Il processo a Dmitrj

Nel processo a Dmitrj si coglie che l’accusa tenta in tutti i modi di convogliare i sentimenti, le idee e i fatti che hanno portato all’omicidio del padre in un imbuto che cancella l’ambiente e si concentra sulle responsabilità dell’imputato.

Al di là dell’errore di persona sul presunto omicida, in generale, mi sembra che concentrarsi sulle dinamiche dell’imputato scorporandole dal resto comporti il rischio che la pubblica accusa e il giornalista di cronaca nera possano dar luogo a qualcosa di molto simile alla pratica medievale di esiliare sull’eretico di turno la complessità della realtà, delle contraddizioni e dei conflitti sociali.

In altre parole, mi pare che la funzione del Pubblico Ministero e, non di meno, del giornalista siano esposte strutturalmente al rischio di venire asservite al bisogno collettivo di confinare il male dentro il colpevole, il quale diventa in questo modo una specie di buco nero capace di risucchiare su di sé e cancellare tutto quello che gli sta attorno.

Dostoevskij, verso la fine del 19° secolo dimostra chiaramente di sentire questo rischio; noi oggi possiamo chiederci se esistono sistemi per ridurlo?

I Conflitti della famiglia Karamazov

Nessun bambino nasce cattivo

Non esistono risposte giuste o risposte sbagliate su un piano universale, eppure di fronte all’affermazione “nessun bambino nasce cattivo” penso sia molto difficile andare a dimostrare il contrario. Questo, almeno, è ciò che penso io.

Si potrebbe mai immaginare e prevedere che un neonato intento a guardarti e sorriderti con occhi grandi e luminosi, un giorno diventerà violento, aggressivo, vendicativo, pieno d’odio e di rancore? Proprio lui che in quel preciso istante sembra protetto da un’aurea angelica e pura. Qualcosa deve essere andato storto, qualcuno deve avergli fatto del male e deve aver tradito il suo amore. Si dice che l’odio non sia altro che un grande amore ferito e che gli adulti siano bambini feriti diventati grandi: alla fine siamo sempre noi, solo con qualche anno in più man mano che il tempo passa.

E allora quando ci viene chiesto come mai molto spesso capiti di provare una certa simpatia, e oserei dire anche tenerezza/compassione, verso una o più persone detenute, la mia risposta sta proprio in quell’affermazione iniziale. Nessun bambino nasce cattivo. Il lupo dorme dentro ognuno di noi, ma forse continuerebbe a dormire se nessuno si prendesse la briga di andarlo a svegliare.

Quando un essere umano viene cresciuto in condizioni estreme, come nel caso del nostro Smerdjakov, e quando fin da bambino è abituato a sentirsi dire “Questo qui, a me e a te, non ci vuole bene, questo mostro. E non vuole bene a nessuno. Tu non sei un essere umano, tu sei venuto fuori dal fradicio di un bagno, ecco cosa sei tu…”, quali sono le probabilità che cresca con un’immagine di sé stesso amorevole e positiva? Quali sono le probabilità che, quel mostro, lo diventi davvero?

Durante la conversazione tra Ivan Karamazov e il diavolo, quest’ultimo dice di essere sinceramente buono, ma che i suoi sentimenti migliori (ad esempio la gratitudine) gli vengono proibiti a causa della sua posizione sociale. Il suo compito è infatti quello di non mostrare e non esprimere mai la sua benevolenza, perché altrimenti tutto il mondo smetterebbe di esistere, si estinguerebbe. C’è bisogno del bene e del male per permettere l’esistenza della vita stessa. E chi meglio del diavolo può portare a perfetto compimento e realizzazione questo compito? Ma non era forse anche il diavolo il più bello e splendente tra tutti gli angeli? Mitologia a parte, si potrebbe azzardare che anche il diavolo in persona sia un bambino ferito?

A questo proposito vorrei introdurre un punto di vista secondo me molto interessante e diverso rispetto a ciò di cui si sente spesso parlare riguardo l’impulsività emotiva e all’impossibilità di autogenerare o meno le proprie emozioni.

