Verbale 29/04/2022

Verbale riunione Gruppo 1° Reparto Bollate
di Alessandra Cesario

  • Luca
    Quale motivazione le serve, Dott. Aparo, per venire ancora in galera dopo tanti anni?
  • Aparo
    Bella domanda. La giro ai membri del gruppo: cosa ci vuole per motivare me o voi o gli altri componenti a fare il Gruppo della Trasgressione in carcere?
  • Lara
    Innanzi tutto, ci vuole una persona che sappia coordinare il Gruppo. In secondo luogo, credo che occorra avere uno scopo poiché senza uno scopo non ci si muove. In più questo gruppo è una buona occasione per conoscerci e la conoscenza porta quasi sempre ad una riflessione.
  • Luca
    Io personalmente ho sempre chiesto di parlare con qualcuno come voi o con uno psicologo per capire come mai io sono così. Credo che quasi tutto parta dalla famiglia. Secondo me il genitore neanche si rende conto di quale seme pianta dentro al proprio figlio o figlia.
  • Carmine
    Io non la vedo necessariamente così, tutto sta dentro di noi e noi decidiamo come gestirci.
  • Luca
    Sì, ok, ma me lo domando poiché vedo a volte suicidarsi dei ragazzi che provengono da famiglie benestanti, che apparentemente non avrebbero nessun motivo per arrivare a compiere un gesto del genere ed io mi domando come mai uno che vive senza che gli manchi nulla di materiale, arrivi a togliersi la vita.
  • Carmine
    Anch’io conosco una famiglia di persone benestanti del mio paese d’origine che ha vissuto la tragedia del suicidio del proprio figlio. Il padre è un avvocato e la madre un’insegnante, ma hanno cresciuto i loro figli opprimendoli, e per il figlio che era cresciuto in questo clima, contava solo lo studio, mai un divertimento. Un giorno si è tolto la vita.
  • Detenuto
    Io credo che un padre non debba imporre il proprio volere al figlio, ma lo debba lasciare libero di compiere le proprie scelte.
  • Aparo
    Non è Lei, Luca, la persona che in un altro nostro incontro ha detto che: “Uno abusa perché si sente abusato“? Se parliamo di abuso le questioni relative alla classe sociale di appartenenza contano relativamente.
  • Luca
    Ha ragione Dottore, infatti, io ancora mi ricordo un abuso che ho ricevuto a 8 anni, quando mio padre mi regalò un completino del Milan, la mia squadra, a cui tenevo tantissimo ed un gruppo di miei coetanei mi prese in giro dicendomi che non era quello originale. La mia famiglia era una famiglia modesta, i miei genitori certamente cercavano di non farmi mancare nulla, ma magari non mi davano ciò che io desideravo. Forse per questo motivo mi domando perché uno appartenente ad una famiglia ricca dovrebbe mai compiere del male? Se vuole le posso raccontare anche di un abuso che ho subito poco fa da parte di un educatore.
  • Filippo
    Io sono giunto nel carcere di Bollate dal carcere di Volterra e sono venuto qui per il lavoro. Ma da quella che è la mia esperienza, carceri buone in Italia non mi pare di vederne.
  • Aparo
    Il carcere di Bollate, ovvero quello in cui ci troviamo ora, è considerato uno dei migliori d’Italia.
  • Cristian
    Per me questo carcere o un altro non conta nulla (riferendosi ai commenti fatti prima da alcuni detenuti su quale carcere fosse il migliore). Io ho sputato in faccia alla mia libertà, alla mia famiglia, ai miei figli e quindi questo carcere oppure un altro non contano nulla perché lo vedo solo come una punizione. Mi sento un fallito, faccio pensieri di cui ho paura. Tra poco tempo, ad esempio, potrei addirittura ottenere la concessione del reato continuato e quindi potrebbero assegnarmi delle attività all’esterno, tra non molto ho finito e questo carcere non mi sta dando nulla. Oggi io non la sicurezza di me stesso, ho paura di fare la stessa fine di Ivan (ex detenuto ed ex tossicodipendente trovato morto su una panchina).
  • Luca
    Ma tu che obiettivi ti sei dato nella vita?
  • Cristian
    Guarda, se pensi di essere una nullità hai di fronte a te fondamentalmente 2 opportunità: o ti ammazzi; oppure ammazzi una persona diversa da te. Ho bisogno di costruire basi solide per me. Pensavo anche di aver chiuso definitivamente con la tossicodipendenza, ma oggi non sono più sicuro di nulla. Io ho bisogno di qualche cosa che mi dia le basi per trovare il mio posto nella società. Qui sei chiuso e basta ed io voglio la mia libertà, voglio altro.
  • Carmine
    Ho visto purtroppo altri compagni detenuti caduti in depressione come lui e la cosa che mi sono sentito di fare è stato prima di tutto parlarne con l’educatore di riferimento (Bezzi) in modo che questi compagni potessero essere ascoltati e tenuti d’occhio, ma soprattutto che avessero l’opportunità di parlare con una figura competente in grado di aiutarli.

Personalmente ho cercato negli anni di farmi forza partecipando ad alcune attività e tenendomi impegnato, come ad esempio, lavorare nella redazione del giornale del carcere. La prima cosa che faccio comunque è parlare con questi compagni detenuti che hanno problemi di depressione e cercare di essere loro d’aiuto e questo metodo, devo dire, l’ho appreso facendo un percorso di Peer support nel carcere di Opera insieme al Dott. Aparo.

  • Alessandra
    Intanto, trovo assolutamente legittimo che Cristian si ponga queste domande. Non mi piace l’approccio di chi risponde ad una persona che si trova a vivere uno stato d’animo drammatico: “Ma sì, non ci pensare, vai avanti”.  Con ciò, non voglio affermare che Luca abbia avuto un atteggiamento irrispettoso nei confronti di Cristian perché gli ha posto una domanda in buona fede, cercando di fargli spostare lo sguardo, ma in quel momento si vedeva che Cristian aveva bisogno di condividere il suo dramma.

