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Nominare il rancore

Credo sia proprio vero che, se per anni si costruisce la propria identità sul rancore, abbandonare quest’ultimo è un’impresa: equivale a concedere a sé stessi di lasciar andare uno scheletro che, per molto tempo, ha sorretto la propria persona; fa paura l’idea di doverlo sostituire e ricostruire su basi differenti; si corre il rischio di rimanere o sentirsi privi di un appoggio al quale aggrapparsi in momenti di difficoltà. Se provo rancore nei confronti di qualcuno, posso contare su di esso per non smarrirmi quando la persona in questione mi ferisce. Il rancore è un’armatura che sì, protegge dal dolore, ma che in ogni caso limita la libertà di chi la indossa.

Nel momento in cui si manifesta, il rancore trova espressione nel male, che sia esso prodotto a danni di altri o di sé; un male che, gradualmente e in maniera inconsapevole, diventa parte della quotidianità di chi lo esercita. Il rancore è, insomma, una trappola che promette sicurezza in cambio della distruzione dell’individuo, del suo rapporto con gli altri e con la realtà.

Il rancore, oltretutto, induce la persona a trovare delle giustificazioni valide per poterlo sentire come un proprio diritto e questo porta a stravolgere l’esame delle cose (a volte, le ragioni che vengono accampate possono risultare comprensibili, ma valide non lo sono mai). Ma in definitiva, con o senza giustificazioni, il rancore è doloroso, fa star male, ci si sente pidocchi, per citare Dostoevskij.

Io, per esempio, sento di provare il timore di un confronto con mio padre; è una duplice paura: da un lato, c’è il rischio di sentirmi ferita per l’ennesima volta, un dolore al quale non saprei davvero come reagire; dall’altro, però, c’è il timore che invece il confronto porti a qualcosa di arricchente, a un punto in comune dal quale partire per costruire una relazione sana; vorrebbe dire dover ammettere con me stessa che mio padre non si merita il rancore che provo nei suoi confronti, e magari realizzare che non se lo è mai meritato. Spaventoso!

E intanto che scrivo, mi rendo conto di provare, oltre alla frustrazione, un fondo di ”simil soddisfazione” ogni volta che trovo giustificazioni al mio senso di tradimento da parte sua, giustificazioni che ho, appunto, timore di perdere dopo un dialogo con lui. Me ne vergogno, lo trovo orribile, è conseguenza dell’attaccamento al rancore di cui si è parlato recentemente al gruppo.

Eccolo un primo strumento per iniziare a sciogliere i nodi del rancore: nominare le cose rendendole più tangibili, trovargli una collocazione nella realtà; è il lavoro che si svolge al tavolo del Gruppo, che ciò derivi dal dialogo tra i vari componenti o dalla produzione di uno scritto sul quale, poi, confrontarsi insieme.

In relazione all’argomento in questione, si è parlato anche di bilance tarate male: in un conflitto, ogni persona coinvolta possiede una propria bilancia per pesare il “diritto alla vendetta” che il male inflitto e subito “autorizza”, e le due (o più) tarature non coincidono mai tra loro.

Credo che un altro strumento utile a slegare i nodi sia proprio un confronto, in un primo momento, sulle due bilance difettose, e, a seguire, la ricerca di una bilancia comune. É impossibile rinunciare al rancore nei confronti dell’altro se non ci si concede di interagirci, per comprenderlo e per tentare di farsi comprendere; non si può crescere scegliendo di rimanere all’oscuro del sentire dell’altro, sia il conflitto tra padre e figlia o tra istituzione e delinquente.

É dalla condivisione dei diversi punti di vista che nasce, poi, la possibilità di adottare una nuova bilancia, ben funzionante e leggibile per tutti.

Beatrice Ajani

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca
Genitori e figli

 

Denaro falso

Mìtja & Màchin wanted – immagine generata dalla AI

Cerchiamo alcune classi di liceali per dare forma – dentro e fuori le mura delle carceri milanesi dove il Gruppo della Trasgressione opera – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni.

Dopo l’esperienza del ciclo di incontri su Delitto e Castigo al carcere di Opera e I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate, il nostro  sguardo si è indirizzato –  negli ultimi mesi – sui due studenti liceali di quindici anni (Mìtja e Màchin) che danno inizio al racconto di Lev Tolstòj  “Denaro falso”.

