Il suicidio, un cuore seccato

Secondo il mio parere, i punti che potrebbero scatenare l’incendio che porta al suicidio possono essere tanti: la delusione di pensare di essere un fallito, per non essere capace di affrontare il problema. Prendere consapevolezza di aver deluso la famiglia, gli affetti, facendoli soffrire per i problemi che hai causato, se non c’è qualcosa o qualcuno che ti aiuta a sopportare questa consapevolezza, porta ad affondare sempre più nella depressione.

Altro punto può essere la delusione sentimentale, può capitare che una donna, dopo tanti anni, dica basta alla sua sofferenza ed alla sua solitudine, decidendo di troncare il rapporto, alleggerendo il peso da portare a causa dei nostri errori. Questo accende in noi la fiamma della solitudine, consumandoci dentro, fino al punto che il cuore, seccato da questa sofferenza, ordina al corpo di farla finita, per spegnere per sempre il dolore.

Premetto che queste osservazioni non sono mie, della mia esperienza personale, ma sono quello che ho visto, ascoltato e sentito in questi anni di detenzione.

Il suicidio non è mai stato nei miei pensieri. Pensando al suicidio andrei contro il mio credo, non sono io che devo decidere quando vivere o morire; non rispetterei mia madre che con dolore mi ha portato in grembo per nove mesi con la sofferenza del parto e col sacrificio poi di nutrirmi e di farmi crescere sano.

Pensando al suicidio, non rispetterei le mie figlie e le farei soffrire ancora di più.

Un solo consiglio: chi ha pensieri di suicidio deve prendere coraggio e farsi aiutare senza alcuna vergogna.

Salvatore Luci

Sul suicidio

Note sul suicidio

Quando ci si uccide, spesso lo si fa per colpire un nemico:

  • la propria morte per punire qualcuno che si odia e nei cui confronti ci si sente impotenti;
  • la propria morte per uccidere una parte interna che opprime il soggetto e gli impedisce di formulare un progetto evolutivo.

I propositi di suicidio aumentano via via che il soggetto subisce la perdita delle sue funzioni e si trova a vivere in un presente senza progetti attendibili, senza un futuro nel quale riconoscersi. Il suicidio è un tentativo estremo di mantenere una propria libertà decisionale quando tutto sembra deciso da altri. Al nemico esterno il suicida dice: “Tenetevi pure il corpo ch’è diventato vostro, io me ne vado“;  al nemico interno: “Non ti permetterò di portare avanti la tua tortura“.

In Italia la legge prevede che la pena debba tendere al recupero del condannato, ma in carcere muoiono ogni anno per suicidio una cinquantina di persone, una percentuale molto più alta della media nazionale. Uno Stato che non prevede la pena di morte, ma che d’altra parte mantiene condizioni nelle quali un numero così alto di detenuti si dà la morte, fallisce nel proprio obiettivo e, in un certo senso, opera in direzione opposta a quella che persegue.

A volte i bambini, non sapendo come farsi valere o riconoscere, picchiano la testa contro il muro per protestare contro i genitori; la loro fantasia è che farsi del male equivalga a scagliare la propria rabbia contro un capitale di proprietà dei genitori: il bambino lo attacca e aggredisce se stesso per punirli! In carcere accade spesso che un detenuto si procuri tagli su tutto il corpo così da richiedere a volte anche più di cento punti di sutura: lo si fa per chiedere ascolto, ma molto spesso anche solo per “punire” chi non ascolta.

A volte si pensa che un ambiente fisico più vivibile possa giovare alla prevenzione del suicidio, ma le sue cause principali non sono le difficoltà ambientali o la carenza di spazi; ci si suicida perché il rancore verso gli altri e verso se stessi riduce lo spazio interno e le spinte creative personali e annienta progressivamente la fiducia che ci possa essere un diverso domani.

Di fronte al suicidio, l’istituzione spesso reagisce tentando di intensificare il controllo, ma il controllo è una delle cause del suicidio. Impedire all’aspirante suicida la possibilità di portare a compimento il suo proposito non equivale a bonificare le fantasie di auto soppressione. Investire energie e soldi sul controllo è fatica sprecata, tanto più se si considera che hanno breve durata. Meglio investire su iniziative utili ad alimentare la volontà di vivere!

Il suicidio si previene con un ambiente che restituisca alla persona la possibilità di esprimere la propria rabbia verso gli altri e verso se stessi e con dei mezzi e delle attività che permettano di recuperare la fiducia in sé e nelle proprie potenzialità.

