Gli altri raccontano di sé e io capisco me stesso

L’impatto che ho avuto la prima volta con il carcere credo di averlo già un po’ scritto, ma sarò più dettagliato. La prima emozione è stata di paura, non sapevo cosa mi sarebbe successo, se essere picchiato dagli agenti stessi o dai detenuti per il reato commesso. Durante il tragitto per arrivare al carcere capii subito che era un posto isolato, ai margini della società.

Credo che il carcere sia il posto peggiore dove stare se si vuole stare soli. Appena arrivati, all’interno del carcere notai subito il cancello chiudersi e la realtà divisa in due pezzi: da una parte la felicità, come una foto di una spiaggia paradisiaca; dalla parte, dove ero io, non era una spiaggia ma una struttura cupa, piena di povertà e tristezza.

Entrato, dopo le pratiche di burocrazia, fui controllato, spogliato e dovetti fare persino dei piegamenti come se avessi qualcosa da nascondere, pur se la mia situazione era nota. In pratica, sin dall’inizio ti tolgono dignità e se chiedi spiegazioni la risposta è sempre la stessa, in primis dicono che è la normativa.

Una volta conclusa questa fase, fui spostato nel reparto di osservazione, furono giorni di desolazione con un logoramento interiore. In quei giorni mi frullava in testa un unico chiodo fisso cioè l’unica via di fuga per il mio pentimento; pur perso nella desolazione, escogitai, se così si può definire, un piano per il raggiungimento del mio scopo, il suicidio. Non sapendo neppure cosa fossero gli psicofarmaci, me li feci prescrivere in modo da averli per poi prenderli tutti; aspettai il giorno decisivo.

Quella sera, aspettai che le guardie facessero il giro e cercai di sfuggire agli sguardi del mio compagno di cella, Quando si spensero le luci mi rifugiai in bagno, iniziai a versare lacrime di disperazione e allo stesso tempo anche di liberazione: finalmente sarebbe finito tutto, tutto il dolore che avevo causato. Presi coraggio mandando giù le pillole e feci una corda, ma si spezzò. Subito dopo giunse l’appuntato che si accorse di tutto, anche delle lettere di addio che avevo scritto prima.

Sfortunatamente per me, il destino, la fortuna o qualcuno dall’alto, aveva deciso che non era il mio momento. Dopo quel fatto, qualche giorno dopo l’isolamento, fui trasferito a San Vittore. Ormai non prendevo in considerazione la possibilità di un riscatto positivo, tanto che anche qui, all’inizio, non pensavo ad altro che a tagliarmi le vene con una lametta da barba. Continuai a passare le notti in lacrime ma stranamente non avevo più il coraggio di suicidarmi.

Nel nuovo carcere trovai una serenità, era strano per me concepire di apparire un “detenuto modello” dopo quello che avevo causato, credo che abbia giocato a mio favore il fatto di essere sincero con me stesso e con gli altri.

A questo punto vengo a contatto con volontari, educatori e psicologi che ogni volta che guardavano i miei documenti, la mia storia, intravvedevo nei loro occhi dello sconcerto, mi guardavano come se si chiedessero “ma davvero ha fatto questo” e, anche se non era verbalizzato dentro di me, scavavo una buca ancora più profonda.

Ma la spinta determinante a intraprendere un percorso è nata dalla mia partecipazione a moltissime attività, con l’ascolto di tante persone diverse e con la voglia di riempire il mio bagaglio, di acquisire termini, concetti, ragionamenti e argomenti su cui poi riflettere. Non solo la mia conoscenza si sarebbe ampliata ma anche le mie relazioni ne avrebbero avuto un giovamento.

È stato il confronto con il gruppo “a farmi capire” che per andare davvero fino in fondo non sarei potuto sfuggire dal fare i conti con me stesso. Ancora non ne ero consapevole, ma quello è stato l‘inizio del percorso di cambiamento di me stesso. Ogni volta che nel gruppo si racconta di qualcosa di Sé, prendo più coraggio e capisco qualcosa in più sul mio passato.