Nell’intento e con la fiducia che essi possano costituire nuovo materiale per l’attività del Gruppo della Trasgressione e per interrogarsi insieme sulle modalità e sui percorsi attraverso cui l’acerbo scheletro morale dell’adolescente si sgretola fino a portarlo all’abuso apparentemente incomprensibile, vogliamo provare a individuare – con i due studenti di Tolstòj e con quelli che parteciperanno alla nostra ricerca – tracce utili per ricostruire le coordinate necessarie per orientarsi in un tessuto sociale nel quale gli adolescenti hanno spesso difficoltà a riconoscersi e che, forse anche per questo, strappano a volte con l’indifferenza, altre volte con la furia di menti smarrite.

Qui la lettera di invito.

Le candidature dovranno pervenire a info@lostrappo.net (oggetto: candidatura denaro falso) entro e non oltre il 24 Novembre 2024.

Per i docenti interessati pubblichiamo anche la scheda didattica del progetto di ricerca e una scheda di sintesi del racconto di Tolstòj.

Il paradosso della mente ubriaca

In conseguenza del rancore che si coltiva dentro, tante volte ci si sente autorizzati a fare e qualche volta anche a seminare sfracelli. L’obiettivo sarebbe vendicarsi, pareggiare i conti e liberarsene. Ma molte volte (e per mille ragioni diverse) il rancore costituisce un elemento così importante della propria identità che per il soggetto diventa difficile farne a meno.

Oltretutto, il rancore “consente” licenze a conti fatti gratificanti che, senza quel lasciapassare, sarebbe impossibile ottenere: non esistono lauree o mestieri che autorizzino a rapinare, spacciare, uccidere. Ma togliere la vita, in fondo, è una cosa grandiosa che, se sei ubriaco al punto giusto, ti permette, almeno per una mezza giornata, di sentirti una specie di Dio (proponiamo una nostra versione della dinamica con il Mito di Sisifo)

Il rancore permette di abusare e persino di uccidere senza sentirsi in colpa. Prima di andare in guerra, di fare attentati, di rapinare qualcuno o spacciare ai danni del futuro di adolescenti smarriti, è utile dare una lucidata al proprio rancore, quello accumulato negli anni degli abusi subiti. In questo modo ci si sente coesi col proprio sentimento di vendetta e si può procedere nell’abuso in tranquillità, anzi, persino con un piacevole senso di eccitazione.

Max Rigano e io ne abbiamo parlato a Byoblu nel corso della rassegna stampa del 7 ottobre 2024. Di seguito il link per chi abbia piacere di saperne di più o addirittura di contribuire a sviluppare il tema.

Byoblu, Sempre sul pezzo. La rassegna stampa – 7 Ottobre 2024

Al gruppo della trasgressione, dentro e fuori dal carcere,  le dinamiche sopra indicate sono oggetto di confronto tutte le settimane tra detenuti, studenti universitari e familiari di vittime di reato, ma sono molto bene accetti anche i contributi di chi segue il gruppo dall’esterno.

Il “diritto al rancore” è anche tra i temi centrali del nostro prossimo convegno e di molti dei nostri incontri con le scuole per la prevenzione contro bullismo e devianza.

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

 

Attraverso il bosco

 

“guarda come son tranquilla io

anche se attraverso il bosco”

[Ron]

 

“Frate(llo) tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza, e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se’ degno delle forche come ladro e omicida pessimo; e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica. Ma io voglio, frate(llo), far la pace fra te e costoro, sicché tu non gli offenda più, ed eglino ti perdonino ogni passata offesa, e né li uomini né li cani ti perseguitino più”.

“Frate(llo), poiché ti piace di fare e di tenere questa pace, io ti prometto ch’io ti farò dare le spese continuamente, mentre tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché tu non patirai più fame; imperò che io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male. Ma poich’io t’accatto questa grazia, io voglio, frate(llo), che tu mi imprometta che tu non nocerai mai a nessuna persona umana né ad animale: promettimi tu questo?”.

“Udite, fratelli miei: (il) frate(llo) che è qui dinanzi da voi, sì m’ha promesso, e fattomene fede, di far pace con voi e di non offendervi mai in cosa nessuna, e voi gli promettete di dargli ogni dì le cose necessarie; ed io v’entro mallevadore per lui che ‘l patto della pace egli osserverà fermamente”.

