Caravaggio e il contenitore

Non sono sicura di avere pienamente a fuoco ciò che il dipinto di Caravaggio (Vocazione di San Matteo- la Chiamata), mi s-muove dentro. Avevo già visto sui libri questa opera, ma non l’ho mai veramente guardata.

Il carcere di Opera, contesto nel quale questo dipinto è stato discusso, i detenuti e il gruppo della trasgressione come interlocutori, il Professor Zuffi in qualità di esperto e il Professor Aparo hanno fatto si che questa esperienza fosse perfetta!

Perfetta per imparare, perfetta per conoscersi gli uni e gli altri, ma soprattutto perfetta per guardarsi dentro e chiedersi se durante il cammino di vita di ciascuno di noi una “chiamata” abbia potuto dare valore o disvalore alla nostra esistenza.

Per quanto mi riguarda, a seguito dei sommovimenti interni indotti dal dipinto, la sensazione che ho provato è stata di una complessiva umiltà:

Umiltà nel Cristo, che indica Matteo con il timore nel dito ma con il braccio teso dalla determinazione: “Ti scelgo, ma non ti voglio per forza. Sta a te decidere”.

Umiltà negli occhi e nel modo di indicare se stesso di Matteo: “Io? Perché io?, Chi sono io?”

Una conversazione fatta di sguardi e gestualità, come spesso accade quando non si trovano le parole, o forse non servono.

In qualche modo la nostra vita è costellata di chiamate. Le più importanti e significative parlano una lingua difficile, o che in qualche modo ci sforziamo di non voler capire perché quando lo facciamo ci causano affanno, fatica, a volte sofferenza. Ad esempio nel mettersi in gioco in un rapporto umano, dove lo scambio tra donare e ricevere è a volte fonte di frustrazione.

Non siamo in grado di comprenderci gli uni e gli altri forse perché pecchiamo di mancanza di umiltà, che a mio parere, invece,  è così ben rappresentata da Caravaggio. Questa mancanza fa si che arriviamo a rispondere ad altri tipi di “chiamate”, che si presentano dentro di noi urlando a squarciagola, che ci fanno sobbalzare e ci mandano in confusione, non ci permettono di avere la lucidità di ponderare la scelta, mentre appagano il bisogno di avere un posto nel mondo e di colmare i nostri vuoti.

Mi riferisco, ad esempio, ai richiami del denaro e del potere e, perché no, anche a quello dell’amore.

Caravaggio è stato un rivoluzionario per la sua epoca, ha cercato di sovvertire i canoni del tempo che imponevano agli artisti regole e un solco nel quale muoversi.

Il “contenitore” famigliare nel quale è nato lo ha protetto e lasciato libero di esprimersi e di dare spazio alla sua creatività. Gli ha dato fiducia e gli ha permesso di intraprendere la sua strada di artista. Questa libertà ha fatto a botte con i vincoli che la società del tempo gli imponevano, rendendolo un ribelle e un trasgressore. Così la sua arte nasce pregna di anticonformismo e ribellione, ma libera, nonostante il rispetto (quasi sempre) delle regole imposte.

Mi trovo quindi, mentre scrivo, a stupirmi, perché appena sopra ho detto di averci visto umiltà e mi domando come possano conciliarsi le due cose: umiltà e ribellione.

Rifletto un attimo e cerco in me una risposta: si può riconoscere l’umiltà dentro di noi quando si ha avuto la possibilità, grazie a contenitori avvolgenti e credibili, di esprimere la propria libertà. Tutt’altro rispetto a quanto riconosco essere accaduto a me.

Il mio contenitore famigliare non ha generato quella fiducia in me stessa che solo l’amore permette di sviluppare e, al contrario,  mi ha indotto a investire gran parte delle mie energie nel tentativo di farli ricredere, per farmi accettare… che pessimo modo di usare il mio tempo e le mie risorse emotive! Questo ha fatto sì che anche io ho avuto bisogno di ribellarmi e trasgredire, ma a differenza di Caravaggio (poco umile il paragone), che lo ha fatto a viso aperto, con tenacia e consapevolezza, io ho sempre dovuto indossare una maschera per avere il coraggio di andare alla ricerca di quella fiducia e dell’amore mancato.