Ultimamente ho avuto modo di leggere alcuni libri sul pensiero dello psicologo austriaco Alfred Adler e questo è ciò che ho interpretato e compreso. L’autore sostiene la tesi secondo cui il trauma non esiste in quanto appartiene al passato, che a sua volta non esiste, e le emozioni non sono reazioni istintive a un qualche stimolo esterno/interno, ma vengono autogenerate per raggiungere uno scopo del quale si è o meno consapevoli. Di conseguenza secondo Adler, un’emozione come può essere la rabbia, viene generata da un individuo principalmente allo scopo di poter dominare su qualcun altro, di sentirsi potenti.

Perciò in quest’ottica, se una persona ne aggredisce un’altra, ha bisogno di autogenerare rabbia così da riuscire ad avere l’energia e la forza necessarie per farlo e per raggiungere il suo obiettivo di dominanza. Secondo Adler io aggredisco, urlo e attacco perché voglio dominare su qualcun altro e mi servo della rabbia perché è l’emozione migliore per raggiungere il mio scopo.

Rispetto alla non esistenza del trauma, quindi, una persona non aggredirebbe perché ha subito un trauma in passato o perché non è stato cresciuto con amore in passato, ma perché sta continuando a ricercare quell’amore, quell’affetto e quelle attenzioni nel presente e si serve dell’emozione della rabbia per raggiungere questo scopo. In sostanza spera di ottenere quell’amore e quell’affetto, che pretende, servendosi della rabbia e della violenza. Forse Adler cambierebbe l’espressione “ho agito così perché i miei genitori si sono comportati in questo modo” (causa-effetto: eziologia) con “ho agito così perché voglio raggiungere questo obiettivo X nel presente” (azione-scopo: teleologia).

Mi sono trovato più volte a riflettere su quale sequenza possa essere più vicina al vero, se il rapporto di causa-effetto o quello di azione-scopo e ovviamente non ho una risposta conclusiva. Proprio per questo, al momento mi accontento di una piccola grande boa di salvataggio che Dostoevskij ci offre: “Una volta che gli uomini avranno rinnegato Dio, uno per uno (e io credo che questo periodo sopraggiungerà di pari passo con i periodi geologici), tutta la precedente visione del mondo verrà a cadere, senza ricorso all’antropofagia, e soprattutto cadrà la vecchia morale, e partirà tutto da zero. Gli uomini si uniranno per prendere dalla vita tutto quello che essa potrà dar loro, ma soltanto per la gioia e la felicità della vita terrena. L’uomo sarà sollevato da uno spirito di divina, titanica fierezza e apparirà l’uomo-dio. Quest’amore sarà soddisfacente soltanto per un attimo della vita, ma basterà la consapevolezza della sua fugacità per intensificarne l’ardore, che in passato invece veniva dissipato in speranze di amore eterno e ultraterreno…

Ma dal momento che, considerata l’inveterata stupidità umana, quest’era non arriverà che fra mille anni, colui che riconosce la verità sin da adesso può organizzare legittimamente la propria vita secondo i nuovi principi. In questo senso, “gli è tutto permesso”.

Ruben Corbellini

I Conflitti della famiglia Karamazov

Siamo tutti un po’ Karamazov

Ogni giovedì ci sediamo tutti in cerchio nel teatro di Bollate, illuminati dai fasci di luce dei faretti che ti permettono di vedere tutti i volti di tutti i presenti e pronti per incontrare una nuova persona. Ogni settimana, infatti, abbiamo fatto la conoscenza di uno dei quattro fratelli Karamazov, sviscerando, analizzando e interrogandoci sui loro comportamenti, sul loro essere e sul loro animo all’interno del romanzo.

La prima settimana abbiamo parlato di Dimitrij e del suo credito verso il padre, la seconda settimana di Alesa e della sua spiritualità, lui orfano che ha trovato un nuovo padre nella figura dello starec Zosima e di Dio, la terza settimana di Ivan, della libertà e del diritto al rancore e, infine, la quarta settimana di Smerdjakov e dell’omicidio che ha commesso.