Anzi ringrazio Cristian perché penso che ci voglia anche un gran coraggio, mi vien da usare questo termine anche se forse non è corretto, a parlare dei propri stati d’animo, così delicati, di fronte praticamente a degli estranei perché, mi pare di capire che, a parte loro due (Giuseppe e Carmine), non credo tu abbia legami profondi con altri dei presenti e vedi noi membri del gruppo per la prima volta.

  • Cristian
    Infatti, io mi sento fottuto e vivo il carcere solo come una punizione attualmente.
  • Aparo
    Ludovica cosa hai notato da quando è cominciato il gruppo?
  • Ludovica
    Ho notato che è un gruppo molto eterogeneo, pochi membri che conoscono già il Gruppo, sono più numerosi i nuovi. Mi domando se non potremmo continuare a farci queste domande qui al gruppo, non tanto per psicoanalizzarci, ma piuttosto perché potremmo darci tutti degli strumenti per migliorarci. Chiedo a Cristian: “Ci sarà qualcosa che ti farebbe stare meglio, nel senso di farti sentire almeno libero di mente, inoltre, ci sarà un motivo per cui vieni qui?”
  • Cristian
    Oggi vengo qui al gruppo per cercare di evadere da questi pensieri. Mentre prime, nel 2019, partecipavo al gruppo perché avevo un obiettivo e avevo uno scopo.

Forse la morte di mia madre, avvenuta un anno fa, mi ha dato il colpo di grazia perché mi ha dato una sensazione di abbandono totale. Oggi le mie paure sono tante e sono aumentate rispetto al passato. Se domani ipoteticamente mi dicessero che mi hanno concesso il reato continuato (che poi è proprio ciò che desideravo), io non lo so cosa fare perché a qual punto potrei addirittura accedere a delle attività lavorative all’esterno, ma ho paura, forse preferirei andare in un centro assistenza, non lo so, non so più cosa desidero. Ho bisogno di ricostruire le mie basi, sono pieno di pensieri negativi.

  • Aparo
    Non si diventa uomini soltanto imparando a parlare, ma occorre anche imparare ad ascoltare. Abbiamo iniziando questa riunione parlando del più e del meno, di quale carcere fosse meglio, Bollate, Opera, ecc., adesso stiamo parlando di cose impegnative e responsabilizzanti.

Giuseppe Leotta mi ha convinto a fare il gruppo della trasgressione anche qui al primo reparto e, facendolo, si è assunto una responsabilità.

Ho sentito ciò che ha detto Cristian: genuino, autentico, senza coperture. Non è che gli altri parlino sempre con le coperture dell’ipocrisia addosso, ma si sa che ognuno, dentro e fuori dal carcere, riveste le proprie insicurezze con una sorta di scorza o di corazza, per proteggersi perché con la pelle scoperta si è più esposti.

Sono contento che Cristian abbia parlato e non ho paura che si suicidi. Allo stesso tempo capisco che lui ha la vivida consapevolezza di essersi fottuto con la droga. Le altre persone, ad eccezione di Emanuele che si è fottuto col gioco d’azzardo, non parlano di questa sensazione così vivida come lo fanno loro.

  • Filippo
    Non l’ho esposto ad alta voce, ma anche io mi sento così. Io ho fatto una cosa gravissima, un omicidio, quindi ho fottuto e fatto del male ad un sacco di persone, prima di tutto ai famigliari della mia vittima, poi alla mia famiglia, a mia moglie, ai miei figli. Personalmente, a differenza di lui, cerco di farmi forza con il lavoro, sono arrivato in questo carcere con l’obiettivo di lavorare.
  • Aparo
    Bene, lei, per dire ciò che ha appena detto, si è appoggiato a ciò che ha detto Cristian. E questo dimostra che è utile ascoltare prima di tentare di consolare o di distrarre dal problema. Cristian ha messo sul tavolo la cosa che vive in maniera pesante, netta, vivida, la sensazione di essersi fottuto. La madre è morta, il padre era morto anni prima, la moglie si è allontanata e di conseguenza ha allontanato i propri figli, quindi lui afferma: “Non è che avere l’acqua calda in carcere mi dispiaccia, ma non è questo ciò che voglio. Ho bisogno di mettere le basi per costruire. Se mi mettono al continuato, ok grazie che sono fuori, ma io non ho nulla fuori”. Questo lui lo sa, ma è bene, quando è così, che abbiano il coraggio di riconoscerlo anche gli altri.

Prima dicevo che per diventare uomini non occorre solo imparare a parlare, ma occorre anche un grembo, ovvero la capacità di accogliere. Lei, Luca, ho notato che è troppo maschio, soverchiava Cristian con le sue domande. Lui (Cristian) aveva bisogno di parlare. Se uno ti dice che sta male, tu devi avere il coraggio di ascoltarlo, perché nel momento in cui lui ti sta parlando di sé, della sua umanità, sta parlando anche della tua umanità e tu devi avere l’umiltà di accoglierla.

Giuseppe Leotta ha imbandito la tavola, ha voluto fortemente che si facesse il Gruppo della Trasgressione anche in questo reparto, ci ha accolto perché con i mezzi che aveva a disposizione e all’interno della situazione e dei limiti e dell’ambiente particolare in cui troviamo, lui ha fatto diventare questo luogo un grembo.

Il carcere è un luogo dove si soffre e siamo d’accordo sul fatto che spesso non vengano offerti degli strumenti adeguati, anche se qui a Bollate ci sono delle condizioni migliori che in altri istituti penitenziari (questa stanza ne costituisce un esempio).

Io ho iniziato la mia carriera in carcere litigando col direttore perché nella stanza in cui lavoravo c’erano 13 gradi e congelavo dal freddo e, alla mia richiesta che ci fosse una temperatura adeguata dove lavoravo, il direttore replicava di mettermi un maglione di lana in più.

Bisogna servirsi di ogni strumento che abbiamo per costruire, e occorre che le persone imparino a costruirsi e a salvarsi poiché in questo momento l’Istituzione non è ancora in grado di farlo in modo adeguato, non è in grado di fare ciò che ha fatto Giuseppe, che ha fatto diventare casa una stanza qualsiasi.