Questo abito mi ha esposto a molteplici “chiamate urlate”, poco coerenti con ciò che veramente io ero… ma che ho ascoltato nella speranza di colmare quel vuoto che causava sofferenza. Per questo forse, oggi, pur riconoscendo l’umiltà quando la vedo, spesso la confondo con senso di inadeguatezza.

Ma non fa niente, ce l’ho fatta, adesso riesco a scegliere, a volte con un po’ di cinismo, lo ammetto, “contenitori” che mi regolano l’esistenza senza opprimerne la creatività, ma facendomi crescere tutti i giorni.

Il più importante è quello saldo, pacato e silenzioso di mio marito, che da quasi trent’anni mi accetta, incredibilmente, per quella che sono. Un altro, più terremotante e rumoroso, in questo caso con accezione positiva, è quello del Prof Aparo e del Gruppo della Trasgressione, che, senza troppi complimenti, ti scombussolano e alimentano l’anima.

Ludovica Pizzetti

Caravaggio in città

Il sollievo di Matteo

Dell’arte amo la capacità di mutare forma, il suo scivolare tra le menti degli spettatori trasformandosi a seconda della loro necessità. Credo sia proprio questa particolarità a tenere in vita le opere e, partecipando all’incontro di “Caravaggio in città”, ne ho avuto la conferma;

Sono convinta che, almeno per quanto mi riguarda, le interpretazioni nascano dalla necessità di immedesimarsi, di sentirsi partecipe dell’opera stessa; penso che ritrovare nei personaggi caratteristiche affini alle proprie stimoli ulteriormente la curiosità di chi osserva e, allo stesso tempo, gli sia di particolare conforto.

Conoscevo già la ‘’Vocazione di san Matteo’’, ma in passato l’ho guardata con occhi completamente diversi. Ricordo, per esempio, di non aver mai tenuto realmente conto degli sguardi dei personaggi; oggi invece è un particolare che mi sembra fondamentale, forse protagonista dell’intera opera.

Io percepisco nell’espressione di Matteo una scintilla di desiderio; personalmente non colgo nel suo viso lo stupore di essere stato chiamato, piuttosto mi sembra di leggere in lui la necessità di sentirsi coinvolto e il sollievo che la chiamata stessa gli provoca. Forse è per questo motivo che gli altri personaggi del dipinto rimangono indifferenti all’entrata di Cristo, semplicemente non lo stavano aspettando.

Secondo me, non si è sempre consapevoli di essere in attesa di qualcosa o qualcuno, eppure, quando si presenta la possibilità di venirne a conoscenza, lo si riconosce quasi istintivamente; Matteo si sente il destinatario dell’invito, sa di esserlo.

Fino ad ora credo di aver sempre fatto parte del gruppo degli indifferenti o, per lo meno, non ho mai realmente colto le chiamate che, nel bene e nel male, realizzo solo oggi di avere ricevuto.

Ultimamente, invece, mi rivedo molto nella figura di Matteo, e più sento la chiamata risuonare, più riconosco in me lo stesso sollievo che leggo nei suoi occhi.

Beatrice Ajani

Caravaggio in città

L’azione della chiamata

I miei genitori sono entrambi grafici e amanti dell’arte e spesso, quando ero piccola, mi portavano in giro per musei e mostre. Come è possibile immaginare, il museo non era proprio il mio posto preferito dove passare il sabato pomeriggio. Mio padre però era furbo e per coinvolgermi si è inventato un gioco: ognuno di noi doveva immaginare i titoli delle varie opere e chi si avvicinava di più al titolo originale vinceva. Strano ma vero, vincevamo sempre io e mia sorella.