Infine, di fronte alla irreparabilità di una morte oramai avvenuta, è utile ricordare che ci si suicida in un momento, ma ci si toglie lo spazio per vivere a poco a poco. E’ doveroso per le istituzioni e per il soggetto mettere a fuoco che al suicidio si giunge solo come momento finale di un percorso, una serie di gradini che si salgono o si scendono a seconda del modo di procedere sia del soggetto sia dell’ambiente in cui egli vive.

Al Gruppo della Trasgressione il tema del suicidio è stato più volte oggetto di dibattito e di scritti. Nel 2003 il dott. Luigi Pagano, allora direttore di San Vittore, propose al gruppo di svolgere per un certo periodo la funzione di Peer support nelle celle a rischio e qualche anno fa la dott.ssa Manzelli, direttrice del carcere di San Vittore, aveva invitato il gruppo a partecipare a un convegno sul tema del suicidio per dire la propria. In entrambi i casi molti detenuti del gruppo seppero farsi onore.

Credo che i detenuti possiedano un capitale di conoscenze che merita di essere valorizzato e sfruttato, meglio se in progetti da portare avanti in collaborazione con le autorità istituzionali.

Non è necessario che i progetti abbiano espressamente a che fare con il suicidio; L’esperienza dice che qualsiasi progetto costituisce un’ottima prevenzione per il suicidio e un buon antidoto alla rabbia incendiaria che il tempo del carcere di solito non spegne.

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Incontro sul suicidio

L’incontro di mercoledì 3 novembre 2010, avvenuto nella Casa di Reclusione di Opera, ha permesso a 14 detenuti provenienti da 3 diverse aree del Gruppo della Trasgressione di riflettere insieme sul tema del suicidio. E’ doveroso, oltre che motivo d’orgoglio per tutto il gruppo, riferire che le riprese TV sono state possibili grazie alla professionalità del dott. Mimmo Spina, alla volontà del dott. Luigi Pagano, Provveditore regionale della Lombardia, del dott. Giacinto Siciliano, direttore del carcere di Opera, del capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dott. Franco Ionta.

I membri del Gruppo della Trasgressione presenti erano: Francesco Ranieri, Rosario Giuliano, Alessandro Crisafulli, Mullah Genti Arben, Salvatore Morabito, Giuseppe Carnovale, Antonio Tango, Giovanni Crisiglione, Antonio Catena, Bruno De Matteis, Massimiliano De Andreis, Gualtiero Leoni, Gabriele Tricomi.

I protagonisti della giornata, a due settimane dall’incontro, rimangono fieri di essersi impegnati, di aver saputo integrare i loro interventi (essendo membri di gruppi diversi, molti di loro si vedevano per la prima volta quel giorno), di aver potuto vivere un’esperienza non comune: collaborare con le forze istituzionali per un obiettivo che ha permesso facilmente di abbattere i confini di categoria.

Riassumendo, i detenuti hanno detto che il suicidio:

  • è l’ultimo atto di un percorso nel quale si riduce gradualmente la possibilità di guardare con fiducia al proprio domani;
  • è la fuga per la libertà da una tortura sempre più insopportabile, pur se condotta dal soggetto ai danni di se stesso;
  • è favorito dalla difficoltà di tollerare, con la consapevolezza dell’oggi, la viltà del proprio passato, a maggior ragione quando la persona sente di aver perso la possibilità di rinnovarsi e vive un senso d’oppressione così invalidante da volerne fuggire ad ogni costo.

Il Gruppo della Trasgressione, dopo mesi di confronto sul tema, conclude che, in un grande numero di casi, il suicidio può essere inteso come l’atto finale di una tirannia esercitata per anni ai danni di se stessi, un gesto con cui l’oppressore e l’oppresso raggiungono un accordo paradossale e drammatico: attuare il volere del tiranno e, allo stesso tempo, sottrarsi alla sua tirannia.

Chi entra in carcere dopo anni di pratica deviante porta dentro un despota che non ha voglia di cedere le armi con cui negli anni dell’ubriachezza ha squalificato le proprie componenti più sane. Per poterlo fare ha bisogno di trovare all’interno dell’ambiente istituzionale alleanze capaci di sostenere e rinvigorire le componenti che, pur se per propria responsabilità, avevano avuto la peggio. Non è facile, ma è possibile; ed è quanto dice la Legge.

I detenuti, nel corso dell’incontro, non hanno mai preso la strada più facile, cioè quella di delegare ad agenti esterni la responsabilità del gesto suicidario, e hanno dato, invece, prova tangibile di quanto un ambiente appropriato e un buon tavolo di confronto possano motivare a cercare dentro di sé le ragioni del proprio malessere invece che espellerle.

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