 

Fioretti, capitolo XXI

C’è un posto

C’è un posto, tra dentro e fuori,
dove lo spazio non si vende e non si regala.
Lì si allena ogni giorno la creatività e
cresce la libertà
di chi dà voce alle proprie idee e
si spende per verificare se, come e per quanto tempo
potranno convivere e fecondarsi con quelle degli altri.
Lì abita il Gruppo della Trasgressione

Juri Aparo

Officina CreativaPrima e oltre il confineLa Chiamata

Il mio idolo senza coscienza

Quando da adolescente approdai nel mio quartiere idealizzai la criminalità. Desideravo fortemente conquistare un posto per affermarmi e così cominciai a mettermi in mostra per farmi notare.

Per fare il criminale (se non lo sei destinato per eredità familiare), hai bisogno di farti notare dai talent scout, sempre alla ricerca di nuovi soggetti vulnerabili da formare.

Cominciai ad assumere comportamenti fuori legge e arroganti e non ci volle molto ad essere convocato per un “provino”.. il primo piccolo incarico portato a termine ed è fatta!

Benvenuto nell’accademia della criminalità, quella che ti forgia ad essere arrogante, senza pietà e assolutamente egoista, quella che prende la mia coscienza e la congela con lo scopo di non tirarla più fuori da lì!

Esame dopo esame mi sentivo sempre più fiero e orgoglioso di me, mi sentivo Uomo e affermato, mi sentivo un Dio sulla Terra, imbattibile e realizzato nel suo progetto criminale.

Quello che per la legge era una punizione per me era un jackpot, e se mi sbattevano in una cella d’isolamento la mia risposta era: “non mi avete fatto niente”!

Rabbia che fungeva da carburante in questo viaggio del male!

L’accademia l’ho terminata, ho raggiunto la laurea con 30 e lode, peccato che trenta sta per gli anni della mia vita da trascorrere in galera!

Matteo Manna

Arroganza e Coscienza

L’arroganza del maschio

Siamo nel XII secolo a.C. circa, sulle coste dell’odierna Turchia.

Ilio è in fiamme, i Troiani dopo dieci anni d’assedio sono sconfitti. Le donne, ammassate negli accampamenti dei vincitori Achei, non riescono a respirare e non solo perché  l’aria è densa di fumo acre, a causa degli incendi,  ma perché pensano al loro futuro.

Regine o ancelle che siano, finiranno serve nelle case achee, concubine nei talami achei, odiate da mogli che si sentiranno messe da parte, costrette a subire la loro presenza e a condividere con loro il corpo dei propri uomini.

Saranno violate nel corpo e nello spirito e nessuno avrà pietà di loro. Non sanno ancora chi sarà il loro padrone, l’unica certezza è che nessuno avrà considerazione per la loro sorte.

Andromaca non riesce a respirare. Non sa che cosa sarà di lei, non sa in che terra andrà, non sa di chi sarà la schiava, ma soprattutto non sa che cosa sarà di Astianatte, il suo figlioletto.

Poi arriva Taltibio e glielo comunica: “Tuo figlio sarà precipitato dalle torri troiane…… Non stringerlo tra le braccia; sopporta coraggiosamente questi mali e non pensare di opporti, giacché non hai aiuto da nessuna parte…… Ti esorto a non resistere, a non fare alcunché di sconveniente, a non scagliare imprecazioni contro gli Achei. Se infatti dirai qualcosa per cui l’esercito abbia a sdegnarsi, questo tuo figlio non avrà né sepoltura né compianto…”

Andromaca: “O figlio tanto amato, morrai per mano dei nostri nemici….Ti ucciderà il valore stesso di tuo padre…. O figlio tu piangi! Comprendi la tua sventura ? Perché mi afferri con le tue mani e ti serri al mio peplo, come un uccellino che si ricoveri sotto le mie ali? Non verrà Ettore, dall’oltretomba, a portarti salvezza…. O tenero figlio! O soave profumo del tuo corpo! Invano questo seno ti nutrì in fasce! Serra le braccia intorno alle mie spalle e accosta la tua bocca alla mia!

O Elleni, che avete escogitato un supplizio degno di barbari, perché uccidete questo bambino che di nulla è colpevole?”

