Il pericolo del doppio io

The Departed – Il bene e il male di Martin Scorsese

Il tema del doppio e la ricerca di un proprio io autentico sono i nuclei concettuali attorno ai quali ruota la struttura narrativa del film. In un mondo dove nulla è ciò che sembra, la perdita dell’identità è una conseguenza quasi inevitabile. Ritrovarla si rivelerà il compito più difficile, se non impossibile.

Quello che viene negato a Billy/Di Caprio e Colin/Damon (che sono uno l’alter ego dell’altro) è la libertà di scegliere per se stessi e per la propria vita, un futuro autentico da vivere nell’autocoscienza, la possibilità di rigettare un ruolo (quello della talpa) e un destino imposto da altri, in un universo sociale rigidamente chiuso.

Il primo, Billy/Di Caprio cerca di riscattare l’immagine di sé e della sua famiglia, infiltrandosi in un contesto mafioso-criminale irlandese, ma è sempre con il viso corrucciato, sentore di grande disagio interiore per l’uso estenuante del doppio gioco fino a patirne paurose crisi di nervi.

Il secondo, Colin/Damon, si infiltra nella polizia di stato dopo anni di studio forsennato. Però, spinto dall’arrivismo sociale e da infrenabili ambizioni, scivola nella strada dell’inferno e fa scivolare con sé la stessa istituzione, dentro cui gode apprezzamento e fiducia, proprio perché si rende insospettabile.

Si consuma via via la tragedia del tradimento verso la legalità, verso l’amicizia ed addirittura verso la  donna contesa, la dottoressa Madolyn (interpretata da Vera Farmiga), travolta dallo stessa partita doppia giocata dai due poliziotti con tensione, abilità e senza sconti.

Come la cupola dorata di Boston sovrasta la città, campeggia nel film il carisma “filosofico” del Boss Costello (Jack Nicholson), grande conoscitore dell’animo – criminale – umano. Alcune sue frasi recitano  così:
“…poliziotti o criminali, una volta davanti ad una pistola, non c’è differenza”;
Nessuno ti regala niente, te lo devi prendere”;
Io non voglio essere un prodotto del mio ambiente, io voglio che il mio ambiente sia un mio prodotto”.

Ma non finisce qui, ci sono rapporti padre-figlio, c’è il peso delle origini, c’è la comunità e le etichette che ti appiccica addosso, e si finisce per non sapere o non capire dove sia il bene ed il male, senza mai sentirsi completi.

Nell’ inferno criminale e violento della città di Boston la ricerca della talpa assume i contorni della ricerca di se stessi, dell’io annullato nella sua moltiplicazione in troppe identità, schiacciato nella rete del doppio gioco che preclude ai protagonisti una vera e piena partecipazione alla costruzione della propria esistenza.

Così, The Departed, i defunti, non sono soltanto coloro che muoiono fisicamente, bensì gli “spersonalizzati”, quanti muoiono interiormente e perdono la loro identità senza avere più un posto nella società e – per sfuggire alla sorte di “prodotto dell’ambiente“- accettano di indossare la maschera, nutrendosi appunto del marcio, come la talpa.

Inoltre, nella traduzione italiana del film, il titolo aggiunge le parole di “Il bene e il male” a rinforzo del significato profondo del film medesimo, perché la realtà ha sempre due facce, quella buona e quella cattiva, così come la vita si oppone alla morte e l’onestà alla malvagità.

Sebbene i vari personaggi risultino tutti sconfitti, sembra che il bene si trasformi in “ombra del male”, anziché “opzione liberatoria” per onorare il valore di un ideale.

È rilevante osservare anche l’esercizio della punizione od addirittura della vendetta quali strumenti per ristabilire equilibrio e giustizia. Facendo leva su questi presupposti, il film propone una storia speculare, in cui a ogni uomo intento a far del bene ne corrisponde uno attratto dal male.

Mediante la genialità di un vortice narrativo del film ed attraverso un cocktail di ambiguità e doppiezza, l’attenzione viene costantemente interessata dalle vicende tormentate dei personaggi, per farsi esplorazione artistica e morale della natura umana, malvagia o virtuosa che sia.