Hamadi El Makkaui

Reparto La CHIAMATA

Il mio progetto

C’è bisogno di pensare
in quale modo star meno male.
Ho la cazzimma, sono potente,
io la controllo la mia mente!
Posso schiacciare questa vita infame,
il mio progetto?
Farmi valere fra la gente che non capisce
quanto è triste chi subisce.
Subisce dal padre o dalla madre
che il mondo e la vita l’hanno subita
e non vissuta.

Penso a me, solo a me stessa,
tutto il resto è acqua fresca.
Forse ho bisogno di sapere
che nel mondo c’è calore.

Un progetto, quello si,
che mi rende grande e potente,
non mi schiaccia, mi sorprende
ma fa di me una delinquente.

Sono pillole, polvere e macerie
sono scarti di potenza,
è una misera esistenza.
Mi sollevo, ricado e piango,
in silenzio, mi vergogno.

Vorrei essere sicura
che l’amore si allontani,
perché altrimenti il mio dolore
fa soccombere l’onore.

Reparto La Chiamata  – Inverno e Primavera  –  Officina Creativa

Sentirsi parte del mondo

Sono atea ma credo nell’uomo. Credo fortemente che l’essere umano abbia la necessità, dalla nascita alla morte, di sentirsi aiutato a comprendere se stesso, a farsi strada nel mondo per sentirsene parte vitale. Ognuno di noi sente il bisogno di essere supportato e affiancato lungo questo cammino, per riconoscersi ed essere riconosciuto per ciò che si è o che si vorrebbe diventare. Che sfida! Che lavoro e… che fatica!

Quanti di noi possono dire di avere avuto, nel percorso della propria storia, alleanze e collaborazioni che lo abbiamo supportato ed aiutato a scoprirsi e a valorizzarsi con un progetto credibile? Io, per prima, se penso a me stessa in adolescenza, ho immagini e sensazioni di frustrazione ed immane senso di disorientamento, condito con una buona dose di sfiducia ed il tutto accompagnato da paura del futuro e senso di inadeguatezza.

Sono sensazioni alle quali il più delle volte non troviamo una giustificazione o di cui non arriviamo a comprendere il senso e l’origine, la complessità. Molte volte si incontrano persone, adolescenti per i quali a tale complessità si aggiungono rabbia, arroganza, fonti di frustrazioni e malesseri tali da portarli all’abuso sugli altri e ai reati.

Bene, di fronte a loro e con loro, altri uomini hanno la possibilità di esserci! Con il reparto “La Chiamata”, esseri della stessa specie spalancano, gli uni agli altri, il portone alla bellezza ed al valore della propria esistenza. Persone, tutte le persone che saranno parte di questo progetto (detenuti, ex detenuti, studenti, psicologi, comuni cittadini, ecc.), dovranno scambiarsi emozioni, pensieri, vita.

Penso che attraverso la riscoperta della grandezza dell’essere umano e la frequentazione delle sue bellezze (letteratura, opere d’arte, scienza, filosofia), in questo reparto si debba dare a ciascuno, con lo sguardo, l’ascolto, il confronto, la possibilità di rendersi attivamente partecipi di questa immensità e di arrivare ad appropriarsene, a crescere e, perché no, a creare nuova bellezza. Ciò che di immenso e bello ha potuto creare un uomo, può e deve essere per altri un contenitore per sentirsene parte e uno stimolo per aggiungere la propria parte.

Spero e credo possibile che in questo reparto tutti possano giungere a sentirsi capaci e fieri di coltivare, anche attraverso la propria fragilità, le proprie potenzialità, fieri e capaci di guardare in faccia il proprio passato, ringraziandolo di essere tale e di proseguire il cammino, acquisendo ogni giorno nuova consapevolezza, responsabilità e il piacere di vivere per se stessi e per gli altri.

