Un padre e un figlio

Purtroppo, nel mio lontano passato, tra tutte le nefandezze che ho fatto, ho trovato pure il tempo e l’egoismo di mettere al mondo un bambino che, quando è nato, oramai io ero in carcere da quattro mesi. La prima volta che l’ho visto aveva tre mesi: mia moglie l’ha portato presso l’aula bunker di Firenze, dove stavo facendo uno dei miei tanti processi. Mi ricordo che i carabinieri che ci scortavano all’aula bunker mi avevano concesso di prenderlo in braccio dentro la gabbia, ma io mi sono rifiutato perché non volevo vedere mio figlio dentro quella gabbia. Ho preferito uscire le braccia tra le sbarre e toccargli la tenera testolina.

Da quel momento ho iniziato a vederlo, quando era possibile, nelle varie carceri italiane in cui ero recluso. Nel frattempo, il bambino cresceva e io, da irresponsabile, non capivo cosa potesse realmente servire a quel bambino perché ero preso dai miei malaffari.

Le cose sono cambiate quando il bambino ha iniziato a fare delle domande: mi chiedeva come mai mi trovavo in carcere e se era vero quello che aveva appreso a scuola, ovvero che avevo ucciso delle persone.

Io, che ero cresciuto in un ambiente con la regola di tenere tutto segreto, figuriamoci se potevo parlare con un bambino degli orrori che avevo commesso, così, con l’arroganza e la presunzione di essere suo padre, gli ho risposto che tutto quello che aveva sentito su di me era una menzogna perché c’era tanta gente cattiva che ce l’aveva con me e che, in ogni caso, lui non doveva parlare più di queste cose. Da quel momento, le cose sono sempre peggiorate con mio figlio: tutte le volte che veniva a colloquio era un litigio continuo perché non voleva ascoltare minimamente quello che gli dicevo.

Avrei voluto che qualcuno mi aiutasse a far crescere mio figlio. Nell’inconscio sapevo che io non avevo gli strumenti per farlo come poi ho visto che fa il Gruppo della Trasgressione, che aiuta a prendere coscienza i detenuti che sono disposti a rivedersi.

Un giorno, durante un colloquio l’ho rimproverato perché non era andato a scuola. Mi ha risposto: “Ma tu cosa vuoi da me? Chi sei? Cos’hai fatto per me?”. Quelle parole mi hanno stordito, ma sono servite a farmi chiedere cosa significasse avere un figlio e mi hanno svegliato dal sogno che aveva preso il posto di una realtà che non avevo mai conosciuto. Ho iniziato a chiedermi spesso perché mio figlio fosse così scontroso, presuntuoso, arrabbiato verso tutto quello che lo circondava. Ma forse il motivo di tutti questi comportamenti non era a lui che dovevo chiederlo, bensì a me stesso.

Ho continuato a farmi delle domande, lunghe riflessioni e ricerche introspettive, cercando di recuperare quella parte di me soffocata ma sana, che ho tenuto abissata per tanti anni. Dopo un’attenta valutazione sono arrivato alla conclusione che era meglio raccontargli chi ero stato veramente, pur sapendo che rischiavo di non essere compreso o di produrre un effetto boomerang.

E invece lui mi ha risposto con un grande abbraccio e, piangendo, mi ha detto che era fiero di avere un padre che aveva saputo riconoscere i propri errori e che oggi è diventato capace di vivere quei valori che in passato non sentiva per nulla.

Grazie al rapporto con mio figlio, oggi sono riuscito a capire quali possono essere i miei limiti. Riconosco che fare il padre, nella mia situazione di detenzione, è molto difficile anche perché non ho avuto nessuna esperienza paterna. Solo da una decina d’anni sono riuscito a capire il giusto significato del mio ruolo di padre. Attualmente nei riguardi di mio figlio mi sento effettivamente legato sia come padre sia come un amico sincero su cui lui potrà fare affidamento in qualsiasi momento lo vorrà.

Pasquale Trubia

Genitori e Figli

Un commento su “Un padre e un figlio”

  1. Il mantenimento e il rafforzamento della relazione figli con i genitori detenuti, rappresenta uno strumento fondamentale per vivere il periodo di separazione senza rinunciare al ruolo genitoriale e permette ai figli di crescere nella consapevolezza della propria storia. Posso immaginare, con grande umiltà, la resistenza nel dover svelare il proprio vissuto che ha causato la detenzione, nel tentativo di proteggere se stessi ed i propri figli. Il superamento di questa complessa prova avvia un percorso condiviso di separazione su un nuovo piano di realtà in cui il figlio si sente liberato e si risponde
    in tal modo all’importante bisogno che ha di conoscere la sua vera storia.
    Ecco, secondo me, il significato del grande abbraccio : lo slancio alla ricostruzione di un legame spezzato e ad un futuro in cui si ricompongono i legami affettivi.

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