Non ricordo se ero

«Accade nel primo deserto.
Due braccia scagliarono una gran pietra.
Non ci fu un grido. Ci fu sangue.
Ci fu per la prima volta la morte.
Non ricordo se ero Abele o Caino»

[Jorge Luis Borges, Génesis IV,8 in La rosa profunda, 1975]

William Blake – The Body of Abel found by Adam and Eve, 1826 [Tate Gallery]

«Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto.
Abele rispose:
– Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più; stiamo qui insieme come prima.
– Ora so che mi hai perdonato davvero, – disse Caino – perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di scordare.
Abele disse lentamente:
– È così. Finché dura il rimorso dura la colpa»

[Jorge Luis Borges, Elogio dell’ombra, 1969]

 

Il sangue grida (p. Guido Bertagna, 9.6.2001 – atti del Convegno “Il raptus”)

Una giornata in montagna

Quando in carcere, alle ore 6:00 del mattino, si accendono le luci della stanza, di solito è per recarsi in tribunale o per qualche visita ospedaliera. Proprio la mia stanza era tutta accesa, tra gioia e, non lo nascondo, anche ansia. Ma l’attesa era ricca di felicità. Ero già pronto dietro alla porta, ma dovevo aspettare perché la chiave non è attaccata.

Appena aperto, esco subito per recarmi al blocco dell’uscita; alle 7:00 mi aspettava la nostra dottoressa Boccaccio, per noi Carlotta. Anche lei fa parte del gruppo della trasgressione e ha un ruolo per i detenuti del gruppo molto importante: è lei che si prende la responsabilità di accompagnarci agli eventi, come oggi che ci porterà in montagna. L’appuntamento, per detenuti e non, era sotto casa del Dott. Aparo per poi partire tutti insieme.

Anche mia figlia Martina, quando può, viene agli eventi che organizziamo con il gruppo, oggi infatti c’è anche lei. È arrivata sola da casa, con la sua macchina e mentre cercava di parcheggiare io ero lì che la guardavo preoccupato e curioso; era la prima volta che la vedevo con una macchina. Quando mi hanno arrestato Martina aveva 12 anni, oggi ne ha 22 e io mi sono perso tutti gli anni più belli della vita dei miei figli (e anche come lei ha imparato a guidare una macchina). A vedere tutto questo iniziavo a pensare che oggi sono un uomo e un padre fortunato. Avere ottenuto questa autorizzazione dal magistrato è proprio un vero miracolo e non posso tradire la sua fiducia.

Appena Martina esce dalla macchina ci abbracciamo e solo il fatto di sentirmi chiamare papà mi rende libero e mi dà sicurezza, mi fa emozionare perché quel distacco e quella lontananza dati dalla mia carcerazione mi fanno un grande male e sento di essere stato uno stronzo.

Salgo in macchina con lei e partiamo. Ero sbalordito a sentire il rumore delle macchine, era 10 anni che non prendevo la Milano-Lecco. Vedere la Brianza mi sembrava un sogno, si vedevano da lontano le montagne, il verde. Questa strada che ci porta in Valsassina a Barzio la conosco bene, l’ho fatta per anni e ho anche una casetta dove andavamo tutti i sabati a portare i bambini a sciare.

Arrivati a Barzio ci attendevano delle persone con due grandi Jeep per portarci al rifugio per la nostra camminata. Siamo saliti così in alto che la temperatura è scesa. Martina mi aveva portato un maglioncino, uno zainetto con dei panini e una borraccia, ha pensato pure a questo. Mi sentivo rinato, tutta cosi premurosa, cosi dolce, sentivo le scosse al cuore. Questi gesti, questa libertà, lo starmi attaccato, erano emozioni che non provavo da anni.

Si parte per una lunga camminata, il Dott. Aparo andava come un treno, Matteo e Carlotta ridevano, credevano che io non sarei arrivato alla meta, dove c’era il lago Sasso. A un certo punto della strada mi giro a guardare, uno shock! Vedere tutta quella bellezza, sentire quel profumo di verde, i colori delle pietre, questi sentieri cosi strani, avevo voglia di urlare. Sentivo nella mente che la sera tutto questo sarebbe finito e che dovevo tornare in carcere, ma mia figlia Martina è la mia cura, insieme a lei sparisce tutto. Una giornata così bella e cosi emozionante non c’è mai stata, il piacere era alle stelle.