Ecuba, regina di Troia e moglie di Priamo, dopo aver creduto che sua figlia Polissena fosse stata posta a cura del sepolcro di Achille, scopre la cruda verità: è stata sgozzata sulla tomba di Achille, votata a un cadavere senza vita.

 

Siamo nel XX secolo

Sul finire della seconda guerra mondiale, i Russi che entrano in Germania e arrivano a Berlino, man mano che procedono, violentano e depredano.

In Giappone alla fine della seconda guerra mondiale andavano di moda le comfort women. Provenienti principalmente da Corea, Taiwan e Cina. Le stime variano tra le 20.000 e le 300.000 donne; in base alle testimonianze raccolte si reputa attendibile il numero di 200.000

Per rendere l’idea dell’entità del fenomeno e delle brutalità di cui soffrirono le donne, benché la logica sottesa a queste violazioni sia assai più grave delle dimensioni, si può provare a dare una misura approssimativa di quanto accadde nel sud-est asiatico durante la Seconda Guerra Mondiale. La maggior parte delle superstiti ha testimoniato (WCCWI, Inc. 2005) di aver subito da 5 a 20 rapporti sessuali al giorno (in alcuni casi fino a 30 violenze giornaliere), per un minimo di 5 giorni alla settimana per una media di 3-5 anni di detenzione. Calcolando le cifre minime di 5 stupri per 5 giorni, otteniamo l’agghiacciante risultato di 1.800 violenze carnali subite annualmente da una singola donna, che, contando i tre anni minimi di detenzione, diventano 5400 in totale.

La mancata assunzione di responsabilità politica e la discriminazione sociale determinarono che, nonostante la gravità degli eventi, si dovettero aspettare circa quarant’anni prima che queste donne uscissero dal loro silenzio e incoraggiassero le indagini sugli abusi subiti. Ciò accadde innanzitutto perché i governi coinvolti non considerarono di alcuna rilevanza politica il problema, e in secondo luogo perché le pesanti discriminazioni subite dalle sopravvissute alla fine del conflitto trasformarono la loro memoria da denuncia a confessione.

Senza continuare un elenco che forse non finirebbe mai, si può affermare che ovunque c’è una guerra lo stupro è a tutti gli effetti considerato uno strumento di belligeranza, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri.

Per fortuna da tempo le donne indiane non vengono più immolate sulla pira del marito quando egli muore. Per fortuna da tempo in Cina non si bendano più i piedi alle donne fino a impedire la crescita ossea e a renderle storpie.

Ma nel mondo musulmano si muore ancora per una ciocca di capelli sfuggita al foulard e, in molti paesi, la testa coperta e delle vesti che infagottano non sono ritenute sufficienti a salvaguardare la purezza delle donne. Si pretende che nascondano anche il viso e parzialmente anche gli occhi: è come se si volesse negare loro un’identità e le si volesse relegare alla condizione di ombre.

In Afganistan le donne non possono più andare a scuola.

 

Siamo nel XXI secolo

In un luogo di lavoro dove la parità di genere non è garantita e a mansioni uguali corrispondono retribuzioni diverse si assiste spesso alla vergognosa promozione che vede favorito un uomo non perché sia il migliore ma semplicemente perché è l’uomo. Una donna per vincere il confronto con un uomo deve essere più preparata, più disposta a lavorare di più di quanto il contratto preveda, più creativa, più disponibile.

Perché la qualità non può semplicemente essere riconosciuta indipendentemente dal genere che la esprime?

Nell’occidente sviluppato, una cucina moderna e dotata di ogni comfort alle otto di sera è ancora deserta e inutilizzata.

Nel salotto una coppia guarda il telegiornale. Lui è tranquillo e attento alle ultime notizie, lei apparentemente pure. In realtà è leggermente inquieta: si sente in colpa, perché ancora non si decide al alzarsi e andare a preparare la cena.

Che cosa fa ritenere l’uomo autorizzato ad aspettarsi che a preparare la cena sia lei?

Perché l’uomo non si sente in colpa?

Perché persino il papa si è sentito autorizzato a usare l’espressione “chiacchiericcio da donne”?