Durante gli incontri nella mia testa un’idea si è fatta strada, cioè che forse tutti noi siamo un po’ i fratelli Karamazov: ognuno di noi ha crediti verso qualcuno, alcuni vivono la spiritualità e si affidano a Dio, molti serbano rancore verso altri, alcuni sono impulsivi come Dimitrij, altri riflessivi come Alesa, altri ancora si tormentano come Ivan. Ma poi siamo arrivati a Smerdjakov, colui che ha ucciso il proprio padre. E lì tutto è cambiato.

E allora questa idea diventa una domanda: ma allora siamo tutti un po’ Karamazov? Forse no. Io non ho mai vissuto senza una madre e con un padre assente, niente di tutto quello che hanno passato i fratelli Karamazov ha che fare con me e con il mio vissuto, però con quello di qualcun altro sì. E quindi chi sono i Karamazov oggi?

In questo percorso i quattro fratelli sono stati impersonificati da quattro detenuti: Fabio, Salvatore, Giuseppe e Beqar. Tutti loro hanno raccontato la loro storia, il loro vissuto, che per molti versi è simile a quello dei quattro personaggi del romanzo. Poter dare loro un volto di una persona reale, che esiste, a cui posso sedermi di fianco e con cui posso parlare, mi ha aiutato a poter dare una rilettura del romanzo nella mia realtà e in ciò che mi circonda. Oltre a loro anche altri detenuti hanno raccontato della propria infanzia, di condizioni di disagio, di tossicodipendenza e di rapporti difficili soprattutto con la figura paterna, e quindi forse loro sì possono capire fino in fondo i quattro fratelli.

Con questo non vorrei che passasse il messaggio che solo chi è dentro un carcere possa immedesimarsi in loro, perché sicuramente anche tra i miei colleghi universitari, tra i famigliari delle vittime, tra i pubblici ministeri e gli psicologi ci sono dei Karamazov. Ma allora ritorniamo alla domanda: per me cosa vuol dire essere un Karamazov oggi?

È difficile rispondere, ma mi sono rimaste impresse le parole del dott. Aparo che, parlando riguardo al grado di consapevolezza di chi compie un reato, diceva che, secondo lui, il grado di libertà (e quindi di consapevolezza) aumenta in proporzione all’amore che si è ricevuto. Allora forse per me un Karamazov è qualcuno a cui è mancata una qualche forma di amore e che però comunque ha diritto a vivere una vita, ha diritto a ricercare l’amore negli altri, ha diritto di affidarsi a Dio, ha diritto a essere arrabbiato e a serbare rancore per questo, ma allora in nome di ciò ha anche diritto a commettere reati, ad uccidere? No, e in questo a mio parere ne sono esempi e testimonianze preziose Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro.

Ma allora come biasimare chi agisce come Smerdjakov, chi commette un reato, sapendo quello che ha vissuto? Non lo so, ma proprio questo è l’impegno che mi porto a casa: a scuola e in famiglia mi è stato insegnato come comportarsi, cosa si può fare e cosa no, in questi cinque anni di giurisprudenza ho studiato cos’è un reato, come viene punito, quali sono le conseguenze e le implicazioni, tutta questa conoscenza è essenziale ed importante ma ciò che ho capito è che tutto questo dovrebbe essere accompagnato da una ricerca: una ricerca di chi sono i condannati, del loro vissuto, una ricerca per prevenire, dove è possibile, la commissione dei reati e, se già avvenuti, una ricerca per trovare dei modi di riparare a questi.

Marta Miotto

I Conflitti della famiglia Karamazov

Schiettezza e ambiguità

Alla richiesta di parlare di Smerdjakov subito mi si affaccia alla mente un paragone con Alesa: emblema della schiettezza l’uno, emblema dell’ambiguità l’altro.

Se cerco di spiegare l’ambiguità di S. devo chiamare in causa Ivan. E’ nella relazione con Ivan che l’ambiguità di S. si dipana in tutta la sua potenza nefasta. I tre colloqui con Ivan ne danno conto e ne forniscono la chiave interpretativa. Nel loro primo colloquio, si annida l’incipit della tragedia. E’ un colloquio all’insegna del non detto, dell’allusione a “una complicità convenuta e segreta”, implicita e dunque foriera di implicazioni ingovernabili, non chiara, mai espressa compiutamente.