Volevo arrivare in cima, era una sfida! Il Dott. Aparo sì e io no? Martina chiedeva aiuto al suo papà per attraversare i ruscelli da un sasso all’altro, quella mano che mi chiedeva aiuto era così pronta e rimaneva attaccata alla mia, era la prima volta che le sentivo dire: “papà stai attento che cadi!”. Il suo preoccuparsi mi dava una carica per stare sempre più vicino e mi faceva rendere conto che posso ancora riprendere la mia vita e costruire un futuro con i miei figli.

Più si saliva più si sudava, ma il pensiero di essere oggi libero con Martina e con il gruppo mi fa crescere dentro un desiderio di responsabilità, di una vita senza sbarre, senza muri, ma con la consapevolezza che devo pagare questo mio debito per gustarmi i valori che la vita offre.

Giunti al rifugio eravamo stanchi, Martina che si lamentava, ma è valsa la pena per vedere quel paradiso terrestre. Erano quasi le 15:00 e dovevamo pranzare. Ad un certo punto mi sento chiamare, una grande sorpresa: era mio figlio Mattia. La gioia si era completata, mi mancava anche lui ed essere tutti insieme con loro mi dà la speranza di poter tornare ad essere un papà migliore. Martina si emoziona a vedere me con suo fratello, anche perché è stata proprio lei a stargli vicino in questi duri anni, insieme alla loro mamma.

Sanno che ho sbagliato e che tutto questo è solo colpa mia, ma loro fanno tanto per me. Oggi l’essere venuti a camminare qua ci unisce e rinforza il nostro rapporto e il nostro amore. Questo nuovo confronto tra padre e figli, la possibilità di essere in questa giornata fuori dal carcere dà una speranza a chi non crede più e ricarica quei figli che avevano perso le speranze di rivedere il loro papà a casa fra loro. Mi sento fortunato e anche meritevole di aver ottenuto questo beneficio, ma c’è un angolino dentro di me che mi fa sentire triste, perché penso a quei carcerati che non possono avere questa occasione come me, quella di passare una giornata cosi bella con i propri figli e da padre che si sente libero.

Per finire, voglio dire la cosa più importante di questa giornata, anche se avrei potuto dirne tantissime indimenticabili: il rientro in carcere, la consapevolezza di tornare fiero e stanco in cella, di aver lasciato Mattia e Martina felici che presto il loro papà potrà tornare a godersi piccoli spazi di libertà e il grande lavoro del gruppo, che si fa con serietà e fatica. I progetti da portare avanti sono molti e anche questo mi fa tornare felice in carcere, perché dietro di me ci sono persone che mi aiutano e mi danno la loro fiducia.

Anche questo percorso fa parte della mia carcerazione, percorso che desidero portare avanti anche quando potrò essere un cittadino e un uomo libero. Devo molto al gruppo della trasgressione, sono fiero di farne parte e sto vivendo momenti di vere riflessioni, emozioni e anche di riconoscimento. Rispettare le regole significa rispettare se stessi, i propri figli e la società.

Sento il mio cambiamento dentro al carcere e fuori dalle mura. Se oggi riesco a comprendere tutti i miei errori è grazie a tutte quelle persone che hanno lavorato e dato fiducia a me, come il dott. Di Gregorio e l’ispettore che mi hanno permesso di lavorare in carcere, la dottoressa Cossia, che ha concesso di potermi recare nelle scuole, al Beccaria, a San Vittore e anche in questa bellissima giornata e il dott. Aparo per il lavoro che porta avanti con il gruppo. Spero che queste occasioni vengano concesse anche ad altri detenuti come me.