Nuccia Pessina

Uomini e donne

La mensola

23/04/2024

In attesa di un nuovo scritto sull’arroganza, il suo divenire e nuovi esempi letterari che ben spieghino il concetto, scrivo questo testo più “personale”, anche perché gli ultimi incontri che ho frequentato col gruppo mi hanno dato molto da pensare.

Ormai sono circa 2 mesi che frequento il gruppo della Trasgressione, poco meno che entro in carcere di Opera e stesso tempo che ascolto storie di vita e opinioni personali dei detenuti e questo non può che farmi riflettere sulla mia stessa vita.

Non è la prima volta che entro in carcere e ho a che fare con detenuti, questo perché faccio parte di un’associazione che mi ha permesso di diventare volontaria della CC di Biella e prestare il mio servizio in vari modi all’interno dell’istituto; sempre con la stessa associazione prestiamo attenzione alle persone scartate dalla società. Inoltre, per tradizione familiare sono sempre stata attenta alle questioni sociali. Sicuramente però tutte queste esperienze non possono essere alla pari di quella col Gruppo della Trasgressione perché non mi sono mai posta in una relazione “intima” con queste persone.

Ad ogni modo… mi chiedo spesso cosa ci faccio io qui, per quale motivo entro in carcere e perché comunque provo un senso di empatia verso queste persone, che… se sono dentro gli istituti, un motivo ben ci sarà!

La risposta che mi sono data per ora è che io lo faccio per un equilibrio personale: i miei genitori fin da piccola mi hanno sempre fatto notare quanto io fossi privilegiata, tipo dirmelo esplicitamente tante volte (abitudine opinabile, onestamente!), quindi già mi rendevo conto di quanto sia importante avere una famiglia dietro, vivere in una certa condizione economica, vivere in un certo quartiere (in realtà poi, io abito in periferia a Biella, davanti alle case popolari, quindi di episodi ne ho visti d’ogni), eccetera.

Ecco questo sapere di essere privilegiata mi fa sentire tremendamente in colpa, io perennemente vivo coi sensi di colpa quindi il poter entrare in carcere, entrare in contatto con i detenuti, constatare che, chi più chi meno, hanno tutti vissuto storie di vita allucinanti, mi riporta in un equilibrio di dare-avere. Questo mio pensiero lo trovo molto simile, seppur in forma diversa, a un pensiero che ha riportato il detenuto Matteo Manna nell’incontro alla fondazione Clerici il 19/04 quando lui stesso ha detto “io sono in debito con la società, ma il venire qui a fare questi incontri con voi e a raccontarvi la mia storia in realtà mi fa stare bene. E quindi lo faccio anche per un ritorno egoistico”.

Subito dopo questa frase il professore ha chiesto a me di provare a spiegare come è possibile che Matteo senta di pagare il proprio debito mentre ottiene anche un guadagno personale. Sul momento ho detto che ci dovevo riflettere, ecco secondo me lui si sente in debito con la società perché sa bene ciò che ha fatto in passato e quindi ci soffre, ma per mantenere una sorta di equilibrio interno positivo vuole fare del bene con gli incontri e tutte cose, quindi diventa un tornaconto personale. Probabilmente se non lo facesse, si ammazzerebbe, ma agendo oggi nel modo in cui agisce riesce a non rimanere schiacciato dai suoi sensi di colpa.

Ecco io penso di “funzionare” in modo simile: mi sento in debito per la mia situazione di privilegio e questo mi fa stare male e mi dà da pensare molto, ma agendo nel sociale e facendo anche questo tirocinio torno a un equilibrio di dare-avere, che mi fa stare quanto meno tranquilla. E questa è la prima cosa.

Se penso a quanto sono fortunata, una parte di me alle volte pensa l’esatto opposto. Dopo l’incontro di Cesano Maderno del 23/04 ho scritto sul mio quadernetto “ma allora io sono arrogante” e adesso spiego perché…

Dopo quell’incontro mi sono arrovellata la testa a pensare a moltissime cose e non mi do pace (ho grande potere di metacognizione e pensare è la cosa che meglio mi riesce). Io sono secondogenita di una famiglia composta da mamma professoressa e papà contabile, niente di ché, con un fratello più grande di me di 3 anni. Ho solo 24 anni e posso dire che tutta la mia vita è filata liscia fino ad oggi: la scuola sempre tutto bene, io sempre brava a studiare, sempre senza dare problemi di alcun genere, solo una salute un po’ cagionevole, ma comunque tutto bene. Come ha detto una ragazzina di Cesano, anche io avevo e ho tutt’ora un futuro da portare avanti, e forse mi sono presa fin troppo questo incarico.