Ma come ci si arriva?

Ivan sta male. Un’inquietudine sottile lo pervade, un’irrequietezza senza ragione, che gradualmente si trasforma in angoscia e poi in nausea. Improvvisamente Ivan è in grado di collegare tale nausea a “un elemento casuale, esterno”: Smerdjakov e la repulsione che prova nei suoi confronti. Non era così all’inizio. All’inizio lo aveva trovato originale, intelligente, curioso. Poi man mano aveva visto crescere in lui “un amor proprio senza limiti e permaloso”. Poi di fronte ai contrasti domestici gli era stato impossibile capire che cosa S. pensasse davvero sulle questioni. Poi il suo modo di parlare e di condurre la conversazione: domande tortuose che improvvisamente cessavano, silenzi improvvisi, subitanei cambi di argomento. Poi quella “speciale e irritante familiarità” con cui S. gli si rivolgeva che non presupponeva mancanza di cortesia o di rispetto ma che alludeva a una forma di “complicità convenuta e segreta”. Complicità implicita, come ben si capirà nell’ultimo colloquio, subito prima che S. si impicchi, e foriera di tragedia perché il non detto, basato sul presupposto che i pensieri e i sentimenti fossero chiari anche se non verbalizzati, porterà alla sciagura.

S. è un maestro della comunicazione ambigua. Con ciò che dice o non dice o dice allusivamente tesse una ragnatela mortale. Nel secondo colloquio e poi in quello finale riesce a controllare tutto ciò che dice. Nel rispondere a un Ivan, che in qualche modo intuisce la sua trappola, passa dall’adulazione (“per l’amicizia che ho verso di voi e per la sincera devozione…”), alla ribellione (“come potevo parlare più chiaro? Vi sareste arrabbiato”) all’allusione (“potevate indovinarlo”) (“potevate intuirlo”). Ma è soprattutto nella ripresa della frase pronunciata nel primo colloquio e che così tanto aveva dato da pensare a Ivan (con un uomo intelligente è sempre interessante parlare) che comprendiamo la potenza della ragnatela tessuta da S., di cui lui stesso finisce vittima, perché lui stesso non aveva compreso che Ivan ignorava l’effettivo andamento dei fatti.

Sicuramente S. è il figlio che vanta il credito maggiore dal padre: illegittimo, non riconosciuto, epilettico, mantenuto ma non amato, costretto nella posizione di servo, di sottomesso. Intelligente, usa la cultura e gli argomenti di Ivan per volgerli ai suoi scopi poco onorevoli. Se non si fosse incontrato con lui forse non sarebbe riuscito a dispiegare tutta la sua potenza distruttrice. Presuntuoso e ribelle “Ben altro che questo avrei potuto far io, sapere io”. Suona la chitarra e canta. Disprezza la madre, i russi, l’esercito. Avrebbe voluto che Napoleone riuscisse a conquistare la Russia, così questa si sarebbe potuta incamminare sulla strada del progresso.

Tornando al paragone con Alesa credo sarebbe interessante (anche se magari non è la sede adatta) approfondire la questione dell’indole, dei comportamenti innati. La schiettezza di Alesa è innata. E’ una schiettezza discreta, ma se sollecitata, non esita a esprimersi in modo chiaro fino alla crudezza. Ma la schiettezza di per sé non è un disvalore, anzi è spesso una virtù.  Il caso di S. è più complicato. L’ambiguità può essere innata? Nel caso di S. io direi che è stata anche coltivata con sapienza. Come muoversi nei confronti di pulsioni, emozioni, sentimenti, comportamenti che appartengono a una certa indole?

Trovo anche interessante che per avvicinarmi alla comprensione di S. io sia passata attraverso altri due personaggi.