Ignazio Marrone

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Il desiderio dei miei nonni

Ciao a tutti voi del gruppo. Voglio contribuire a quello di cui si è parlato in queste settimane, partendo dal diritto al rancore. Nella maggior parte dei casi il rancore si acquisisce quando uno viene maltrattato, come nel mio caso, che da piccolo sono stato maltrattato dai miei fratelli, i quali non mi ritenevano di famiglia, ma solo una minaccia, per il semplice motivo che mia mamma dopo avermi messo al mondo non mi ha accettato, affidandomi nelle mani dei nonni paterni, i quali, con quel poco che avevano, non mi hanno mai fatto mancare niente, partendo dalla scuola a tutto il resto che poteva servirmi per essere accettato in una società onesta.

Non appena sono cresciuto, all’età di 13 anni avevo desiderio di giocare con i miei fratelli, in un parco frequentato per la maggior parte da ragazzi senza istruzione, né una guida paterna, come io l’ho avuta dai miei nonni.

Ma a me non importava tanto quello che i miei nonni avevano fatto per me, cioè tenermi lontano dalle cattive compagnie, compreso i miei fratelli, i quali ogni volta che mi presentavo a casa di mia mamma, oltre a rifiutarmi, qualche volta mi hanno anche picchiato. Così, io dopo poco ho iniziato a sfogare il mio rancore andando ad immischiarmi in gruppi che mi facevano sentire intoccabile, e mi davano la possibilità di sfogarmi nei confronti di chi mi capitava a tiro.

In più la mia soddisfazione era quella di dimostrare ai miei fratelli che io non ero stupido come loro credevano, anzi, spesso gli ho anche risolto tanti problemi che avevano con altre bande di quartieri diversi, fino ad arrivare al punto di non ritorno.

Per prima cosa, ho procurato il male inguaribile ai miei genitori che erano e rimarranno, fino alla fine dei miei giorni, i miei nonni, poi alle persone a cui ho procurato dolori ed infine a mia moglie e alle mie figlie, le quali sono cresciute senza una figura paterna, come è capitato a me con mia mamma, che non mi ha mai accettato fino ad oggi, mentre mio padre, stando sempre in carcere, ogni volta che usciva, l’unico suo obbiettivo era quello di farmi credere che ero il figlio prediletto, dandomi tutto quello che i miei fratelli non hanno mai avuto, cioè soldi, macchine e rispetto.

Ma tutto questo non era altro che per i suoi scopi, i quali mi hanno rovinato la vita completamente, non solo per quello che ho fatto ma pure per quello che non ho fatto. Infatti, dopo essere stato in carcere dal 2006 al 2018, il giorno in cui sono ritornato in libertà, ho avuto il coraggio di dire NO a lui e a quella vita che si era impossessata di me.

Concludo con questa sintesi della mia vita facendovi sapere che la coscienza che avevo preso nella detenzione dal 2006 al 2018, oggi è viva anche grazie a voi del gruppo, che mi state aiutando a riflettere su quella strada sbagliata che avevo preso. In questo modo riesco a dare un significato alla mia vita e sto trovando anche un motivo per tutte le cose sbagliate che ho fatto.

Oggi voglio poter dare un mio contributo a chi ne ha bisogno per evitargli di cadere nei miei stessi errori, e per consigliare di accettare una mano quando ti viene data per ritrovare la legalità.

Io l’ho avuta dai miei nonni, solo che non l’ho mai afferrata per il troppo male che avevo dentro. Oggi posso dire che il rancore non va combattuto con altro rancore ma solo con chi ti tende una mano e ti aiuta a combatterlo, perché la vendetta produce effetto contrario e il paradosso della mente ubriaca è proprio quello di sfogare la rabbia pure con chi non centrava niente.

In virtù di questo, oggi il mio contributo non è solo aiutare il prossimo con i miei errori, ma aiutare i magistrati a sciogliere i nodi che c’erano nelle mie vicende per dare una svolta alla mia coscienza come, tra parentesi, sto facendo.

Grazie a tutti voi, non solo come gruppo, ma come una vera famiglia che sta dando un senso a tutto quello che i miei nonni hanno sempre desiderato per me.

