Progetto “La Chiamata”

Mi è stato chiesto dal dott. Aparo di scrivere qualcosa di mio su un progetto per un reparto, qui a San Vittore, dove accompagnare le persone molto giovani nella propria crescita personale.

San Vittore è una Casa Circondariale, un posto di passaggio dove la persona accusata è solo in attesa di una condanna. Ed è questo il luogo nel quale si vuole intervenire, quando la persona è ancora “acerba” e ancora influenzabile.

Per riuscire è necessario che il reparto sia abitato da persone che abbiano l’interesse a mettersi in gioco, dove i detenuti che scelgono di andarci possano darsi un aiuto reciproco per confrontare i propri vissuti e dove chi vive nel reparto, in collaborazione con professionisti che vengono dall’esterno, possa individuare e alimentare iniziative utili a migliorare la qualità dell’ambiente.

Il detenuto nel reparto non dovrebbe mai avere la sensazione di essere abbandonato a se stesso, è importante che si senta accompagnato durante il cammino. Non sono da tralasciare le attività formative, come sport, scuola, incontri, eventi formativi, laboratori creativi e tutte quelle attività che portano la persona a prendersi cura di se stessa.

Il carcere è uno di quei luoghi nei quali si può incontrare il male nelle sue forme più drammatiche e dove molte volte ci si imbatte in giovani che sembrano normali e tranquilli, ma che invece hanno compiuto azioni violente e devastanti.

Il male si mostra sempre nei momenti in cui siamo più deboli. A volte è visibile nei suoi effetti solo dopo essersi piano piano fatto spazio dentro di noi. Spesso il colpevole è identificabile, ma a volte si scopre essere contemporaneamente artefice e vittima. L’origine di questo male va cercata dentro perché è intrinseco nell’essere umano e tante volte si può sprigionare all’improvviso, senza una comprensibile ragione.

Nella mia breve esperienza in carcere, ho notato che San Vittore è un gran via vai di figure portatrici di sapere, come psicologi, avvocati, educatori, volontari, etc… Il confronto con questi personaggi è diverso per ogni persona, ma c’è la speranza che questi dialoghi possano essere una svolta per la crescita della persona smarrita.

Le persone che sono bloccate nella propria storia passata, negli errori propri e altrui, nelle esperienze di violenze agite e subite, credono di non aver più il diritto di parola, sentono di non avere più un’identità (la maggior parte delle volte non ce l’avevano neanche prima, oppure era meramente illusoria). Mi riferisco in particolare a ragazzi giovani che, messi in carcere per la prima volta, sono paralizzati e non hanno parole per raccontare ciò che stanno vivendo e che hanno vissuto. Sono convinto, però, che le persone che vengono da fuori possano aiutare a dare voce ad un vissuto sofferto (agito, subito o entrambi).

Credo che si dovrebbe cercare di accompagnare i detenuti nel loro percorso, aiutarli a sviluppare la capacità di pensare in maniera costruttiva, ad elaborare e contenere quelle forti emozioni di rabbia, desolazione, ansia e tristezza, che spesso ci ingannano e ci tengono prigionieri, più del carcere stesso. Persone come me, che vivono nella profonda disperazione per aver commesso azioni tremende… pur non riconoscendosi in esse.

Hamadi El Makkaoui

Caravaggio in città – Reparto LA CHIAMATA

Il testo originale

Il mio sporco gioco

Mi chiamo Giuseppe Amendola, nato a Napoli nel 1963.
Vi dico subito che il fatto per cui mi trovo in carcere da 32 anni non è colpa di nessuno e ci tengo a dire che i miei famigliari sono state delle brave persone.

Giorni fa, al teatro del carcere di Opera dove si svolgeva il corso della Trasgressione con il dott. Aparo, c’era anche il professore di scuola d’arte Stefano Zuffi. Ci ha fatto vedere un quadro di Caravaggio che io ho intitolato: “La chiamata di ritorno”. In questo quadro c’è Cristo con Pietro: Cristo punta con il dito Matteo che si trovava in compagnia di uomini non graditi a Cristo.

Non potete credere quante volte, quando ero fuori, mi puntavano quel dito addosso, era come una spada che mi trafiggeva il cuore.

La mia vita è stata tutto un gioco. Ho giocato e mentre giocavo cercavo di scappare e di nascondermi da questo gioco che io facevo con il finto sorriso sulle labbra. Dovevo proteggere la mia famiglia, una famiglia fatta di persone per bene. Non gli facevo capire niente, io giocavo e loro erano felici nel vedermi giocare con la vita, ma non conoscevano le mie paure, il mio sporco gioco. Dovevo nascondere i soldi che guadagnavo e andavo avanti con tante bugie per giustificare con mia moglie quei pochi soldi che portavo a casa.