I Conflitti della famiglia Karamazov

Conversando con i fratelli Karamazov

Giovedì 7 marzo avremo nel carcere di Bollate l’ultimo dei 5 incontri sul Romanzo di Dostoevskij. Stanno partecipando all’iniziativa ex criminali, studenti, persone ferite dalla criminalità organizzata, avvocati, magistrati e un sacerdote

Nella giornata conclusiva di domani, Francesco Cajani e io porremo a noi stessi e a tutte le persone che hanno contribuito all’iniziativa le seguenti domande:

  • Quali erano gli obiettivi dell’iniziativa?
  • Cosa abbiamo messo in tasca in queste 5 giornate?
  • Che uso personale possiamo farne?
  • Se si ritiene che ne valga la pena, in quali ambiti e con quali modalità rilanciare il lavoro su I Fratelli Karamazov

Nel cammino della scienza, è buona norma dichiarare con quali domande si va dentro un laboratorio ed è ancora più importante rendere pubblici i risultati e le risposte che, a seguito della ricerca, si pensa di avere ottenuto.

Credo che lo studio della devianza e gli interventi per prevenirla e curarla debbano essere trattati come una scienza. Se considero la portata dei danni economici e affettivi che la criminalità causa nella nostra società, trovo più che ragionevole assumere nei confronti della materia l’atteggiamento che qualsiasi ricercatore ha nei confronti di ciò di cui si occupa: Materiali, Variabili, Procedure di una ricerca devono essere resi pubblici per permettere a chi non c’era di verificare, criticare, ottimizzare, proporre alternative; in sintesi, contribuire alla evoluzione della conoscenza del problema e dei mezzi per trattarlo.

Pertanto, cari studenti di giurisprudenza e psicologia, cari componenti del gruppo della trasgressione e cari tutti, a conclusione della nostra visita ai Fratelli Karamazov, ai loro diversi modi di riscuotere ciascuno il proprio credito e alle tante domande che i loro conflitti ci hanno suggerito, visto che siamo entrati tutti nel laboratorio, per favore, facciamo ciascuno il resoconto della nostra esperienza, come si addice alle persone che frequentano i laboratori.

I Conflitti della famiglia KaramazovDettagli del Programma

Sentirsi in credito

Il primo giovedì di febbraio 2024, tra le 14:30 e le 17:30, fra le mura della Casa di reclusione di Bollate, durante il primo incontro del progetto “Essere oggi Ivan, Aleksej, Dmitrij e Smerdjakov. I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate”, sotto lo sguardo artistico di Andrea Spinelli (primo illustratore giudiziario italiano), muovendo dalla descrizione di Dmitrij Fёdorovic e del suo rapporto col padre, alcuni detenuti, Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro (famigliari di vittime inno- centi della criminalità organizzata, rispettivamente, madre di Marcella di Levrano e fratello di Emanuela Setti Carraro), una sessantina di miei colleghi studenti universitari, altri membri della società civile ed io, guidati da Angelo Aparo (psicoterapeuta, fondatore del Gruppo della Trasgressione) e Francesco Cajani (Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano), abbiamo dato vita ad una discussione sul “sentirsi in credito”.

Le ore trascorse all’interno dell’istituto penitenziario sono state “animate” prevalentemente dalle narrazioni dei detenuti Fabio, Salvatore, Giuseppe e Stefano, che hanno condiviso col resto del gruppo verso chi e per quale motivo si sono “sentiti in credito” nel corso delle loro vite.

Il primo a prendere la parola è stato Fabio, che ha affermato di “essersi sentito in credito” verso la sua famiglia, in particolare verso il padre. Infatti, a partire da quando aveva all’incirca quattro anni, Fabio iniziò a sentirsi «accantonato» dai suoi genitori, poiché questi, dopo aver scoperto che il loro secondo figlio era affetto da Talassemia, iniziarono a riservare sempre meno attenzioni nei confronti di Fabio; dunque, questi iniziò a ricercare altrove qualcuno che fosse in grado di dargli il riconoscimento che pretendeva. Quel qualcuno Fabio lo ritrovò nel suo gruppo di amici, che, purtroppo, era formato da persone poco raccomandabili. Questo, unito al fatto che era «casinista dalla nascita», che voleva «fare un dispetto» al padre e desiderava affermarsi nell’ambito della sua nuova “famiglia”, composta da «idoli, perché rispettati e potenti», portò Fabio a commettere i primi crimini.