  • Michele
    Quindi si può affermare che l’istituzione non ha percepito bene il suo compito?
  • Aparo
    L’Istituzione non ha ancora identificato gli strumenti per realizzare quello che dichiara di volere.
  • Giuseppe Leotta
    Devo dire prima di tutto che Carmine mi ha sostenuto nell’idea di voler fare questo Gruppo anche qui in questo reparto. Le persone sono convinte che questo carcere è il migliore, che qui è tutto più bello, ma non è così chiaramente. Vi dico solo che chi lavora nell’area industriale è il 10 % della popolazione attualmente qui detenuta poiché siamo in circa 1300 detenuti. Per cui, se non facciamo il Gruppo non siamo impegnati e non abbiamo nessuno stimolo. Ciò che ha detto Cristian è sacrosanto. All’interno di questo gruppo, possiamo condividere le nostre esperienze e prendercene cura. Creare qualcosa è molto utile perché ci può portare a fare esperienze diverse rispetto al passato.
  • Luca
    Effettivamente mi scuso con Cristian perché mi sono reso conto, come ha detto lei Dottore, che non l’ho ascoltato. Io volevo solo dire che lui potrebbe iniziare a domandarsi che obiettivi ha o quali vuole raggiungere.
  • Detenuto
    Io sono scappato da Opera, sono detenuto dal 2009 e Bollate è la mia ultima spiaggia. Qui mi sono un po’ ripreso, ho ricominciato a vivere. Tutti abbiamo i nostri problemi fuori, ma penso che dobbiamo reagire, penso che dobbiamo metterci in gioco e farci conoscere.
  • Giuseppe Leotta
    Se però non ti impegni in qualcosa, non ti farai mai conoscere da nessuno. Qui magari tu percepisci meno rigidità, ma non è così e comunque se non fai niente tutto il giorno, sei spacciato.
  • Michele
    Anch’io mi sento come Cristian. Mi sento che mi serve un’àncora per non farmi travolgere dalle onde. Penso che dobbiamo sfruttare ciò che ci viene offerto. Il problema però non è quando usciamo, ma è ciò che ci portiamo fuori quando usciamo dal carcere. Ci dobbiamo portare fuori qualcosa che ci serva per costruire perché è questo che ci può aiutare.
  • Luca
    A me piacerebbe andare a parlare nelle scuole perché io mi sento un esempio che potrebbe essere studiato dagli studenti di psicologia come voi o da altri studenti. Ho fatto una riflessione, ad esempio, sul significato che può avere il termine “trattamentale”. Non credo che la parola “trattamentale” sia adeguata in questo contesto perché mi fa sentire come una cavia che deve essere analizzata e curata. Trovo che sarebbe più appropriato aggiungere: Area EDUCATIVA e trattamentale”.

Come lo stato si è impegnato nella lotta contro la mafia, si dovrebbe impegnare con altrettanto zelo a portare nelle scuole noi detenuti. Per esempio, l’abuso di cui parlavo prima, l’ho vissuto da parte dell’educatore con il quale ho avuto il colloquio, che non ha fatto altro che approcciarsi a me con il proprio pregiudizio davanti e non andando oltre, io non lo accetto.

  • Aparo
    Non so se la scuola che dovrebbe entrare qui a Bollate giovedì otterrà il permesso, ma in ogni caso è previsto che entrino delle scuole.

Adesso voglio parlare della depressione. La depressione mi piace perché è cosa diversa dall’euforia del coglione o dalla sensazione di onnipotenza che ti può regalare la cocaina o il correre a 300 km/h in auto. La depressione, infatti, ti restituisce il tuo fallimento, ti porta a riflettere su ciò che hai fallito o che non hai portato a termine. Nella depressione hai anche dei momenti di lucidità perché ti senti responsabile di ciò che hai perso o che non sei stato in grado di costruire. La depressione è dolorosa, ma è portatrice di consapevolezza. Da questo punto di vista la depressione è un trampolino di lancio per costruire il proprio futuro.

Fino a quando uno si sente un supereroe non ha un buon punto di partenza. Invece, la depressione, per quanto sia doloroso viverla, ti indica una base su cui poter costruire.

Inoltre, per costruire servono degli alleati, un individuo può sceglierli buoni oppure no, ma rimane necessario avere degli alleati per poter costruire.

Le morti di tua madre e di tuo padre non sono avvenute per causa tua; vero è che ti sei fottuto con la droga e che con il tuo comportamento hai fatto allontanare tua moglie e, di conseguenza i tuoi figli. Adesso ti tocca costruire in modo da farli riavvicinare, a meno che tu non abbia deciso che sei una cacca oggi e per sempre.

I tuoi figli, ma anche i figli in generale, non hanno la possibilità di poter liquidare del tutto i propri genitori, anche quando li odiano, rimangono in attesa che i loro genitori risorgano. É come se il figlio non potesse diventare adulto, se non recupera il rapporto col padre.

È vero che lei, Cristian, ha fatto in modo che i suoi figli si allontanassero da lei con il suo comportamento, ma è anche vero che c’è la possibilità di recuperare un rapporto con loro e che spetta a lei questo compito. A tale scopo, è utile, anzi necessario che non si suicidi e poi che iniziamo insieme a costruire.