Reparto LA CHIAMATA

Ludovica Pizzetti

Caravaggio e il contenitore

Non sono sicura di avere pienamente a fuoco ciò che il dipinto di Caravaggio (Vocazione di San Matteo- la Chiamata), mi s-muove dentro. Avevo già visto sui libri questa opera, ma non l’ho mai veramente guardata.

Il carcere di Opera, contesto nel quale questo dipinto è stato discusso, i detenuti e il gruppo della trasgressione come interlocutori, il Professor Zuffi in qualità di esperto e il Professor Aparo hanno fatto si che questa esperienza fosse perfetta!

Perfetta per imparare, perfetta per conoscersi gli uni e gli altri, ma soprattutto perfetta per guardarsi dentro e chiedersi se durante il cammino di vita di ciascuno di noi una “chiamata” abbia potuto dare valore o disvalore alla nostra esistenza.

Per quanto mi riguarda, a seguito dei sommovimenti interni indotti dal dipinto, la sensazione che ho provato è stata di una complessiva umiltà:

Umiltà nel Cristo, che indica Matteo con il timore nel dito ma con il braccio teso dalla determinazione: “Ti scelgo, ma non ti voglio per forza. Sta a te decidere”.

Umiltà negli occhi e nel modo di indicare se stesso di Matteo: “Io? Perché io?, Chi sono io?”

Una conversazione fatta di sguardi e gestualità, come spesso accade quando non si trovano le parole, o forse non servono.

In qualche modo la nostra vita è costellata di chiamate. Le più importanti e significative parlano una lingua difficile, o che in qualche modo ci sforziamo di non voler capire perché quando lo facciamo ci causano affanno, fatica, a volte sofferenza. Ad esempio nel mettersi in gioco in un rapporto umano, dove lo scambio tra donare e ricevere è a volte fonte di frustrazione.

Non siamo in grado di comprenderci gli uni e gli altri forse perché pecchiamo di mancanza di umiltà, che a mio parere, invece,  è così ben rappresentata da Caravaggio. Questa mancanza fa si che arriviamo a rispondere ad altri tipi di “chiamate”, che si presentano dentro di noi urlando a squarciagola, che ci fanno sobbalzare e ci mandano in confusione, non ci permettono di avere la lucidità di ponderare la scelta, mentre appagano il bisogno di avere un posto nel mondo e di colmare i nostri vuoti.

Mi riferisco, ad esempio, ai richiami del denaro e del potere e, perché no, anche a quello dell’amore.

Caravaggio è stato un rivoluzionario per la sua epoca, ha cercato di sovvertire i canoni del tempo che imponevano agli artisti regole e un solco nel quale muoversi.

Il “contenitore” famigliare nel quale è nato lo ha protetto e lasciato libero di esprimersi e di dare spazio alla sua creatività. Gli ha dato fiducia e gli ha permesso di intraprendere la sua strada di artista. Questa libertà ha fatto a botte con i vincoli che la società del tempo gli imponevano, rendendolo un ribelle e un trasgressore. Così la sua arte nasce pregna di anticonformismo e ribellione, ma libera, nonostante il rispetto (quasi sempre) delle regole imposte.

Mi trovo quindi, mentre scrivo, a stupirmi, perché appena sopra ho detto di averci visto umiltà e mi domando come possano conciliarsi le due cose: umiltà e ribellione.

Rifletto un attimo e cerco in me una risposta: si può riconoscere l’umiltà dentro di noi quando si ha avuto la possibilità, grazie a contenitori avvolgenti e credibili, di esprimere la propria libertà. Tutt’altro rispetto a quanto riconosco essere accaduto a me.

Il mio contenitore famigliare non ha generato quella fiducia in me stessa che solo l’amore permette di sviluppare e, al contrario,  mi ha indotto a investire gran parte delle mie energie nel tentativo di farli ricredere, per farmi accettare… che pessimo modo di usare il mio tempo e le mie risorse emotive! Questo ha fatto sì che anche io ho avuto bisogno di ribellarmi e trasgredire, ma a differenza di Caravaggio (poco umile il paragone), che lo ha fatto a viso aperto, con tenacia e consapevolezza, io ho sempre dovuto indossare una maschera per avere il coraggio di andare alla ricerca di quella fiducia e dell’amore mancato.