Bene, questa è la mia vita, non ha niente a che vedere con le storie di vita che sento raccontare dai detenuti del gruppo (e qualcuna anche la trascrivo); ma comunque in tutto questo benestare non sono mancate le rotture di coglioni e gli sbattimenti che ho avuto, che fossero anche solo dei genitori sergenti che mi dicevano di avere la ghigna e non essere riconoscente nei loro confronti. Eppure io non ho mai preso e fatto il crimine, anzi manco mai li ho mandati a cagare. E’ qui che mi sento arrogante, è per questo che dico che io sono arrogante perché alle volte io stessa penso: “minchia, ma pure io ho avuto i miei problemi, va bene che non erano gravi quanto i vostri, ma nella mia bolla e nel mio quantificare la realtà sono stati gravi e poi… che dobbiamo giocare a fare chi sta peggio? No. Fanculo a voi, io non ho preso un coltello e non l’ho piantato nel fianco a mia madre anche se mi rompeva di brutto e non l’ho fatto con mio padre, ma anzi mi sono sempre comportata bene e ho sempre fatto ciò che mi veniva richiesto, infatti vedi un po’ che mi sto laureando e nel frattempo sto facendo altre mille cose e questo perché mi è stato trasmesso questo maledetto senso del dovere“.

Inoltre, io ho anche il problema di pensare di non essere interessante e non dire cose interessanti e/o giuste, motivo per il quale sto tendenzialmente sempre in silenzio a meno che non venga richiesta la mia opinione… che comunque poi, dopo averla espressa, la considero di poco valore (questo mio stare sempre in silenzio potrebbe sembrare dall’esterno un fatto di sentirsi superiore e saccente, ma basta poco per capire che non è assolutamente così).

Ecco vedere che Matteo Manna con la sua storia al termine dell’incontro di Cesano cattura l’attenzione di 100 e passa persone e le fa commuovere, ma in realtà me compresa, mi fa montare una rabbia allucinante perché penso: “minchia, ma io cosa ci faccio qua, pur avendo studiato per praticamente tutti gli anni della mia vita, essere una persona curiosa che legge, vede cose, viaggia e si interessa non potrò mai arrivare a quello che ha detto lui e dirlo nello stesso modo, e questo è un delinquente che ha fatto le peggio cose e spacciato a strafottere, e io che mi ammazzo di studio quando mi viene chiesto qualcosa mi esprimo male, non vengo ascoltata e dico cose di poco conto“.

Chiaramente pensare a queste cose mi fa incazzare, cioè io mi detesto quando penso a quanto appena detto sopra perché so benissimo che ognuno di noi è diverso e che, zio pera, è assurdo pensare che quest’uomo che prima era uno spacciatore adesso ha fatto questo salto di qualità e dice queste cose e io non posso che rimanere abbagliata da questa crescita. Quindi, poi in me prevale il mio pensare più “corretto” e “etico” se così si può dire, e mi ridimensiono e soppeso nelle giuste quantità e penso che, in fin dei conti, anche io sto facendo del bene e sto dando il mio contributo al gruppo, seppur in minima parte (forse manco quella), e torno al mio equilibrio di serenità in pace con me, equilibrio di dare-avere di cui all’inizio.

Bene, questi sono i pensieri che mi passano per la testa praticamente da che ho iniziato questo tirocinio. Non sono certa si sia capito molto in questo flusso al limite dello psicotico, ma forse mostra proprio il sentimento dell’uomo più basico. Non saprei, sicuramente non voglio che questo scritto venga pubblicato sul sito di Trasgressione, nemmeno se modificato dal prof.

 

29/05/2024

Il mio tirocinio sta volgendo al termine, formalmente per lo meno, e così scrivo questa relazione finale più personale e meno formale rispetto a quella fatta per l’università.