Successivamente è stato il turno di Salvatore, che, in breve, ha detto di aver iniziato a “sentirsi in credito” verso il padre dopo che quest’ultimo aveva deciso di abbandonare la famiglia, nonché di aver inflitto alle sue vittime il dolore che avrebbe voluto far patire al padre. Giuseppe, a sua volta, ha sostenuto di “essersi sentito in credito” per via della sua infanzia difficile, durante la quale la sua “famiglia naturale”, non in grado di soddisfare i suoi bisogni e desideri materiali, è stata surrogata da quella composta dai suoi amici criminali; il che lo ha portato a delinquere per prendersi ciò che non ha potuto avere da bambino.

Infine, Stefano, dubbioso tra “essersi sentito in credito” ed “essersi sentito in debito” nei confronti della vita, fra le altre cose, ha raccontato che il padre, gran lavoratore ma pessimo genitore in quanto assente e violento, gli mise la prima pistola in mano.

Dalle parole dei detenuti sembra emergere che, tra le possibili cause che hanno indotto gli stessi a perpetrare condotte criminose, vi siano la legittimazione derivante dal “sentirsi in credito” (in termini di assistenza sia morale che materiale) nei confronti dei propri genitori e la frequentazione di ambienti devianti.

Ora, come si può evitare che un soggetto arrivi a “sentirsi in credito”? Qualora non si raggiunga questo prima obiettivo, quali correttivi posson essere messi in campo?

Un ruolo fondamentale in dette questioni dovrebbe essere giocato dalle istituzioni, in particolare, da scuola e carcere, e, quindi, rispettivamente, da educazione e rieducazione, che, ahimè, non risultano essere temi di particolare tendenza. La stessa Costituzione, rispettivamente, al secondo comma dell’articolo 31 e al secondo comma dell’articolo 27, afferma che «[la Repubblica] protegge […] la gioventù» e «le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato». Quindi, lo Stato dovrebbe guidare ogni consociato, libero o condannato in via definitiva, in quello che Angelo Aparo, durante l’esperienza “Essere Raskol’nikov oggi. Delitto e castigo al carcere di Opera”, ha definito “viaggio alla ricerca della coscienza”, offrendo sempre delle valide alternative alla devianza. In particolare, gli istituti scolastici e penitenziari, ossia i luoghi dove, rispettivamente, giovani e detenuti trascorrono gran parte del loro tempo, dovrebbero, per mezzo di collaboratori credibili e realtà come il Gruppo della Trasgressione, ricordare quotidianamente ai menzionati soggetti che la strada della criminalità, oltre ad essere un vicolo cieco, non è la sola percorribile.

Inoltre, è vero che (il richiamo va al primo comma dell’articolo 27 della Costituzione, il quale afferma che «la responsabilità penale è personale» e alle finalità della sanzione penale) la commissione di un reato deve far sorgere in capo a colui che lo commette l’obbligo, corrispondente al c.d. “debito con la giustizia”, di ripagare il torto subito dalla collettività, dalla persona offesa e dai famigliari di quest’ultima (senza dimenticare che anche le famiglie dei condannati possono patire sofferenze non indifferenti); ma è altrettanto vero che, in virtù di quanto sin qui detto, si possa concludere che la società, in quanto largamente disinteressata all’educazione e, soprattutto, alla rieducazione (elemento che mette in luce come il nostro paese sembri sostanzialmente ignorare il fatto che, ad un certo punto, i detenuti smettono di essere tali), oltreché verso quest’ultimi, è sicuramente debitrice verso sé stessa.

Credo che ognuno di noi dovrebbe pretendere qualcosa di meglio rispetto ad uno stato che, per dirlo con le parole di Fabrizio de André, «si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità».