Olga Bernasconi

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Perdonare e perdonarsi

Perdonare per definizione non è cosa semplice. Tanto che, a ben guardare, il nostro concetto di perdono affonda le sue radici in complesse dinamiche religiose. Secondo la teologia cattolica rappresenta ciò che Dio concede al peccatore dopo che egli, sinceramente pentito, ha confessato le sue colpe. L’atto di perdonare consiste in un movimento che un Altro compie nei confronti di un primo soggetto che si riconosce colpevole. Difatti, anche nel linguaggio comune si è soliti dare questa accezione a tale concetto. “Mi perdonerai mai?” o “Io non riesco a perdonarmi” sono solo alcune delle espressioni che mettono in luce la dinamica di cui sopra. E, di certo, vogliamo sperare che prima o poi il perdono arrivi per tutti. Ma affinché questo possa avvenire è necessario che prima si sviluppino alcuni requisiti fondamentali: ascolto, dialogo e coscienza dell’Altro.

Nonostante questa dinamica bilaterale, il perdono non può però essere inteso solo come un’azione che un Altro compie nei nostri confronti, ma anche come gesto individuale da effettuare verso noi stessi. Il Gruppo della Trasgressione, per quanto ho potuto osservare, si configura come una concreta opportunità volta al raggiungimento di entrambi gli obiettivi: perdono dell’altro e perdono di sé. L’associazione si serve infatti di tutti gli strumenti positivi propri di un gruppo utili a liberare il nostro spirito dal peso che lo opprime.

Talvolta, oltre alla prigionia fisica, si può rimanere incastrati in una gabbia ben più soffocante e limitante, una gabbia costruita con perseveranza e alimentata da conferme fallaci. E infatti noi uomini siamo esseri alla costante ricerca di stabilità, non solo nel modo di rappresentare il mondo, ma soprattutto nel modo di vedere noi stessi. Per questo solo attraverso il confronto e la conoscenza dell’Altro diviene possibile concepire un modo diverso di pensare e interpretare la quotidianità. Questo è ciò che il gruppo fa.

È stato l’incontro e il confronto con le studentesse a permettermi di iniziare il mio cambiamento interiore

La potenza del gruppo risiede nella capacità di mettere in dialogo realtà differenti, di vedere attraverso gli occhi di qualcun altro e di vedere l’Altro. A tal proposito, mi hanno colpito le parole pronunciate da un ex detenuto: “queste persone mi hanno guardato con occhi diversi, hanno visto in me un uomo oltre il criminale”.

Appare centrale nel suo discorso il tema del riconoscimento, il quale passa, prima di tutto, dagli occhi degli altri. Un passaggio necessario per riuscire a scindere, all’interno della persona, azioni ed essenza. Non può avvenire perdono se prima non c’è coscienza, consapevolezza e comprensione. Perdonarsi, forse, significa proprio questo: rompere gli schemi preesistenti e imparare a vedersi in modo più comprensivo. È fondamentale, per sviluppare una narrazione di sé nuova e meno giudicante, riconoscere la propria storia, i propri bisogni più intimi e le proprie fragilità. Perché perdonarsi non significa giustificarsi o deresponsabilizzarsi, e questo i membri del gruppo lo sanno; perdonarsi significa, essenzialmente, darsi una seconda opportunità.

E dopotutto, anche perdonare gli altri non equivale forse a offrire una seconda possibilità? Infatti, non esiste cosa più generativa che costruire le fondamenta di una nuova vita. Il Gruppo della Trasgressione fa anche questo, permettendo a vittime e carnefici di comunicare e di abbattere l’enorme muro del silenzio, del rancore e del dolore.

Per me il gruppo è stato questo. Un confronto che mi ha insegnato, un pochino di più, a perdonare e a perdonarsi.

Sofia Castelletti

Percorsi della devianza

Nota: L’immagine è un particolare da “La primavera” di Sandro Botticelli