Beh, cosa dire? Questo tirocinio effettivamente mi ha cambiato; non posso paragonare 5 anni di studi all’università con ciò che ho imparato in questi 4 mesi fatti di incontri, riflessioni e pensieri. A proposito, se si potessero contare le ore di pensiero, io le mie 200 le avrei finite tutte nel giro di 1 mese probabilmente. Ad ogni modo…

Sono partita non capendo bene in cosa consisteva il Gruppo della Trasgressione e il suo operato, io semplicemente sono volontaria nel carcere di Biella, il direttore Siciliano mi aveva parlato del gruppo e quindi, bom, faccio il tirocinio con il gruppo senza farmi tante domande. All’inizio ero spaventata dai modi del professore e onestamente pensavo di poter e dover “apprendere” solo da ciò che veniva detto da lui e poi, per come sono fatta io, mi sono messa in una posizione di tirocinante che ascolta e apprende ma comunque sta in disparte.

Io di nozioni sul tema della devianza non ne avevo, e tutt’ora non ne ho, perciò dovevo imparare dal professore, coi suoi modi di entrare in relazione coi detenuti e vedere il percorso di questi nella loro presa di coscienza e riflessione. Io semplicemente dovevo ascoltare ed essere in una posizione di studentessa. Tant’è vero che se qualche altro componente, non detenuto intendo, faceva commenti o esponeva la propria idea, io quasi mi arrabbiavo e pensavo “ma siamo qui per loro, cosa possiamo portare noi al tavolo che di questa vita non ne sappiamo nulla e non c’è nulla di più lontano dalla vita che conduciamo noi?”.

Ho sempre e solo detto la mia opinione se esplicitamente richiesta, penso di non essere intervenuta di mia spontanea volontà mai, e quando mi veniva chiesto di fare un commento io tendenzialmente dicevo “bello, bravo, dici le cose bene e mi stupisce come prendi coscienza delle tue azioni del passato”, ma poi tornavo a casa e pensavo alle mie parole e mi incazzavo con me stessa perché mi dicevo: “ma insomma mica sei la maestra che deve dare i voti, esponiti e dì ciò che hai provato“, ma l’esposizione dei miei sentimenti non è cosa mia, perciò mi sono sempre trattenuta.

Poi, man mano, vedendo i detenuti di Opera in particolar modo e frequentando il gruppo praticamente a ogni evento e incontro che si teneva, mi sono “integrata” e ho iniziato a stringere dei legami con le persone componenti e ho iniziato a capire che qui davvero si è tutti alla pari e non ci sono posizioni di chi apprende e chi insegna, chi ascolta e chi parla, chi espone e chi sta in silenzio, ma si è davvero tutti allo stesso livello.

Allora inizio a pormi delle domande ovviamente, sulla mia posizione nel gruppo e sul mio operato fino a quel momento, anche rispetto alle altre persone tirocinanti come me e mi sono resa conto che io effettivamente dall’esterno potevo dare l’impressione di una persona che non parla perché non pensa o comunque non interviene perché non ascolta, così circa a fine aprile ho scritto una cosa per dimostrare che di pensieri ne ho e la mia partecipazione seppur silenziosa, era attiva. Sempre nel mio stile di persona timida riservata che non vuole disturbare e non si vuole esporre eccessivamente, ho scritto un testo personale per dimostrare appunto che anche io rifletto come ogni componente del gruppo e mi interrogo sui miei sentimenti, quindi sono al livello di ogni altra persona.

Dopo alcuni scambi con il professore e con altri componenti del gruppo, detenuti e non, praticamente ho iniziato a vedere il gruppo con occhi diversi, ho capito che anche io sono componente del gruppo, non sono studentessa tirocinante che deve studiare il detenuto, prendere appunti e valutare la storia di vita degli altri, ma io stessa posso e devo esporre il mio pensiero (che comunque è valido), posso e devo esporre le mie emozioni, posso e devo esporre proprio me stessa, il mio essere me e la mia identità di persona che studia, è fuori sede, ha delle passioni e degli interessi ed è pure in parte nevrotica.