G. R.

I Conflitti della famiglia Karamazov

Smerdjakov – week 4

Con quell’appellativo – asina di Balaam – egli si riferiva al lacchè Smerdjakov. Questi era un giovanotto sui ventiquattro anni, non di più, straordinariamente misantropo e taciturno. Non che fosse timido o si vergognasse di qualcosa; no, al contrario, era altero di carattere e sembrava che disprezzasse tutti. Ma ecco che, arrivati a questo punto non possiamo fare a meno di dire anche solo due paroline sul suo conto. Era stato allevato da Marfa Ignat’evna e Grigorij Vasil’evič, eppure il ragazzo era cresciuto “senza la minima riconoscenza” come diceva di lui Grigorij, era selvatico e guardava il mondo in tralice. Da piccolo gli piaceva moltissimo impiccare i gatti, per poi seppellirli con tanto di cerimonia funebre. In quelle occasioni indossava un lenzuolo, che fungeva da pianeta, cantava e agitava qualcosa sul cadavere del gatto come fosse un turibolo. Faceva questo zitto zitto, con la massima segretezza. Grigorij lo pizzicò una volta mentre era intento a questa pratica e lo picchiò di santa ragione con la verga. Il ragazzo si rintanò in un angolo e tenne il broncio per una settimana. “Questo qui, a me e a te, non ci vuole bene, questo mostro”, diceva Grigorij a Marfa Ignat’evna, “e non vuole bene a nessuno”. “Tu non sei un essere umano”, diceva a Smerdjakov dritto in faccia, “non sei un essere umano, tu sei venuto fuori dal fradicio di un bagno, ecco che cosa sei tu…”.
✏️ Fëdor Dostoevskij, gennaio 1879 - novembre 1880

🎨 Luca Lischetti, gennaio 2024


["Quali sono le dinamiche che alimentano le fantasie di uccidere un padre?" I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate - week 4]

I Conflitti della famiglia Karamazov

I fratelli Karamazov a Bollate

Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, da effettuare entro il 2 marzo 2024 su lostrappo.net/karamazov

I Conflitti della famiglia Karamazov

Protagonista è la famiglia

Dimitrij, tra i quattro fratelli Karamazov, è quello che più fatica a trovare un minimo di stabilità, vivendo costantemente in balia delle proprie emozioni che non riesce a dominare. Egli, a differenza dei suoi fratelli, non riesce a trovare un punto di equilibrio:  Alëša ha trovato pace nella fede lasciandosi guidare dal proprio padre spirituale del quale si fida cecamente; Ivan si rifugia nella ragione, negando l’esistenza di un Dio che non trova ed incolpa; Smerdjakov, taciturno ed ostile verso gli altri, dedica la propria esistenza a servire il padre.

Dimitrij, invece, è inquieto, prova collera verso il padre, sentimento che emerge tanto chiaramente da portare il lettore a credere che sarà lui il parricida nel romanzo. Il credito che Dimitrij ritiene di vantare nei confronti della figura paterna è un peso troppo grande ch’egli fatica a gestire, vivendo una vita superficiale, frivola e che lo rende quanto mai simile al padre tanto disprezzato.

Sinteticamente, sono queste le ragioni per le quali alla domanda “chi è il protagonista dei fratelli Karamazov” ho risposto, di getto, Dimitrij. Ad una riflessione più ponderata, però, sono giunta a ritenere che in realtà tutti e quattro i fratelli sono i protagonisti del romanzo. O forse, ancora meglio, è l’intera famiglia Karamazov ad essere protagonista: lo stesso Fëdor – senza il quale la famiglia Karamazov non esisterebbe così come non esisterebbero i complessi e sfaccettati rapporti tra il padre e i quattro figli – insieme a Dimitrij, Alëša, Ivan e Smerdjakov, sono coessenziali al romanzo, ognuno con i propri tratti caratteriali e con le proprie fragilità.

Approfitto dell’occasione per condividere con il gruppo l’obbiettivo della mia ricerca, così sintetizzabile: imparare ascoltando l’altro e mettendosi in discussione. Ognuno di noi porta con sé le proprie esperienze, le proprie convinzioni, la propria sensibilità… in sintesi, il proprio vissuto.  Tutti noi dobbiamo esserne consapevoli nel momento in cui prendiamo posto nel teatro del carcere di Bollate in occasione dei nostri incontri settimanali e ci mettiamo all’ascolto.

“Bisogna aver visto”, è il j’accuse di Piero Calamandrei in uno dei suoi primi interventi parlamentari del 1948. Richiamando le sue parole, io aggiungo che oltre ad avere visto, occorre avere ascoltato e compreso, tenendo viva la luce della ragione e della solidarietà umana e rammentando che prima di essere detenuti, vittime, studenti, avvocati, magistrati… siamo tutti uomini che condividono la stessa dignità.