Verbali

 

Verbale 21/04/2022

Verbale riunione Gruppo 2° Reparto Bollate
di Alessandra Cesario

  • Aparo
    Questa è la terza riunione del gruppo qui al 2° reparto e siamo un po’ tutti relativamente nuovi. L’idea è quella di far ripartire il Gruppo qui a Bollate e poi, una volta che la situazione Covid si sarà tranquillizzata, ci si potrà riunire insieme a detenuti di altri reparti, così da giungere a un gruppo unico nell’area trattamentale.
  • Ludovica
    Vorrei chiedere ai detenuti presenti cosa si aspettano da un gruppo come il nostro. Non so, ad es., non avevate altro da fare? Vi aspettate di cambiare? Altro?
  • Aparo
    Non è semplice rispondere a questa domanda perché, a parte Alessandra e Giovanbattista, quasi tutte le persone qui presenti, compresi gli studenti, sono nuovi al gruppo e non sanno come funziona.
  • Massimo
    Sono dell’idea che non è il gruppo che cambia le persone. Si può imparare e acquisire qualcosa da chiunque, anche dall’uomo che si considera magari il più primitivo. Dal confronto con gli altri capiamo chi siamo. Sta poi a te cambiare. È sicuramente meglio stare qui che starsene in cella. Magari dal confronto con le altre persone, ci si rispecchia anche nelle vicende di altri.
  • Leandro
    Sono qui per un arricchimento personale. Voglio studiare, voglio sfruttare al massimo tutte le opportunità che mi si presentano e non sprecare il mio tempo.
  • Massimo
    Invece di buttare il tempo preferisco stare qui, altrimenti me ne starei sdraiato sulla branda a continuare a parlare di carcere. Comunque lo faccio per me, non per dimostrare qualcosa a qualcuno. Già in carcere l’istituzione non ti offre tanto, ma visto che ora ho del tempo a disposizione preferisco essere qui. Vieni qui anche per non farti schiacciare dai pensieri, evadere dalla noia e intanto imparo anche delle cose nuove.
  • Michele
    Inizialmente sono venuto per distrarmi, per curiosità, poi però mi sono sentito coinvolto dai discorsi che abbiamo fatto.
  • Aparo
    E tu Ludovica perché non rivolgi a te stessa questa domanda, perché sei qui?
  • Ludovica
    Per quanto mi riguarda, non sono una tirocinante, ma tutto è partito dal fatto che sto scrivendo una tesi sulla devianza e mentre cercavo spunti per la tesi sono incappata nel vostro sito e ho voluto conoscere questo gruppo e il vostro lavoro per capire e approfondire la materia. Poi, man mano che sono andata avanti a conoscere, mi sono appassionata al progetto del gruppo. Tra l’altro, devo dire che all’esterno spesso c’è un forte pregiudizio nei confronti dei detenuti ed io non sapevo cosa aspettarmi e invece sono rimasta proprio colpita e mi sono proprio commossa durante gli incontri del gruppo all’esterno ad ascoltare le esperienze di persone, che sono state detenute come voi. Tra l’altro mi sono chiesta come avevano fatto a diventare così belli e mi sono appassionata alla causa.
  • Massimo
    Per me non esistono persone solo cattive o persone solo buone perché anche persone all’apparenza del tutto innocue possono rivelarsi poi malvagie. Ti faccio l’esempio del mio vicino di casa con il quale non avevamo mai avuto grosse discussioni, se non magari ogni tanto per il parcheggio. Un giorno mi sono ritrovato in auto con la mia famiglia, mia moglie ed i miei figli e quando ho schiacciato il freno, ho realizzato che il pedale schiacciava a vuoto e non funzionava più. Per fortuna non è successo nulla di grave, ma mi ha fatto riflettere sul fatto che gli uomini malvagi possono essere anche fuori e non solo in carcere o pregiudicati.
  • Aparo
    Credo che la commozione – che si verifica quando uno sente qualcosa di particolarmente coinvolgente- tu non l’abbia provata perché di fronte a te c’erano delle persone particolarmente nobili o sensibili, ma per delle particolari circostanze che ne hanno esaltato la sensibilità. Ci si aspetta che i detenuti siano persone prive di sensibilità; e così, se un detenuto dice una cosa profonda, ci si sorprende e ci si intenerisce come quando si constata che anche gli animali feroci si prendono cura dei loro piccoli. Tu in carcere non hai trovato delle persone particolarmente belle, ma delle persone che in specifiche circostanze, attorno a un tavolo di discussione, sono riuscite ad esprimere le parti belle che avevano recuperato dentro di sé; non è strano che, a seconda delle circostanze, l’essere umano dia il meglio o il peggio di sé.
  • Leandro
    Secondo me dipende anche dalle diverse circostanze della vita. Puoi coltivare sentimenti diversi dentro di te, che possono fare di te un buono oppure un cattivo.
  • Ludovica
    Alla fine, si può dire che mi sono commossa perché partivo da un pregiudizio. Mi è successo anche in un altro gruppo, dove c’erano persone che erano state maltrattate o bullizzate a causa del loro orientamento sessuale, di conoscere delle persone che avevano un vissuto particolare e che si sono rivelate alla fine delle persone migliori.
  • Aparo
    Sprecherei 43 anni di esperienza in carcere se non evidenziassi che la persona che ha dato il peggio di sé, magari per 20 anni di seguito, se messa nel contesto giusto, con i giusti stimoli, può diventare una persona sensibile. La responsabilità della politica, della società tutta, soprattutto delle persone che hanno avuto la possibilità di studiare e di crescere in un ambiente sereno e accogliente, dovrebbe essere quella di costruire una società in cui anche l’uomo che ha dato il peggio di sé possa essere messo nelle condizioni di rintracciare ed esprimere il meglio di sé. Realizzare questo è difficile, ma è necessario ed è possibile fare in modo che le persone trovino le condizioni per dare il meglio di sé spontaneamente e non perché controllate dall’esterno. Chi si occupa seriamente di questa materia deve tener conto del fatto che le persone che tu hai definito e trovato “belle “, sono gli stessi individui che dopo aver commesso un omicidio brindavano con lo champagne. Acquisito che è possibile passare da una condizione all’altra, è importante per chi si occupa di devianza chiedersi come si fa a promuovere questa evoluzione.
  • Ilaria