Ciro Perillo

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Con chi me la piglio?

Credo di aver iniziato a provare rancore verso la vita in generale e poi, nei confronti di un altro individuo, per la prima volta ad otto anni. Da piccola non avevo realizzato di essere nata con una patologia agli occhi che avrebbe potuto rappresentare un ostacolo per la mia vita. 

Un giorno di tanti anni fa invece accadde qualcosa che me lo fece comprendere, come succede quando una persona ti schiaffeggia in pieno viso, senza che tu abbia avuto modo di rendertene conto e, soprattutto, senza che l’altro abbia alcun motivo valido per schiaffeggiarti. Quando te ne rendi conto è ormai troppo tardi e la faccia ti brucia per il dolore, per l’umiliazione di non aver saputo parare il colpo, ma anche per la consapevolezza di non aver provocato per tua colpa questa reazione spropositata da parte dell’altro.

Ero alle elementari e la mia scuola ci portava a lezioni di nuoto. L’insegnante di nuoto non era la mia insegnante, ma un’istruttrice esterna ed era ignara del fatto che io, senza occhiali, non vedevo quasi nulla (sono nata con una miopia degenerativa e di fatto, senza occhiali, vedevo solo ombre). Dopo che aveva mostrato a tutti noi alunni quali movimenti avremmo dovuto fare, vedendo che non mi muovevo, aveva iniziato ad urlarmi addosso le istruzioni che dovevo eseguire perché si era convinta che mi fossi distratta. Io, dal canto mio, non mi ero distratta, ma semplicemente non ero in grado di ripetere ciò che lei aveva mostrato perché senza occhiali non vedevo a un palmo dal mio naso e non avevo idea di cosa avesse mostrato agli altri. I miei compagni dell’epoca sono stati degli ottimi alleati in quell’occasione, mi hanno difesa subito spiegando all’insegnante quale fosse il mio problema. Quindi l’umiliazione, se vogliamo, è durata poco, ma non posso affermare di esserne uscita fuori altrettanto velocemente. Avevo sentito mortificazione e rabbia per essere stata sgridata davanti a tutti per una cosa di cui non avevo colpa. 

Da quel momento ho iniziato a provare parecchio rancore e lo indirizzavo di volta in volta verso chi mi faceva sentire umiliata come mi aveva fatto sentire quell’insegnante. Credo di aver iniziato ad avere un pessimo rapporto con l’Autorità a partire da quel giorno. Potrei fare tanti esempi per far comprendere cosa intendo: ogni volta che a scuola o in università o sul lavoro, sentivo di aver subito un’ingiustizia, cercavo in tutti i modi lo scontro con la mia controparte… e ci riuscivo. So essere determinata, quando mi ci metto! 

Ma negli anni ho imparato anche un’altra tecnica: sparisco. Punisco l’altro che mi ha ferita, semplicemente sparendo dalla sua vita, senza dare alcuna spiegazione. Non ne vado fiera, ma era il modo con il quale ho imparato a difendermi e che mi faceva sentire meno il dolore. Ad essere sinceri, il dolore rimane, quindi posso affermare che questa modalità nel tempo si è rivelata fallimentare. Oggi, infatti, non scappo più. Quantomeno, sono molti anni che non lo faccio più.

Inoltre, in quegli anni ho iniziato ad avere un pessimo rapporto con la mia fisicità. C’è da dire a mia discolpa che, mio padre e mia madre, essendo belli, a mio avviso, avrebbero potuto impegnarsi un pochino di più… e invece hanno elargito tutte le qualità ai miei tre fratelli…

C’è stato solo un periodo in cui mi sono sentita bene con me stessa ed è stato nel 2007, dopo che mi sono operata agli occhi, ma è durato pochi mesi e nel 2008 nel periodo in cui ho conosciuto il ragazzo che poi è diventato mio marito, Lorenzo, e non credo sia un caso. Oggi oscillo tra il farmi schifo ed il piacermi, non saprei dirlo nemmeno io onestamente.

