La storia che sento il bisogno di raccontare, a me stessa prima ancora che agli altri, è quella della mia infanzia.
Sono nata nel 1940. Dopo appena cinque mesi dalla mia nascita, mio padre partì per la guerra. Fino ai cinque anni non ebbi la minima idea di come fosse fatto: non avevo mai visto una sua fotografia, non sapevo nulla di lui.
Nel 1945, finita la guerra, i militari rientrarono dalla Germania. Mio padre era tra loro.
Un giorno ero seduta sui gradini di casa, in via Gualtiero d’Ocra, insieme a mio fratello Antonio, che aveva più anni di me. Stavamo giocando, quando a un tratto lui gridò: «Mamma! Mamma! Lu Tata! Lu Tata!»
Noi contadini non dicevamo “papà”: dicevamo “Tata”.
Io, felice all’idea di vederlo finalmente, corsi verso l’angolo della via. All’epoca non c’era traffico, quasi nessuna macchina. Davanti a casa c’era un biroccio con un cavallo, dei signori che abitavano lì vicino. Mi avvicinai e vidi un uomo vestito male, scalzo: ai piedi aveva due pezzi di legno legati con delle fasce incrociate. Era mio padre.
Aveva la barba lunga, era sporco, irriconoscibile. Mi spaventai e tornai indietro, mentre lui correva per prendermi in braccio. Non mi aveva mai vista neppure lui. Rimasi sconvolta da quella figura.
Col passare dei giorni, in casa sentivo solo urla e litigi. Mia madre e mio padre non smettevano mai di discutere. Non capivo i motivi, avevo solo cinque anni, ma la paura era costante.
Ricordo un episodio in particolare, poco dopo il suo ritorno, in un giorno caldo di settembre. Mio padre si era lavato come si poteva allora: con un secchio d’acqua e una vasca. Poi era entrato in casa, ancora litigando con mia madre. Lei, impaurita, si nascose in un piccolo magazzino che chiamavamo “il sottoscala”.
Io la seguii. Mio padre, con l’asciugamano ancora addosso, glielo mise intorno al collo. Capì che la stava soffocando. Urlai e, per salvarla, lo morsi alle gambe con tutte le mie forze. Lui, per il dolore, lasciò l’asciugamano. Così mia madre si salvò.
Da allora non riuscii mai a chiamarlo “Tata”. Ne avevo terrore.
Mio padre si era portato dentro tutta la rabbia e la disperazione dei tre anni passati nei campi di concentramento. Mia madre non capiva quel tormento, e così finivano sempre per scontrarsi. Io vivevo in mezzo a loro, testimone di botte e grida. Mio fratello maggiore aveva altri mondi, altre uscite; io invece stavo sempre in casa.
Con mio padre non ho mai parlato davvero. Ci capivamo solo con i gesti. Non fu mai violento con me, ma non fu neppure un padre capace di una carezza o di una parola dolce. E io non mi sarei lasciata toccare comunque. È stato così per tutta la vita: silenzio tra noi, un silenzio pesante.
Nel 1962 mio padre ebbe un grave incidente: cadde da un albero, si fratturò una vertebra cervicale e rimase paralizzato. Per due anni fu portato di ospedale in ospedale, da Roma a Bari, per tentare di recuperare un po’ di mobilità. Io, che ero già madre, mi occupavo di mia figlia e dei miei fratelli più piccoli, mentre mia madre lo assisteva nei ricoveri.
Quando tornarono a casa, io passavo le giornate con loro: mia madre lavorava in campagna e io accudivo mio padre. Era quasi completamente paralizzato. Lo servivo in silenzio. Lui a volte mi diceva “grazie”, e basta. Non provavo rancore, ma era come se dentro di me la parola fosse morta.
Con mia madre litigavo spesso; con lui, mai. C’era solo il silenzio.
Anni dopo, intorno ai quarantacinque anni, iniziai un percorso di psicoanalisi. Dopo otto anni di lavoro sentii che dovevo affrontare il nodo più profondo: il rapporto con mio padre. Dare voce a ciò che non avevo mai detto.
Era il 19 marzo 1995, giorno di San Giuseppe, il suo onomastico. Sapevo che stava male. Presi il telefono, lo chiamai e gli dissi: «Buon onomastico, papà.»
Lui, con voce dura, mi rispose arrabbiato: «Devi tornare a casa, la tua famiglia siamo noi.»
Io vivevo a Milano, con mio marito e mia figlia. Gli dissi: «La mia famiglia è qui. Voi siete insieme, ma se vado via io, loro restano soli.»
Lui insistette, sempre più alterato: «Siamo noi la tua famiglia. Sei stata la perla dei miei occhi.»
Quelle parole mi arrivarono addosso come uno schiaffo e una carezza insieme. Per la prima volta nella mia vita mio padre mi diceva una frase d’amore. Trovai il coraggio di rispondergli: «Perché non me l’hai mai detto?» E chiusi la telefonata.
Nove giorni dopo ricevetti la notizia della sua morte. Viaggiai tutta la notte per raggiungerlo.
Quando arrivai, il suo corpo era ancora nel letto. Passai la notte accanto a lui, parlando per la prima volta davvero. Gli dissi tutto ciò che non avevo mai avuto il coraggio di dire: il dolore, la paura, la rabbia, ma anche la gratitudine. Gli chiesi scusa e lo ringraziai.
Annotai tutto nel diario che tenevo durante l’analisi: “Mio padre mi ha detto una frase d’amore. Mi ha detto: Sei stata la perla dei miei occhi.”
Fu l’unica volta. Nove giorni prima di morire.
Da allora ho potuto guardare diversamente la mia storia.
Capire che, nonostante tutto, mio padre mi aveva voluto bene. Che forse aveva provato a dirmelo, con gli occhi, in mille momenti che io non riuscivo a decifrare, chiusa com’ero nella paura.
Per tutta la vita mi ero sentita “di troppo”: unica femmina tra tre maschi, quella che “aveva disonorato la famiglia” perché era scappata di casa col padre delle sue figlie, e poi si era separata — nel 1968, quando una separazione era uno scandalo. Mi sentivo la pecora nera, la vergogna di tutti.
Solo molto tempo dopo ho capito che mio padre, nel suo modo silenzioso, aveva cercato di amarmi. Che anche il suo sguardo, quando era arrabbiato o fiero di me, diceva qualcosa che allora non sapevo comprendere.
Non si finisce mai di arrivare alla consapevolezza. Ma oggi, se ripenso a tutto questo, posso dire di viverlo con più libertà.
Marisa Fiorani
Racconti al tavolo del gruppo