    A me viene da fare una domanda Prof. Mi chiedo: ma quindi siamo tutti capaci di commettere reati, anche io, quindi cosa dobbiamo fare, li giustifichiamo? Sono delle vittime? È sfortuna?
  • Aparo
    Intanto la risposta alle tue domande è: sì, siamo tutti potenzialmente capaci di commettere reati, ma no, non li giustifichiamo e non sono vittime.
  • Fabrizio
    No, non siamo da giustificare, ci siamo contornati di presupposti sbagliati che ci hanno portati a fare scelte sbagliate.
  • Michele
    Puoi partire dalla scelta in realtà, se io posso fare del male, allora posso avere delle conseguenze.
  • Aparo
    Vorrei evidenziare che mentre tu (Ilaria) stai sottolineando com’è possibile arrivare a fare del male, lui (Michele) sottolinea il fatto che, se fa del male, può pagarne le conseguenze. Ciò avviene perché tu Ilaria sei cresciuta con il tabù del fare male agli altri, lo hai interiorizzato come una cosa che non si fa, mentre lui no. A seconda delle circostanze, uno può essere indotto ad allenare la propria voglia di costruire o la propria mediocrità. Ci sono delle persone che sono cresciute in condizioni nelle quali tradire o prendere delle scorciatoie è normale e altre per le quali tradire gli altri richiede prima un allenamento, fino a che il tradimento e l’abuso non diventano una cosa naturale. È così che si diventa nazisti.
  • Massimo
    A me ha fatto riflettere un film che ho visto, nel quale il protagonista diventa un assassino dopo che ha subito un evento traumatico, ovvero lo stupro e l’omicidio della sua compagna incinta e poi lui per reazione inizia a cercare i responsabili e li uccide uno ad uno.
  • Alfonso
    È la situazione che si crea intorno che conta quando uno fa del bene o del male, ad es., una persona in difficoltà può scegliere ed io ho scelto di fare del male per fare la bella vita.
  • Aparo
    E l’ha fatta, la bella vita?
  • Alfonso
    No. Finora no. Però sfido chiunque con 800 euro al mese a campare una famiglia di quattro persone; è per questo che la maggior parte delle persone sceglie di fare la cosa sbagliata. Se invece uno guadagnasse una cifra adeguata a poter vivere tranquillo, ci penserebbe due volte.
  • Michele
    Io ho deciso di fare la cosa sbagliata perché volevo arrivare per primo, ma anche perché volevo offrire un futuro migliore ai miei figli ed evitargli preoccupazioni.
  • Aparo
    Tanto per cominciare, non è vero che quando uno commette reati lo fa per il benessere dei propri famigliari. Un capitolo a parte riguarda il fatto di “arrivare prima degli altri”. Arrivare dove? Ad esempio, Ilaria, che ha come obiettivo la laurea, non ci può arrivare prima e non ne ha bisogno. I vostri due obiettivi sono completamente diversi, lei non vuole lo yacht, la casa di lusso; Michele, invece, si è convinto che il suo obiettivo fosse arrivare in breve ad avere soldi. Bisogna capire come ciascuno di noi si convince che i propri obiettivi siano di un tipo invece che di un altro.
  • Fabrizio
    Perché realmente non avevamo obiettivi.
  • Aparo
    Ci si deve domandare: com’è possibile che uno, a 14 anni, prende come obiettivo la BMW e un altro non la considera per nulla. Bisogna chiederselo!
  • Michele
    Io mi sentivo un coglione a non avere i soldi. Quindi, quando mi hanno proposto di portare una valigia con la droga in cambio di duemila euro ho accettato.
  • Leandro
    Ci sono ambienti diversi in cui si cresce.
  • Aparo
    E ti sei mai chiesto coma mai per essere TE avevi bisogno di soldi e lui no? Come mai sei cresciuto con quel desiderio? Forse perché sei cresciuto in un ambiente in cui non hai coltivato l’ambizione di trasformare il mondo.
  • Alfonso
    Per me non è così. Io sono qui perché mi sono ritrovato coinvolto in una situazione, poi che mi piacesse fare quello che facevo è un altro conto.
  • Aparo
    Certo che se a 14 anni l’obiettivo è avere la BMW allora sei spacciato.
  • Michele
    Io, per esempio, a 14 anni lavoravo nei mercati e davo i miei soldi in casa a mia madre, da grande non volevo far vivere ai miei figli la mancanza di soldi che avevo vissuto io da piccolo, quindi mi sono messo a spacciare. Ora però non do la mia presenza ai miei figli.
  • Aparo
    Secondo te perché lui si è messo a studiare? Perché è brutto, sfigato? Non vi viene mente di chiedere agli studenti del gruppo quali sono i loro obiettivi e perché?
  • Francesca
    In realtà non è sempre stato chiaro l’obiettivo da raggiungere nella mia testa. Sono cresciuta in una famiglia umile e sicuramente l’ambiente in cui sono cresciuta ed i miei genitori mi hanno aiutato a capire che studiare mi avrebbe portato ad avere più soddisfazioni, nonostante fossi circondata da coetanei che avevano più possibilità economiche della mia famiglia e questo, a volte, mi ha creato conflitto. I miei genitori sono stati fondamentali nel farmi capire che i veri valori sono altri e che i soldi e l’apparenza non sono tutto, però ci ho messo anche del mio. Ho capito che ero circondata da persone superficiali.
  • Leandro
    Io, ad esempio, ho perso mio padre quando avevo 3 anni e sono sempre stato solo, nessuno mi ha accompagnato nel capire le cose o me le ha spiegate. Tu invece avevi qualcuno che ti ha supportato.
  • Michele
    L’ambiente però ti può portare anche a questo.
  • Aparo
    Gli studenti, in qualche modo, hanno il tabù che “non si può fare del male agli altri”. Certo che questo valore te lo deve trasmettere qualcuno che ai tuoi occhi è credibile. Tu, Francesca, che affermi di aver vissuto il conflitto, come lo hai risolto?
  • Francesca
    I miei genitori sono stati una guida. Mio padre e mia madre mi hanno fatto capire che non era vitale essere circondati dal denaro.
  • Camilla
    Sono tantissime le situazioni che ti portano a commettere reati. L’importanza dell’avere una guida credibile fa tanto. Personalmente vorrei essere una persona che può fare del bene e arrivare in punto di morte e poter dire che ha avuto senso essere stata me e aver fatto del bene a qualcuno e ha avuto senso arrivare fino a qui. Vorrei poter vivere con il conforto di fare qualcosa di buono, potendo essere fiera di me stessa.
  • Aparo