Questo abito mi ha esposto a molteplici “chiamate urlate”, poco coerenti con ciò che veramente io ero… ma che ho ascoltato nella speranza di colmare quel vuoto che causava sofferenza. Per questo forse, oggi, pur riconoscendo l’umiltà quando la vedo, spesso la confondo con senso di inadeguatezza.

Ma non fa niente, ce l’ho fatta, adesso riesco a scegliere, a volte con un po’ di cinismo, lo ammetto, “contenitori” che mi regolano l’esistenza senza opprimerne la creatività, ma facendomi crescere tutti i giorni.

Il più importante è quello saldo, pacato e silenzioso di mio marito, che da quasi trent’anni mi accetta, incredibilmente, per quella che sono. Un altro, più terremotante e rumoroso, in questo caso con accezione positiva, è quello del Prof Aparo e del Gruppo della Trasgressione, che, senza troppi complimenti, ti scombussolano e alimentano l’anima.

Ludovica Pizzetti

Caravaggio in città

Grazie Aner

Giovedì scorso durante l’incontro del Gruppo della Trasgressione a San Vittore , abbiamo provato a “prenderci cura” di Aner, un giovane detenuto di 24 anni schiacciato dall’angoscia per aver ucciso il papà della sua fidanzata in un attacco d’ira.

Aner è convinto di non riuscire a sopportare il peso del suo agito. Era palpabile in ciascuno dei presenti il desiderio di aiutarlo ad allontanare pensieri autodistruttivi. Così ognuno di noi ha condiviso con lui le proprie esperienze ed emozioni nella speranza che Aner potesse utilizzarle come ramo cui aggrapparsi.

Aner ci dice poche parole. Quando il prof gli chiede quale sua fragilità pensa possa aver contribuito a provocare il gesto, Aner risponde di essersi “sempre sentito fuori luogo”.

Non sappiamo a causa di chi o perché, per lui è ancora difficile aprirsi completamente col gruppo. Aner non lo dice per giustificarsi, non cerca di giustificazioni.  A due mesi dall’accaduto, egli non vuole nulla.

È “semplicemente” esploso questo rancore causato dal suo stato d’animo, penso io. Ecco, io e lui siamo simili. Sento di condividere con lui lo stesso rancore che per tanti anni mi ha accompagnato. Aner ha fatto riemergere in me tutta l’impotenza provata nei confronti di mia madre, che mi ha schiacciato e mi ha impedito di prendere in mano la mia vita con la giusta armonia e consapevolezza. Mia madre ha impedito al mio essere di nutrire quella creatività che mi avrebbe fatto spiccare il volo, non per diventare “qualcuno”, ma per essere me stessa.

E quindi l’ho odiata. Intensamente, profondamente. L’ho detto ad Aner. Gli ho detto che anche io sono stata ad un passo dal suo stesso atto, tante volte, e che non l’ho messo in atto forse perché avevo bisogno di vivere e perché è vero che inspiegabilmente possiamo amare chi ci distrugge.

Sarà un lavoro lungo e doloroso arrivare a smettere di lottare con l’odio e il rancore verso mia madre, arrivare a conviverci e a lavorarlo senza cercare di negarlo.

Capisco che non serve, perché mi impedisce soltanto di liberare il mio essere e che quella che sono oggi è anche grazie a quell’odio. Mi rendo conto che la mia creatività si è adeguata, e che grazie al divenire favorevole di episodi della mia vita ha potuto comunque esprimersi, tardi, ma forse ancora in tempo per riprendere il mio cammino.

Ed è anche grazie ad Aner che ne ho ogni giorno più consapevolezza. Ho provato a prendermi cura di te, Aner, e alla fine sei stato tu a darmi una spinta verso la mia meta.