Come dicevo, i compagni di classe dell’epoca mi avevano difesa, ma purtroppo, dopo aver cambiato classe, non è più stato lo stesso. Quei primi compagni erano sempre stati gentili con me perché mi avevano sempre conosciuta con quegli occhiali così spessi; per loro quegli occhiali non erano un problema perché me li avevano sempre visti addosso. Ma l’estate prima che io frequentassi la quinta elementare, io e la mia famiglia ci trasferimmo  in un altro paese e, di conseguenza, dovetti cambiare scuola.

Spoiler: fu un trauma per me (messaggio per mia mamma e mio papà: non me ne vogliate, oggi capisco le vostre ragioni, che erano molto serie e valide, ma all’epoca non le accettavo).

La quinta elementare e le medie sono state letteralmente un inferno per me. Non solo venivo discriminata per il mio aspetto, ma avevo l’aggravante di essere pure una che si impegnava a scuola, quindi venivo schifata, salvo che a qualcuno servissero i miei appunti. Credo di aver affinato in quel periodo le mie tecniche e le mie capacità di attrice comica (uno dei pochi talenti che mi riconosco). In quel periodo mi ero convinta che, visto che non potevo essere la figa del gruppo per manifesti motivi, mi conveniva puntare su altre qualità per farmi notare, tipo la simpatia. A guardarmi, nessuno avrebbe pensato che fossi una bambina tremendamente infelice, ma vi posso assicurare che lo ero; semplicemente avevo imparato molto bene a nascondere la sofferenza dietro ad un sorriso, per tanti motivi.

Primo fra tutti perché sono una persona orgogliosa, non avrei mai pianto di fronte a quegli idioti. E così ho fatto. Mi limitavo a piangere a casa perché io piango un sacco, ancora oggi. Oggi non mi vergogno di più di piangere davanti ad altri, quantomeno non mi vergogno più da morire, ma solo un poco. Secondariamente non volevo arrecare un dispiacere ai miei genitori perché sono sempre state le persone più importanti della mia vita; mia madre mi diceva giustamente di infischiarmene, mi ripeteva che ero bellissima e che quelli erano solo una manica di sfigati. Oggi, da mamma a mia volta, la capisco; ma comprendo anche che le parole di quegli idioti hanno lavorato tanto nel mio subconscio, perché ho passato anni a sminuirmi oppure a sentirmi quella strana e quella anormale, oggi lo so. 

Come so che ho passato anni a sentirmi un cesso a pedali, tanto che, anche quando ho capito che non ero più così cessa, continuavo a credere fosse impossibile che io potessi piacere a un ragazzo. 

Ho iniziato a odiare i miei bulli, ma c’era una parte di me che, in realtà, li ammirava o, meglio, li invidiava. Avrei tanto voluto avere la loro faccia tosta. Nella mia testa, inscenavo un teatro continuo in cui ero la protagonista della storia e non la sfigata, ho sempre lasciato briglia sciolta alle mie fantasticherie; ancora oggi mi sparo tanti di quei film nella mia testa che, a pensarci bene, avrei dovuto fare la sceneggiatrice.

Negli anni sono state diverse le occasioni in cui ho provato del rancore verso gli altri; di recente, per esempio, mi sono arrabbiata moltissimo con Dio e l’ho minacciato seriamente che avrei cambiato religione (sono cattolica). Non posso dire con certezza se le mie minacce abbiano funzionato o meno perché mi pare che il canale di comunicazione con Lui sia ancora molto disturbato, ma attendo riscontri. Chi lo sa che non si decida a inviarmi dei segnali!

Contemporaneamente però ho iniziato ad alimentare e a nutrire un forte rancore anche nei confronti di me stessa. Il rancore verso me stessa era ed è diverso da quello che provavo nei confronti degli altri, lo definirei più subdolo. Quando provi del rancore nei confronti di qualcuno diverso da te, puoi permetterti di cercare lo scontro se lo vuoi e ti autorizzi a ferire l’altro, senza pensare troppo alle conseguenze di ciò che fai o, almeno, mi è sembrato di aver agito così. Quando il bersaglio del tuo rancore sei tu, ti autodistruggi alle volte anche inconsapevolmente, altre volte ne sei consapevole, ma non riesci a fermarti. A me succedeva e succede che, nei confronti dell’altro prima o poi mi stancavo di provare rancore, mentre al rancore che provo nei confronti di me stessa quasi quasi mi ci sono affezionata, anzi togliamo il “quasi”.