    Da questo punto di vista lei è fortunata ad essere cresciuta in un ambiente in cui un valore di riferimento era l’essere fieri di aver fatto qualcosa di buono.
    Lei, Michele, è lodevole che abbia messo da parte dei soldi per i suoi figli, ma penso che le causi un certo conflitto dire ai suoi figli che li ha messi da parte spacciando. Si potrebbe chiedere agli studenti: ma tu preferisci che tuo padre ti metta in tasca cento euro oppure essere fiero di lui? Leonardo che dici tu?
  • Leonardo
    In realtà io non ho un buon rapporto con mio padre, adesso lui vive anche lontano in Belgio e per mia scelta ho deciso tempo fa di allontanarlo dalla mia vita.
  • Aparo
    E tu, Ilaria?
  • Ilaria
    Anch’io non ho un buon rapporto con mio padre, ma non ne voglio parlare e non riesco a parlarne, mi vien da piangere.
  • Francesca
    Mio padre mi ha indirizzato. Mi ha detto segui le tue passioni e fai le cose fatte bene perché così poi potrai farti valere nella vita.
  • Ilaria
    Le mie guide comunque sono state mia madre, mia nonna e mio zio e se sono orgogliosa di me oggi, lo devo soprattutto a loro.
  • Giorgio
    L’altra volta si piangeva da questa parte del tavolo, quindi non temere se ti viene da commuoverti. Qui si riesce a confrontarsi, anche a differenza di ciò che accade all’esterno fuori da qui, perché ormai non ci si ascolta più. L’altra volta si parlava di obiettivi che l’istituzione non aiuta a raggiungere perché non chiede nulla ai detenuti. In una società dove ormai le persone non comunicano più, mi aspetto che qui dentro, all’interno di questo gruppo, dato che non bisogna apparire, ci sia la possibilità di condividere.
  • Alessandra
    Sono rimasta molto colpita dalle parole di Michele, quando ha affermato che lui ha scelto di delinquere per fare in modo che i suoi figli non dovessero soffrire le difficoltà economiche che aveva affrontato lui da piccolo per metterli da parte dei soldi.
    Io sono arrivata al gruppo come studentessa di giurisprudenza, ma ho condiviso col gruppo anche la mia personale esperienza che è quella di essere la figlia di un uomo che si è ritrovato recluso come voi oggi. La detenzione di mio padre non è durata a lungo fortunatamente ed è avvenuta nella fase delle indagini e comunque non hanno importanza i dettagli della mia storia, ma vi posso assicurare che ho vissuto in prima persona tutte le difficoltà che comporta il vivere questa situazione da figlia. Quando mio padre è stato arrestato avevo 17 anni e comunque dentro di me è cresciuta una rabbia che ho impiegato anni ad elaborare. La mia testa era piena di domande alle quali gli adulti non erano sempre in grado di rispondere. Poi mi sono iscritta a Giurisprudenza perché volevo capire come funzionava la macchina della giustizia da dentro, volevo capirne i meccanismi e poi sono approdata qui in questo gruppo forse per continuare a capire e capire anche mio padre. Io ho un ottimo rapporto con lui – lo avevo anche prima – ma abbiamo dovuto fare un percorso insieme, lui ha dovuto ricostruirsi come uomo prima e poi come padre.
    Posso dire però che nella mia vita sono stata fortunata perché comunque ho avuto dei grandi punti di riferimento credibili ai quali guardare e ai quali mi sono affidata, in primis, mia madre e poi un insegnante che mi ha sostenuto in quel periodo e che ancora oggi è un amico. Inoltre, sono cresciuta in un ambiente in cui sono stata voluta bene, mi è stato insegnato che io avevo un valore e che c’erano persone che tenevano a me. Oggi che sono anche madre di due bambini, sento la responsabilità di perseguire i miei obiettivi che non sono obiettivi che si raggiungono coi soldi, ma sono obiettivi che mirano a farmi dare il mio contributo nel mondo.
    Se avessi potuto, avrei chiesto a mio padre di inseguire meno il prestigio economico e di concentrarsi su altri obiettivi, ma alla fine mi consola il fatto che questa esperienza ha portato nella mia vita anche altri punti di riferimento che oggi ritengo fondamentali per me.
  • Giovanbattista
    Io, come tanti di noi, ho avuto una crescita abbastanza regolare, fino a che non ho deciso di ritirarmi da scuola e di andare a lavorare, tutto ciò l’ho sempre fatto circondato da un contesto criminale. Fino a 28 anni ho condotto una vita abbastanza regolare, poi è successo qualcosa che ancora non riesco a definire che mi ha cambiato e sono finito a fare uso di cocaina e da lì sono iniziati i problemi. Ho venduto il negozio perché non avevo più la testa di fare andare avanti l’attività, ho iniziato a fare rapine, fino a che non ho commesso anche un omicidio. Ero in carcere da 15 anni, poi sono uscito circa un anno fa e mentre ero fuori dopo un anno e mezzo sono ricaduto nella stessa spirale negativa e sono ritornato di nuovo in carcere. Al gruppo sono venuto per curiosità e sono venuto per capire anche perché ho iniziato a fare reati.
  • Aparo
    La volta prossima approfondiremo la cosa. Giovanbattista ha detto che è cresciuto in un ambiente in cui il reato era ad ogni angolo della strada. Ma se approfondiamo la questione, scopriremo che conta molto anche il rapporto coi propri genitori. L’abuso che si commette ai danni di qualcuno corrisponde al trasferimento sul malcapitato di un abuso o di un tradimento che si sente più o meno consapevolmente di aver subito. Se tu nella tua testa ti senti tradito da tuo padre, allora uno dei modi che hai per fargliela pagare è commettere reati.
    Per la prossima volta vorrei recuperare una poesia di Giovanbattista. Questa poesia parla di un’offesa verso suo padre e di un suo dolore. Tante volte le offese subite e quelle fatte si impastano e creano nebbia nella mente e, intanto che vivi nella nebbia, continui a offendere gli altri e te stesso. Quando ci si droga si vive col bisogno di offendere sé stessi e chi ti ama, o la persona dalla quale ti aspettavi amore e hai ricevuto altro; è come se volessi dire ai tuoi genitori: io me ne fotto di chi avete messo al mondo, visto che per voi non valgo niente, non valgo niente nemmeno per me e pertanto vado alla deriva. Comunque, è un discorso complesso che affronteremo un’altra volta.