Ogni volta che torno a casa dopo un incontro col gruppo mi fermo a pensare a tutte le cose che sono state dette e gli interventi che sono stati fatti. Dentro di me in realtà si crea un conflitto di pensiero: da un lato penso, in modo anche presuntuoso, di essere diversa dai detenuti e dalle loro storie di vita perché io non ho mai spacciato, ucciso o tenuto in mano una pistola e quindi quasi li detesto perché vivono la loro vita, sì chiusi in carcere, ma alcuni di loro hanno un’apertura mentale che io bramo e di cui sono amaramente invidiosa; dall’altro lato in realtà penso di essere proprio come loro, che in fin dei conti siamo tutti uguali e che il dolore che ognuno porta sempre dolore è, non si deve mettere a confronto e che ognuno agisce secondo le risorse e le capacità che ha, e quindi, se io di fronte alle rotture di cazzi dei miei genitori non ho fatto il panico e non sono andata a spacciare in giro, altre persone hanno reagito diversamente con le loro potenzialità e i loro “filtri” di funzionamento.

Con questo tirocinio ho compreso che in fin dei conti ciò che ognuno di noi desidera e necessita, ma tipo ogni persona essere umano, è essere amato ed essere riconosciuto per la persona che è. I detenuti nel loro percorso col gruppo prendono coscienza di ciò che hanno fatto e diventano se stessi (cioè non cittadini civili, o meglio anche, ma come effetto secondario), perché vengono riconosciuti e si riconoscono come loro stessi, ritrovano o forse trovano per la prima volta la loro identità che avevano nascosto sotto tanti strati quando erano delinquenti e commettevano i reati.

Voglio pensare che tutto questo tirocinio a me ha fatto del gran bene, ma anche un po’ male perché comunque spendo una quantità di energie cognitive a pensare alle cose che si dicono che proprio mi stanco, per la semplice ragione che anche io sono stata riconosciuta e “validata” per il mio essere me.

Mi sono spaccata la stessa a pretendere di non aver bisogno di tale riconoscimento, perché rispetto ai detenuti, comunque, i miei genitori sono state figure di riferimento credibili e non mi hanno mai fatto mancare l’amore, la vicinanza e tutte le cose belle, e volevo anche pretendere che potesse bastare essere presente alle cose, ma mi son resa conto che non basta: è necessario fare qualcosa, produrre, esporre il proprio pensiero, mostrare i propri sentimenti e le proprie debolezze perché tutte cose valide e utili da essere condivise.

Il mio fare qualcosa rimane comunque nella mia zona di comfort, quindi scrivere questi testi e espormi un cicinin in più, ma questo è! E ho compreso piacevolmente che è ciò che andava fatto fin da subito, ed è proprio l’idea che sta alla base del gruppo: ogni componente è sollecitato a riflettere su di sé e a crescere, ed è un laboratorio dove ognuno è alla pari.

“Io sono una mensola” è ciò che ho scritto il giorno mercoledì 8 maggio quando si parlava di stanze e del Gruppo della Trasgressione con alcuni componenti del Rotary perché è così che mi sentivo, un mobile della stanza silenzioso. Ora posso dire che se le persone del gruppo nella stanza si parlano e ne fanno parte, anche io sono con loro e contribuisco con piacere a ciò che ci si scambia.

Custodisco anche le parole del professore che mi ha detto che io ho la tendenza a stare sempre un passo indietro agli altri perché così funziono e per la mia storia di vita. Probabilmente mi è stato insegnato e/o io ho appreso a fare così, ma se prima stavo indietro di 10 metri ora magari sto dienro solo di un metro, sicuramente però ci sono.

Concludo con le parole del libro “La valle dell’Eden” di John Steinbeck, che è a me molto caro e che, secondo la mia opinione, sono in linea con ciò di cui si parla al gruppo e con ciò che mi porto a casa da questa esperienza di tirocinio, oltre a tutto ciò di cui sopra, e dicono “sotto gli strati superficiali della loro fragilità gli uomini desiderano essere buoni e vogliono essere amati. In effetti, molti dei loro vizi non sono che tentativi d’infilare scorciatoie per arrivare all’amore. Non importa quali fossero i suoi meriti, l’influenza e l’ingegno, se uno muore non amato la vita sarà per lui un fallimento e la morte un gelido orrore. A liberarli dalla loro colpa, nonché il perdono, è il sapere che è possibile essere liberi di scegliere. Liberi di sperare. (…) Il talismano che apre la nuova via è la parola ebraica timshel(“tu puoi”), con essa si spezzano metaforicamente le catene di quel determinismo, o servo arbitrio, che nelle creature si manifesta come senso di colpa”.

Benedetta Comoglio

Tirocini