Ora che sono grande, nei musei ci vado volentieri di mia spontanea volontà. Spesso però mi capita di fermarmi a cercare di indovinare il titolo dei quadri, lo trovo un modo per capire se sono riuscita a percepire il messaggio che l’autore voleva mandare.

Nel caso de La chiamata di San Matteo invece, ho saputo il titolo prima ancora di vedere il quadro. So che il titolo originale è La vocazione di San Matteo, ma mi piace pensare che la scelta di presentarlo al Gruppo come chiamata sia fatto di proposito. Il titolo che gli ha dato il professor Aparo mi evoca una sensazione di dinamicità e di dialogo, di domanda e risposta. Trovo che rispecchi molto il quadro, perché guardandolo è difficile individuare subito il protagonista. Chi è il soggetto principale del quadro? Matteo, circondato da colleghi e apprendisti? O Cristo, coperto quasi interamente da Pietro? Per me, il soggetto principale di questo quadro è l’azione della chiamata, rappresentata dal dito di Cristo puntato su Matteo e dal dito di Matteo, rivolto a sé stesso.

Inoltre, un aspetto che adoro dell’arte è che consente di provare diverse sensazioni pur rimanendo sempre uguale. Aver ascoltato le percezioni degli altri, mi ha aiutato ad avere un’impressione più generale. Ho potuto quindi soffermarmi sull’espressione incredula di Matteo, sull’indifferenza degli altri avventori, sullo sguardo di Cristo, da alcuni percepito severo, da altri accusatorio.

Mi piace paragonare questo evolversi di sensazioni che si manifesta davanti ad un’opera d’arte all’evolversi della coscienza di un detenuto: l’incontro e l’ascolto delle esperienze, le opinioni e le riflessioni dell’altro sono  strumenti fondamentali per la crescita e lo sviluppo della propria identità.

Cristo chiama e Matteo può rispondere oppure no, entrambi però sanno che l’azione è eseguita da tutti e due.

Anita Saccani

Caravaggio in città

Il mio sporco gioco

Mi chiamo Giuseppe Amendola, nato a Napoli nel 1963.
Vi dico subito che il fatto per cui mi trovo in carcere da 32 anni non è colpa di nessuno e ci tengo a dire che i miei famigliari sono state delle brave persone.

Giorni fa, al teatro del carcere di Opera dove si svolgeva il corso della Trasgressione con il dott. Aparo, c’era anche il professore di scuola d’arte Stefano Zuffi. Ci ha fatto vedere un quadro di Caravaggio che io ho intitolato: “La chiamata di ritorno”. In questo quadro c’è Cristo con Pietro: Cristo punta con il dito Matteo che si trovava in compagnia di uomini non graditi a Cristo.

Non potete credere quante volte, quando ero fuori, mi puntavano quel dito addosso, era come una spada che mi trafiggeva il cuore.

La mia vita è stata tutto un gioco. Ho giocato e mentre giocavo cercavo di scappare e di nascondermi da questo gioco che io facevo con il finto sorriso sulle labbra. Dovevo proteggere la mia famiglia, una famiglia fatta di persone per bene. Non gli facevo capire niente, io giocavo e loro erano felici nel vedermi giocare con la vita, ma non conoscevano le mie paure, il mio sporco gioco. Dovevo nascondere i soldi che guadagnavo e andavo avanti con tante bugie per giustificare con mia moglie quei pochi soldi che portavo a casa.

Dio mio, quanti dolori ci sono dentro di me, come vorrei che qualcuno mi ascoltasse e mi facesse capire che non sono più solo e che questo mio gioco è finalmente finito.