Verbali

Castelli di sabbia

Verbale da Bollate, 17/11/2016
Roberta Rizza

Alla riunione di oggi al carcere di Bollate è stato ripreso il discorso già affrontato il giorno prima al gruppo di Opera, in cui il dott. Aparo chiedeva una riflessione sulla storia di due bambini che giocano insieme e, una volta adulti, uno intraprende la vita criminale e l’altro, invece, diventa un adulto responsabile.

Quasi tutti i partecipanti si sono impegnati per dare una risposta. Ognuno di loro ha raccontato un pezzettino della propria vita, momenti dell’infanzia o dell’adolescenza che hanno spinto a intraprendere la vita criminale.

Personalmente, sono rimasta colpita dall’intervento di Ivan Puppo, il quale diceva che da bambino non aveva mai costruito castelli di sabbia e che, invece, si divertiva molto a distruggere quelli degli altri. Così da grande ha continuato a non costruire nulla, né castelli di sabbia né sogni e neanche progetti, continuando a distruggere tutto ciò che potesse avere una parvenza di sogno.

Il dott. Aparo, rispondeva soffermandosi sul concetto di identificazione con l’altro. Cosa fa sì che l’altro diventi nella testa del bambino nemico o amico? L’identificazione ha origine durante la prima infanzia nel rapporto con i modelli di riferimento. La presenza di un modello di autorità credibile, che funga da guida nella vita del bambino, è un passo necessario affinché egli, una volta adulto, possa richiamare alla memoria quel modello interiorizzato.

Il bambino che costruisce un castello di sabbia ha bisogno di un adulto che riconosca il suo lavoro, che lo valorizzi e che lo aiuti a costruirne una storia. Una figura di riferimento sufficientemente buona aiuterà il bambino a scoprire quali sono i suoi strumenti, le risorse che saranno utili nelle situazioni avverse; genitore e figlio coltiveranno insieme queste risorse fino a che il bambino non riuscirà a utilizzarle autonomamente.

Il bambino a cui viene distrutto il castello di sabbia dal genitore stesso, sarà un bambino che ricercherà continuamente un riconoscimento anche, e soprattutto, sbagliando, osando e abusando. Questo bambino si troverà sempre a doversi confrontare con una realtà di cui non si sente all’altezza, in cui deve dimostrare costantemente di essere più forte, di potercela fare con i pochi strumenti che ha a disposizione.

Nel caso di eventi frustranti, come quando l’onda spazzerà via il castello che ha costruito con i suoi sforzi, ricorrerà a quelle poche e scarne risorse che ha acquisito nella relazione con l’altro; il risultato sarà di fatto diverso da quello di un bambino che trova accanto a sé il papà che lo aiuta a rimettere su un altro castello e una nuova storia.

Inoltre chi, a causa della carenza di affidabilità delle figure di riferimento non ha interiorizzato un modello credibile, si ritroverà già in adolescenza a scontrarsi con tutte le forme di autorità che incontrerà, sviluppando comportamenti devianti e antisociali.

Accade spesso che il genitore detenuto, pur di non rendersi colpevole agli occhi del figlio, racconti al bambino/adolescente di essere in carcere a causa di un errore, di un’ingiustizia da parte delle istituzione. Il bambino ne ricaverà che il suo modello di autorità è stato vittima di un complotto di un’autorità vessatoria e carnefice; dunque il papà rappresenterà la forma di autorità buona e da seguire, mentre le istituzioni e la legge sarà l’autorità cattiva da cui distanziarsi.

Il mondo di Sisifo

Verbale da Bollate, 01/12/2016
Il mondo di Sisifo, Vittoria Canova

La giornata di giovedì è iniziata con l’incontro del Gruppo della Trasgressione al reparto femminile. Il professor Aparo ha spiegato a studenti e detenute che si cercherà di aggiornare lo spettacolo teatrale del Sisifo, prendendo ispirazione da un testo prodotto da un detenuto.

Francesco Leotta, poco dopo aver saputo di avere ottenuto l’affidamento sociale, ha scritto un dialogo tra Sisifo e il masso introducendo nuovi concetti. Da questi si è pensato di dipingere Giove in parte come un personaggio reale e in parte come una proiezione di Sisifo. Questo perché si vuole rendere l’idea che ciascuno di noi cerca all’esterno persone con le quali rivivere esperienze del proprio passato e relazioni rispondono ai modelli più o meno problematici che si hanno dentro.

In questo dialogo si fornisce una visione del personaggio di Giove che recupera una delle idee iniziali del lavoro su Sisifo. Il capo dell’Olimpo viene delineato come una sorta di capo mafioso. Inoltre, si allude a una vecchia alleanza tra Sisifo e Giove… quando Sisifo era una pedina dei giochi di Giove che cercava di salire nella gerarchia del potere. Giove seduce Sisifo con la promessa del potere ottenendo in cambio dei servizi, ma quando non ha più bisogno di lui se ne libera attraverso la famosa condanna del masso (analogia con le organizzazioni criminali).

Emerge sempre in modo più chiaro che il vero peccato di Sisifo è l’arroganza, la smania di salire al vertice del potere. La condanna (in realtà la vendetta) di Giove, pertanto, diventa l’esito che Sisifo cerca già di suo come risposta alle sue fantasie di onnipotenza.

masso

A questo punto Ilaria interviene chiedendo cosa succederebbe se Sisifo decidesse di non spingere il masso. Ne nasce un dibattito, Ilaria e Angela, un’altra detenuta, sostengono che loro non avrebbero spinto il masso.