Margherita Viglione

I Conflitti della famiglia Karamazov

Qualcosa capisco, dove non capisco…

Alla domanda “qual è l’obiettivo che io mi pongo in questa ricerca”, dopo alcuni giorni di riflessione per cercare di trovare il mio vero motivo, scavando più a fondo, ho capito di voler provare a guardare oltre le sbarre, di ferro, del cuore e della mente, per scoprire cosa c’è dietro, ma soprattutto cosa c’è dentro.

Ho sempre amato andare oltre le apparenze e l’immagine, cercando di non cogliere solo il bianco o il nero, il bene o il male, il giusto o lo sbagliato, ma provando a lasciarmi stupire da tutte le sfumature che stanno nel mezzo e che sono il collegamento tra estremità di qualsiasi genere, il ponte che unisce, superando un concetto di dualità.

Ci sono alcuni punti che più di altri mi hanno colpito e che mi sono rimasti dentro. E forse questo è un altro dei motivi per cui ho scelto di essere qui: assorbire il più possibile, come una spugna, non soltanto ciò che viene detto, ma soprattutto ciò che viene trasmesso da sguardi, gesti, sorrisi, pianti e tutto ciò che le parole non sempre possono esprimere.

Il primo riferimento che vorrei fare è alla speranza, che dal mio punto di vista è strettamente connessa alla forza e al coraggio. Questa capacità è ciò che permette di andare avanti, lottare e vedere con gli occhi del cuore e della mente qualcosa che ancora non c’è. È crederci prima di chiunque altro o al di là di chiunque altro e avere fede, in se stessi, negli altri, nella vita.

L’ho ritrovata nella lettera di Stefano indirizzata a se stesso, così come ho percepito un grande impegno nel cercare di perdonarsi e di perdonare.
Anche nel caso del perdono penso che tutto parta dalla propria persona, dal fatto di riuscire a perdonarsi prima di poter perdonare qualcun altro. Mi chiedo infatti come sarebbe possibile riuscire a perdonare qualcuno senza essere prima riusciti a perdonare se stessi e se ci siano casi in cui questo sia invece accaduto.

Il secondo riferimento riguarda l’empatia. Tra le varie domande ci è stato chiesto quali, secondo noi, potrebbero essere degli strumenti utili ed efficaci per mettere in atto una vera e propria trasformazione. La mia risposta a questa domanda ha a che fare con programmi di educazione/rieducazione emotiva, all’empatia, alla comprensione degli stati d’animo altrui. Mostrare in modo concreto quali possono essere le conseguenze delle proprie azioni, cercando di vestire i panni di chi si ha di fronte, sia concretamente (laddove possibile) sia usando il grande potere che hanno gli esercizi immaginativi.

Penso che anche empatizzare sia qualcosa che si possa imparare a fare, con l’aiuto di una guida, tanta pratica e una corretta psicoeducazione sull’argomento. Il tutto affiancato a programmi di regolazione delle emozioni, per imparare a gestirle ed esprimerle nel modo più adatto ed efficace a sé, ma senza ledere qualcun altro.

Ci sono infine due frasi che mi piacerebbe condividere e che mi è capitato di sentire nel corso degli anni, dal momento che sono state di grande aiuto per me nei momenti di difficoltà. La prima è questa: “Pensa ai tuoi genitori e a come avresti voluto che fossero stati con te, come avresti voluto che si fossero comportarti con te, le parole che avresti voluto sentirti dire, i gesti che avresti voluto ricevere e poi diventa quel genitore. Prima per te stesso e, dopo, per tutti gli altri”.

La seconda, invece, è questa: “Qualcosa capisco. Dove non capisco, arrivo con l’amore”.

Ognuno può scegliere di usarle e adattarle a sé, di interpretarle come meglio crede e di lasciarsi trasportare dal loro significato in totale libertà. Sono doni che mi sono stati fatti e che oggi vorrei donare a voi.

Ruben Corbellini

I Conflitti della famiglia Karamazov