Mi ha fatto più male la rabbia che ho provato nei confronti di me stessa, che nei confronti degli altri perché è diventata parte della mia identità e mi dispiace quasi lasciarla andare via, ma mi ha tarpato le ali, mi ha impedito di esprimermi, di vivere con spensieratezza, di relazionarmi in modo costruttivo con alcuni, di farmi conoscere davvero e potrei andare avanti ancora e ancora.

Nei momenti più difficili, criticarmi e distruggermi psicologicamente diventa la mia prima reazione. Devo lavorare un sacco per riuscire a fermarmi. Verrebbe quindi spontaneo domandarsi: ma tu vuoi fermarti o vuoi continuare a farti del male? Risposta sincera: Certo che lo voglio! Ma ci sono volte in cui non riesco a fermarmi e ho bisogno di aiuto, di riconoscere che ne ho bisogno, oggi lo so.

Dal momento che non ne sono ancora uscita, sulla carta non sono la persona migliore per suggerire o ipotizzare cosa avrebbe potuto aiutarmi a farmi meno male, ma ci tengo ad individuare, condividere e chiamare per nome, le cose che hanno funzionato e mi sono state d’aiuto.

Ad esempio, avere una funzione all’interno del Gruppo della Trasgressione mi ha aiutata ad essere più indulgente nei miei confronti, quantomeno la maggior parte delle volte. Il riconoscimento di vari componenti del Gruppo è stato un altro grande alleato. L’affetto sincero di alcune persone, da me ricambiato, è stato altrettanto importante. La tentazione di distruggermi è spesso presente al mio fianco, ma riconosco anche che fa più fatica ad attecchire di fronte al lavoro che faccio insieme ad altri in questo strambo Gruppo.

Alessandra Cesario

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

 

Risalire dagli abissi

Dal 22 giugno sono un uomo libero, almeno dal punto di vista giuridico. Una volta riacquistata la libertà, non ho lasciato il gruppo della trasgressione né ho intenzione di farlo, perché al gruppo sono riuscito attraverso il continuo confronto e gli stimoli da esso suscitati a fare una piccola risalita dall’abisso in cui ero sprofondato.

Sono nato in un piccolo paesino della pre Aspromonte Calabrese. Sono cresciuto tra leggi non scritte e la violenza, una violenza che a poco a poco è diventata parte di me, tutta la mia vita è stata segnata dall’ombra della ‘Ndrangheta. Per capire quanto profondo fosse l’abisso in cui ero precipitato è servito tanto tempo e tanto lavoro e ancora oggi il percorso è tutto in salita.

Con il gruppo sto imparando a guardare dentro quegli abissi e dentro il dolore che con le mie malsane gesta ho provocato. L’abuso era il mio pane quotidiano, il linguaggio che ho imparato a parlare fin da ragazzino. Quando cresci nell’humus della criminalità organizzata, è molto facile perdere di vista il rispetto per la vita, la dignità umana e le regole sociali. Ho abusato del mio potere, della mia forza, della fiducia che le persone avevano riposto in me e del timore che incutevo negli altri perché quello era il mio unico modo per sentirmi qualcuno in un mondo che non ti lascia spazio, salvo quello che ottieni con la prepotenza.

Ma cosa passa nella testa di chi pratica l’abuso? Perché qualcuno arriva a commettere atti che distruggono l’altro? La risposta non è semplice, né scontata, l’abusante spesso non è pienamente consapevole della profondità del male che sta facendo, o meglio non lo vede per intero. Hanna Arendt nel libro “La banalità del male” si rende conto che l’uomo privo di pensiero si limita a mettere in pratica un ordine ed è capace delle peggiori atrocità.