Ludovica Pizzetti                                          Homo sum…

Il mio clown

Mi sono sempre sentita inadeguata. Mi sono  resa conto di non sapermi orientare attraverso la moltitudine di stimoli che mi raggiungono.

È così da sempre, fin da bambina, quando gli insegnanti mi elogiavano per i miei successi, ma poi a casa il tritacarne faceva di quel benessere nato da una folgorante autostima, una poltiglia.

È così da sempre, fin da bambina, e poi oltre… anche quando ci credevo… anche quando credevo che le energie che riponevo in ciò in cui credevo avrebbero dato frutti. Ma poi mi stancavo. Mi stancavo di dovermi ricredere. Perché venivo corretta. Non incoraggiata, corretta. Non educata, corretta. Non capita, corretta.

Ecco allora un’idea: travestirsi da clown. Perché si sa che i clown possono permettersi di essere ciò che non sono. Senza giudizio. Senza essere soggetti a critiche. Si disegnano una lacrima sul viso e continuano a far ridere.

…perché si sa che la lacrima dei clown è disegnata, è finta, basta una sciacquata e va via. Il paradosso del pianto di colui che fa ridere! I clown possono permettersi di cadere… e quando lo fanno gli altri ridono. I clown possono permettersi di dare sberle… e quando lo fanno gli altri ridono. I clown possono permettersi di sbagliare… e quando lo fanno gli altri ridono… altroché se ridono, a crepapelle.

Ma è per quello che i clown esistono, per essere sbagliati, inadeguati, maldestri. I clown non vengono giudicati per questo, perché è questo il loro essere. Perché si sa che ai clown è concesso tutto ed anche di più. I clown se li correggi, li snaturi.

Che comodità! Che leggerezza! Tutto è meno pesante, più semplice. Scorre via apparentemente liscio… arrivando addirittura a chiedermi se non fosse Ludovica la maschera sopra il clown. Che confusione!

Ma chi se ne importa! Nessuno si aspetta nulla da te. Nessuno pretende sforzi o traguardi raggiunti. Nessuno si aspetta poesie, ma scherzi, battute. E non fa nulla se dici la verità, non si offende nessuno, perché è questo che tutti vogliono e si aspettano dal clown. E sono andata avanti. Grazie al mio clown!

Poi incontro il Gruppo della Trasgressione. Da grande. Adulta. Formata (“formosa”…suggerisce il mio clown!). E tutto sembra iniziare a cambiare.

DEVO provare a gettare la maschera da clown, o almeno provarci, per far parte del gruppo. Perché voglio fortemente dare il mio contributo al progetto del gruppo, che ho sposato e che mi appassiona e voglio farlo, per una volta, senza essere corretta, perché qui, al gruppo, è VIETATO correggere!

Mi metto in gioco! Ma per farlo devo grattare via quella lacrima disegnata, ormai diventata tutt’uno con la mia pelle. E allora sorprendo me stessa a grattare, grattare, grattare. Ma è difficile! Cacchio… se è difficile!

Nel gruppo ci sono persone “avanti”, molto più avanti di me nella consapevolezza del proprio clown. Molti, ma soprattutto i “peggiori”, sono riusciti a grattare via quella lacrima disegnata e a continuare il cammino prendendo possesso della loro nuova identità: consapevole, empatica, viva!

Io ci sto lavorando, mi sono procurata dei guanti di crine e dei nuovi abiti. Aspetto che il cerone scompaia, a furia di grattare, per cambiare finalmente abito. Perché i piedoni enormi da clown mi hanno sempre fatto inciampare…per far ridere!

Ma è difficile! Cacchio… se è difficile!

Ludovica Pizzetti

      03-Fontana-Tango

Fontana Tango, di Paolo Donati e Trsg.band

Suona la Trsg.band

  • Alessandro Radici, Chitarra
  • Paolo Donati, Percussioni
  • Ippolito Donati, Chitarra
  • Michele Montanaro, Basso
  • Juri Aparo, Voce