Dio mio, quanti dolori ci sono dentro di me, come vorrei che qualcuno mi ascoltasse e mi facesse capire che non sono più solo e che questo mio gioco è finalmente finito.

Ora voglio parlare a tutti i ragazzi che si rovinano la vita proprio come ho fatto io da ragazzo. Miei cari ragazzi, se non credete a queste mie parole fate una cosa, cercatemi e, quando mi avrete trovato, guardatemi bene e vedrete in me un uomo distrutto per il male che ha fatto, vedrete un uomo che ha giocato troppo sporco con la vita. Vi raccomando, quando mi guarderete, fatelo con il cervello e non con il cuore poiché se mi guarderete con il cuore vi posso solo fare pietà, ma se mi guarderete con il cervello capirete che non vi conviene fare la mia stessa fine.

Io vi prego, salvatevi! Non date soddisfazione a chi non vede l’ora di puntarvi il dito addosso, proprio come nel quadro di Caravaggio, per dire: “Eccolo, quello è il cattivo”. No, non dategli questa soddisfazione, fategli capire che avete capito questo gioco e dite ad alta voce che ogni tipo di mafia fa schifo. Vi prego, smettetela di rovinarvi la vita. Voi siete ragazzi intelligenti e non potete non capire che vogliono la vostra vita a tutti i costi per vivere sulle vostre spalle. Senza di voi il gioco è finito.

C’è un’ultima cosa che vi voglio dire:  mi trovo in carcere da 32 anni ma non sono bastati per togliermi, come diceva il grande signore Giovanni Falcone, “il puzzo che c’era dentro di me” e così, nel 2021, ho fatto chiamare il sostituto procuratore della D.I.A. di Napoli e mi sono liberato del puzzo che c’era dentro di me ovvero un passato di violenza e malavita.

Concludo chiedendo scusa e perdono a tutte le vittime di mafia, ai loro famigliari e a tutti quelli che ogni giorno combattono con la propria vita la criminalità organizzata e quella comune. Chiedo scusa alla mia famiglia per avere messo la vergogna sui loro visi. Ringrazio tutti quelli che fanno di tutto per metterci sulla strada giusta.

Grazie di cuore.

Caravaggio in città

La vocazione di San Matteo

Mi colpisce la differenza d’abbigliamento fra le figure di Cristo e di San Pietro, entrambi in piedi, e di quelle sedute al tavolo. Da una parte, abiti senza tempo o riconducibili al tempo di Cristo; dall’altra abiti dell’epoca del dipinto.

Questo, probabilmente per mie esigenze affettive del momento, mi porta a fantasticare che il quadro parli di una comunicazione e di un uomo in altalena fra due dimensioni, quella che prescinde dal tempo e quella storica.

A noi tocca vivere nella dimensione del divenire, dove si nasce, si cresce e si muore, ma sembra che, per quanto ci si sforzi, sia per noi tutti troppo difficile rinunciare all’idea di una nostra parentela con…  l’Infinito.

A mia volta, pur consapevole del fatto che nulla di ciò che sento prescinde dalla storia, vado sempre sognando un ascensore che mi permetta di andare, almeno con lo sguardo, oltre l’ultimo piano del mondo finito.

Mi rendo conto che il rischio dell’arroganza è forte, anche se, per fortuna, le costruzioni e il divertimento che derivano dai tentativi di addomesticarla non sono da meno.

Ecco, nel dipinto c’è una luce che arriva da un punto fuori dallo spazio visibile (direi fuori dalla storia) e che, passando sopra la testa di Cristo, giunge fino al tavolo degli uomini che vivono dentro i confini dello spazio e del tempo: lo spazio della locanda, il tempo dei loro abiti.

Dunque, uomini che vivono, scelgono e divengono in un tempo e in uno spazio finiti, in risposta a una luce e a una vocazione che sembrano provenire dalla dimensione dell’infinito, dopo essere state mediate da Cristo, figura a cavallo tra le due dimensioni.

E, per concludere, mi chiedo se la mediazione tra finito e infinito, che nel dipinto viene affidata a Cristo, non sia una delle rappresentazioni possibili di quel che ci serve: ora per non smarrirci fra i mille sentieri e le responsabilità di una storia ancora da costruire; ora per prevenire l’allucinazione di volare oltre l’ultimo piano.

Caravaggio in città