Spesso chi pratica l’abuso si sente autorizzato direttamente o indirettamente da un sistema di valori distorti da un ambiente che autorizza l’uso della violenza e questa diviene la strada facile per avere quel credito che si crede di poter vantare nei confronti di una società iniqua e “ingiusta“,  che non ti ha dato quelle possibilità che invece ha dato agli altri.

Ti senti un pulcino nero in mezzo a dei cigni bianchissimi, ma questo sono convinto sia solo una mera illusione che noi abusanti ci siamo dati per autorizzare noi stessi a delinquere. Chi abusa spesso è mosso da un desiderio di supremazia, una volontà di dominio e di controllo sugli altri che si trovano in una posizione di debolezza. Ma cosa ci guadagna davvero chi abusa dell’altro? In apparenza un momento di vittoria, di vanagloria, ma la verità è che distruggendo gli altri si finisce per distruggere se stessi.

Nel contesto delinquenziale l’abuso viene giustificato da un codice di silenzi, di omertà e ori fasulli.  Si cresce con l’idea che l’abuso sia necessario, che faccia parte delle regole d’ingaggio, senza rendersi conto del gioco al massacro. In ogni atto di violenza si perde un pezzo della propria umanità, intanto che l’abuso svuota vittime e carnefici fino a privarli della dignità umana. Oggi sento che abusare è un modo per esorcizzare la propria fragilità, un tentativo disperato di evitare di fare i conti con il proprio dolore.

Ma al gruppo ho imparato che la trasgressione non è solo la rottura della legge, ma anche la possibilità di uscire da quel circolo vizioso, rompendo le catene del male, trasformando la voglia di potere in desiderio di essere qualcosa di diverso. Negli incontri che facciamo settimanalmente si intuisce che l’unico modo per uscire dall’oscurità degli abissi in cui siamo intrappolati passa attraverso la condivisione del proprio disagio: dare voce a quegli abissi interiori per tentare una risalita e iniziare un percorso di trasformazione.

In questo contesto il gruppo del dott. Angelo Aparo crea uno spazio dove vittime e autori di reato, studenti e liberi cittadini dialogano mettendo sul tavolo i propri vissuti, luogo in cui l’abuso può essere riconosciuto affrontato ed infine superato. Questo percorso non è privo di ostacoli, né promette guarigioni immediate ma offre la possibilità di vedere negli abissi e l’occasione di riscoprire nel profondo l’essenza umana.

Rocco Panetta

L’abuso e i suoi abissi

Rancore e paradossi

Il convegno è un’occasione per ascoltare le testimonianze di chi ha attraversato esperienze difficili e ha trovato la forza di cambiare, ma anche per raccogliere le domande di studenti, cittadini e di chiunque desideri capire di più la complessità dei percorsi della devianza.

Il Gruppo della Trasgressione, fondato nel 1997 dal dott. Angelo Aparo, lavora da 27 anni su questi temi per risvegliare nei detenuti un senso di responsabilità che li motivi a ricostruire la propria vita e le relazioni con gli altri.

Durante l’incontro vengono affrontate domande che toccano tutti noi da vicino, come: Quali sono gli strumenti utili per una effettiva evoluzione del condannato? Come nasce il rancore e quali sono le strategie per dissolverlo? Come può una persona passare dal disconoscere gli altri al riconoscersi in loro? Come si può trasformare un’identità segnata dal rancore e dall’abuso in una capace di vivere in armonia con la comunità?

Il rancore, insieme col desiderio di rivalsa, può diventare una delirante licenza per atti violenti e persino un tratto dominante della propria identità. Scioglierne i nodi è essenziale per aiutare il condannato a passare dalla sensazione d’essere vittima della società e delle istituzioni al sentirsi finalmente risorsa e parte attiva della comunità di cui non si sentiva membro.

La tavola rotonda del 6 novembre sarà un’opportunità per chiederci se e come una persona possa trasformare il rancore in consapevolezza della propria storia. Detenuti, magistrati, giornalisti, docenti universitari, studenti, familiari delle vittime di reato e cittadini comuni si confronteranno per cercare insieme strade e strumenti utili a riconoscere la prossimità che esiste tra autori e vittime di reato, nonostante gli strappi e gli abusi del passato, subiti e inflitti.

Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria.
Per partecipare, è necessario compilare
questo modulo 

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Nominare il rancore

Credo sia proprio vero che, se per anni si costruisce la propria identità sul rancore, abbandonare quest’ultimo è un’impresa: equivale a concedere a sé stessi di lasciar andare uno scheletro che, per molto tempo, ha sorretto la propria persona; fa paura l’idea di doverlo sostituire e ricostruire su basi differenti; si corre il rischio di rimanere o sentirsi privi di un appoggio al quale aggrapparsi in momenti di difficoltà. Se provo rancore nei confronti di qualcuno, posso contare su di esso per non smarrirmi quando la persona in questione mi ferisce. Il rancore è un’armatura che sì, protegge dal dolore, ma che in ogni caso limita la libertà di chi la indossa.

Nel momento in cui si manifesta, il rancore trova espressione nel male, che sia esso prodotto a danni di altri o di sé; un male che, gradualmente e in maniera inconsapevole, diventa parte della quotidianità di chi lo esercita. Il rancore è, insomma, una trappola che promette sicurezza in cambio della distruzione dell’individuo, del suo rapporto con gli altri e con la realtà.

Il rancore, oltretutto, induce la persona a trovare delle giustificazioni valide per poterlo sentire come un proprio diritto e questo porta a stravolgere l’esame delle cose (a volte, le ragioni che vengono accampate possono risultare comprensibili, ma valide non lo sono mai). Ma in definitiva, con o senza giustificazioni, il rancore è doloroso, fa star male, ci si sente pidocchi, per citare Dostoevskij.

Io, per esempio, sento di provare il timore di un confronto con mio padre; è una duplice paura: da un lato, c’è il rischio di sentirmi ferita per l’ennesima volta, un dolore al quale non saprei davvero come reagire; dall’altro, però, c’è il timore che invece il confronto porti a qualcosa di arricchente, a un punto in comune dal quale partire per costruire una relazione sana; vorrebbe dire dover ammettere con me stessa che mio padre non si merita il rancore che provo nei suoi confronti, e magari realizzare che non se lo è mai meritato. Spaventoso!

E intanto che scrivo, mi rendo conto di provare, oltre alla frustrazione, un fondo di ”simil soddisfazione” ogni volta che trovo giustificazioni al mio senso di tradimento da parte sua, giustificazioni che ho, appunto, timore di perdere dopo un dialogo con lui. Me ne vergogno, lo trovo orribile, è conseguenza dell’attaccamento al rancore di cui si è parlato recentemente al gruppo.

Eccolo un primo strumento per iniziare a sciogliere i nodi del rancore: nominare le cose rendendole più tangibili, trovargli una collocazione nella realtà; è il lavoro che si svolge al tavolo del Gruppo, che ciò derivi dal dialogo tra i vari componenti o dalla produzione di uno scritto sul quale, poi, confrontarsi insieme.

In relazione all’argomento in questione, si è parlato anche di bilance tarate male: in un conflitto, ogni persona coinvolta possiede una propria bilancia per pesare il “diritto alla vendetta” che il male inflitto e subito “autorizza”, e le due (o più) tarature non coincidono mai tra loro.

Credo che un altro strumento utile a slegare i nodi sia proprio un confronto, in un primo momento, sulle due bilance difettose, e, a seguire, la ricerca di una bilancia comune. É impossibile rinunciare al rancore nei confronti dell’altro se non ci si concede di interagirci, per comprenderlo e per tentare di farsi comprendere; non si può crescere scegliendo di rimanere all’oscuro del sentire dell’altro, sia il conflitto tra padre e figlia o tra istituzione e delinquente.

É dalla condivisione dei diversi punti di vista che nasce, poi, la possibilità di adottare una nuova bilancia, ben funzionante e leggibile per tutti.

Beatrice Ajani

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca
Genitori e figli