel momento in cui si entra in Cosa Nostra non viene estromessa la famiglia che uno si è creato, ma necessariamente viene messa in secondo piano, perché la prima famiglia è Cosa Nostra. Ci sono persone di Cosa Nostra che hanno ucciso alcuni familiari in quanto non rientravano nei canoni prestabiliti. Spesso all’interno di Cosa Nostra la donna subisce, oppure capita che per poter sposare una donna sia necessario ucciderne il padre (in quanto carabiniere ad esempio), senza che questa sia a conoscenza di chi abbia commissionato la morte del padre. Quando una persona diventa parte di un’organizzazione criminale, si è già avvicinato a quella famiglia, commettendo alcuni reati. Un tempo mi sentivo grande, oggi mi chiedo perché ho fatto tutto questo” 

 

RICOSTRUIRE LA CONSAPEVOLEZZA DEL PROPRIO SÉ
Il recupero delle persone non è cosa facile. Il regista propone la collaborazione con la giustizia come alternativa per far giungere Saro alla presa di coscienza della parte amara della vita, innescando una crescita, un percorso di purificazione, redenzione e consapevolezza del proprio sé. 

Diversamente dai detenuti del Gruppo della Trasgressione, che rivendicano il valore di un percorso fatto a proprie spese, a Saro viene proposto di ricostruirsi una vita e gli viene offerto un lavoro in edicola, veicolando l’idea che egli sia diventato in grado di sudarsi la vita, accettando l’amarezza e il rischio che vivono tutti i cittadini.

 

TESTIMONIANZA DI UN EX-DETENUTO
“Noi che veniamo da tantissimi anni di carcere, non siamo collaboratori di giustizia, ma collaboriamo con le autorità e in questo caso specifico attraverso il Gruppo della Trasgressione. Non arretriamo nelle nostre responsabilità. Se una persona entra in carcere e collabora fin da subito, in questo modo non si evolve. Penso che il lavoro fatto in dieci anni con il Gruppo della Trasgressione sia una vera collaborazione: bisogna impegnarsi e mettere al proprio interno semi che possano germogliare. 

Alcuni, avendo collaborato, non hanno mai fatto un giorno di carcere. Io invece penso che sia necessario sudarsi le cose, facendosi aiutare da altre persone capaci di fornirti gli strumenti per far nascere dentro di te qualcosa, per vedere cosa c’è in questa parte di mondo che tu da solo non sei capace di vedere. Se non si trovano persone che ti portano a vedere l’altra parte del mondo, questo in carcere non succederà mai, perché prevalgono gli interessi del capo branco e non il desiderio di aiutare l’altro”.

 

Alessia, Asia, Federica e Arianna

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Non posso dimenticare

Io non posso perdonare, perché non posso dimenticare. Non posso dimenticare come hai distrutto la spensieratezza e la leggerezza che avrebbe dovuto accompagnare i miei vent’anni.

Non posso dimenticare come hai demolito quel senso di fiducia nell’altro che, forse ingenuamente, da sempre mi ha contraddistinta.

Non posso dimenticare come, attraverso il tuo narcisismo, hai deciso di annullare il mio valore, considerandomi un oggetto di tua proprietà, privandomi della libertà di scegliere.

Non posso dimenticare come oscillavi tra il chiedermi aiuto disperatamente e il vomitarmi addosso tutta la tua rabbia, come se fossi io la causa del tuo tormento.

Non posso dimenticare il mio desiderio di urlare e di come questo non sia mai stato ascoltato e compreso da nessuno, poiché nessuno poteva garantirmi una protezione dal tuo delirio.

Non posso dimenticare come invece sia stato chiesto a me di cambiare, di nascondermi, di andare lontano, di modificare le mie abitudini e sparire, come se fossi io quella sbagliata.

Non posso dimenticare gli sguardi attoniti delle persone che mi circondavano e la facilità con cui hanno deciso di voltarsi dall’altra parte.

Non posso dimenticare gli occhi preoccupati di mia madre, che mai sono stati così in grado di comunicare, pur senza dire una parola.

Non posso dimenticare la paura, non ci riesco.

L’unica cosa che posso fare invece è imparare a convivere con la mia sofferenza, guardandola dritta in faccia ed impedendole di disintegrarmi ogni volta che ci penso, perché nulla ormai si può fare rispetto a quanto già accaduto.

Federica Turolla

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