Ora voglio parlare a tutti i ragazzi che si rovinano la vita proprio come ho fatto io da ragazzo. Miei cari ragazzi, se non credete a queste mie parole fate una cosa, cercatemi e, quando mi avrete trovato, guardatemi bene e vedrete in me un uomo distrutto per il male che ha fatto, vedrete un uomo che ha giocato troppo sporco con la vita. Vi raccomando, quando mi guarderete, fatelo con il cervello e non con il cuore poiché se mi guarderete con il cuore vi posso solo fare pietà, ma se mi guarderete con il cervello capirete che non vi conviene fare la mia stessa fine.

Io vi prego, salvatevi! Non date soddisfazione a chi non vede l’ora di puntarvi il dito addosso, proprio come nel quadro di Caravaggio, per dire: “Eccolo, quello è il cattivo”. No, non dategli questa soddisfazione, fategli capire che avete capito questo gioco e dite ad alta voce che ogni tipo di mafia fa schifo. Vi prego, smettetela di rovinarvi la vita. Voi siete ragazzi intelligenti e non potete non capire che vogliono la vostra vita a tutti i costi per vivere sulle vostre spalle. Senza di voi il gioco è finito.

C’è un’ultima cosa che vi voglio dire:  mi trovo in carcere da 32 anni ma non sono bastati per togliermi, come diceva il grande signore Giovanni Falcone, “il puzzo che c’era dentro di me” e così, nel 2021, ho fatto chiamare il sostituto procuratore della D.I.A. di Napoli e mi sono liberato del puzzo che c’era dentro di me ovvero un passato di violenza e malavita.

Concludo chiedendo scusa e perdono a tutte le vittime di mafia, ai loro famigliari e a tutti quelli che ogni giorno combattono con la propria vita la criminalità organizzata e quella comune. Chiedo scusa alla mia famiglia per avere messo la vergogna sui loro visi. Ringrazio tutti quelli che fanno di tutto per metterci sulla strada giusta.

Grazie di cuore.

Caravaggio in città

La vocazione di San Matteo

Mi colpisce la differenza d’abbigliamento fra le figure di Cristo e di San Pietro, entrambi in piedi, e di quelle sedute al tavolo. Da una parte, abiti senza tempo o riconducibili al tempo di Cristo; dall’altra abiti dell’epoca del dipinto.

Questo, probabilmente per mie esigenze affettive del momento, mi porta a fantasticare che il quadro parli di una comunicazione e di un uomo in altalena fra due dimensioni, quella che prescinde dal tempo e quella storica.

A noi tocca vivere nella dimensione del divenire, dove si nasce, si cresce e si muore, ma sembra che, per quanto ci si sforzi, sia per noi tutti troppo difficile rinunciare all’idea di una nostra parentela con…  l’Infinito.

A mia volta, pur consapevole del fatto che nulla di ciò che sento prescinde dalla storia, vado sempre sognando un ascensore che mi permetta di andare, almeno con lo sguardo, oltre l’ultimo piano del mondo finito.

Mi rendo conto che il rischio dell’arroganza è forte, anche se, per fortuna, le costruzioni e il divertimento che derivano dai tentativi di addomesticarla non sono da meno.

Ecco, nel dipinto c’è una luce che arriva da un punto fuori dallo spazio visibile (direi fuori dalla storia) e che, passando sopra la testa di Cristo, giunge fino al tavolo degli uomini che vivono dentro i confini dello spazio e del tempo: lo spazio della locanda, il tempo dei loro abiti.

Dunque, uomini che vivono, scelgono e divengono in un tempo e in uno spazio finiti, in risposta a una luce e a una vocazione che sembrano provenire dalla dimensione dell’infinito, dopo essere state mediate da Cristo, figura a cavallo tra le due dimensioni.

E, per concludere, mi chiedo se la mediazione tra finito e infinito, che nel dipinto viene affidata a Cristo, non sia una delle rappresentazioni possibili di quel che ci serve: ora per non smarrirci fra i mille sentieri e le responsabilità di una storia ancora da costruire; ora per prevenire l’allucinazione di volare oltre l’ultimo piano.

Caravaggio in città