Il prof. Aparo interviene dicendo che la pena del masso va considerata come la parte finale del dipanamento di una matassa che, anche prima di essere svolta, contiene al suo interno, come per un genoma non ancora attualizzato, l’intero percorso di quello che per i Greci è la übris, cioè la sfida alla divinità e il fallimento del tentativo di cambiare il proprio status di essere mortale.

lumacasfondo

 

 

Sisifo, di Sofia Lorefice
Ci fu ‘na vota u suvranu ri Corintu,
ca nunn’avia acqua pa so’ ggenti
appi a pinzata ‘i futtilla a nu diu
l’acqua a ttruvau ma iddu si piddiu
In altre parole – continua il prof. Aparo – chi fantastica di poter porre fine alla condanna del masso cerca un’impossibile via di fuga dal loop già integralmente scritto sul ciclo dell’arroganza dell’uomo (vedi ad es. il mito di Icaro).

Gli interventi successivi si sono sviluppati in risposta a una domanda di Ilaria sul confine fra “Libertà e Schiavitù”. Ilaria chiedeva se fosse possibile fare qualcosa prima con un senso di costrizione e poi per libera scelta. Ilaria, per spiegarsi in modo più efficace, propone un esempio: lei si sente quasi costretta a lavarsi e pettinarsi i capelli prima di partecipare al gruppo. Ma è possibile prepararsi con la stessa cura, per libera scelta?

Ognuno dei presenti è intervenuto cercando una risposta. Ad esempio una detenuta, Natalie, ha raccontato che lavarsi i capelli, pettinarli e truccarsi sono gesti che lei fa per se stessa e per stare bene in mezzo ad altre persone; in precedenza tendeva a trascurarsi, ora questi gesti la fanno sentire bene.

Nel pomeriggio è seguito l’incontro del gruppo maschile. Nuovamente il prof. Aparo ha esposto l’ipotesi di modificare alcuni dialoghi di Sisifo e di introdurre una scena con un antefatto per descrivere la vecchia alleanza tra Sisifo e Giove.

In seguito un detenuto ha preso parola, ha raccontato brevemente la sua storia e ha ringraziato il dott. Aparo sostenendo di sentirsi più consapevole di se stesso e più sereno. Inoltre ha raccontato due sogni molto lunghi e ricchi di immagini, personaggi e scenari.

Un’immagine significativa è quella in cui egli dialoga con bambino prevedendone il futuro. Un tentativo di tornare in un momento precedente al trauma (in questo caso la separazione dei genitori) e di incontrare nuovamente il bambino che era pieno di potenzialità, che però lui ha ignorato. In questo senso il sogno si collega anche alla storia di Sisifo e Giove, ognuno di noi nella propria vita tende conflittualmente ad ascoltare e a zittire le proprie istanze di libertà e di crescita e, tante volte, a tornare al tempo in cui le proprie spinte vitali e i propri conflitti sono stati accantonati.

Torna all’indice della sezione

Gruppo Trsg Esterno – 18/10/16

Verbale 18/10/16
Roberta Rizza

Gli argomenti discussi durante la riunione del Gruppo della Trasgressione, tenutasi all’ASL di Milano in Corso Italia 52, hanno toccato tematiche differenti e trasversali.

Il primo argomento, più di carattere formativo-educativo, è partito quando il dottor Aparo chiese a una tirocinante quanto facesse 12×12. La domanda, che ha incuriosito un po’ tutti i presenti, ha dato luogo a una riflessione molto interessante. L’interrogativo posto, apparentemente fuori luogo, e soprattutto la reazione della tirocinante, che decise di non rispondere, furono emblematici per il discorso che ebbe vita successivamente.

Con quell’aneddoto il dottor Aparo voleva dimostrare come spesso si tende a fuggire davanti alle difficoltà, sottraendosi alla possibilità di cercare in maniera creativa una soluzione al problema. Inoltre, ciò che con quella domanda cercò di dimostrare fu che non solo i detenuti ricorrono a escamotage e vie di fughe per non dover affrontare il problema, ma che può accadere a qualsiasi essere umano di preferire l’astensione piuttosto che fronteggiare una situazione critica.

Successivamente il dottor Aparo ha raccontato che la mattina precedente alla riunione, aveva avuto un colloquio con un detenuto e che questo si era concluso a causa della medesima domanda, che aveva posto il ragazzo in un atteggiamento difensivo, scegliendo di andare via piuttosto che cercare di risolvere il problema matematico. Il detenuto in questione aveva espresso, durante il colloquio, il desiderio di poter costruire, una volta uscito dal carcere, una nuova vita lontana dall’illegalità e che il suo obiettivo ultimo fosse quello di lavorare onestamente e guadagnare cinque mila euro al mese.

L’osservazione del dottor Aparo spalancò le porte a un’ulteriore riflessione: il voler perseguire a tutti i costi un obiettivo meramente materialistico, distrae e allontana l’uomo dal vero senso della vita e della realtà. Ricercare costantemente e incessantemente attività che portino a un guadagno di denaro, acceca il singolo e lo rende incapace di godere delle bellezze naturali della vita che esulano da ciò che può essere acquistato, come la contemplazione di un campo di margherite, di un tramonto al mare, della profondità degli occhi di un bambino.

Inoltre, il dottor Aparo sottolineò la pericolosità di questo atteggiamento e di come questo si elevi all’ennesima potenza quando ad avere questo “sogno” è un detenuto, condannato per detenzione e spaccio di droga, ovvero un reato che ha di per sé a che fare con il guadagno dei cosiddetti “soldi facili” e che, paradossalmente, davanti al problema matematico risponde fuggendo.

La rieducazione personale e sociale dei detenuti, che si fonda sul concetto di “riscatto”, può aver luogo se a ciascuno è offerta la possibilità di interiorizzare un modello di autorità vicario, credibile rispetto a quello avuto in passato, che preveda a sua volta un cambiamento di prospettiva che vada da “il fine giustifica i mezzi” a “non sempre il fine può giustificare i mezzi”. In un percorso riabilitativo alla legalità proporsi come fine il guadagnare tanto e subito, condurrebbe il detenuto a ricadere in un pattern comportamentale che ha già messo in atto in passato, l’unico che conosce e che lo ha già condotto a trasgredire dalle regole della società in cui vive.

Dunque il messaggio che il dottor Aparo ha cercato di veicolare durante la riunione, fu quello di vivere godendo delle meraviglie offerte dal mondo che ci circonda, anche di quelle più piccole. Imparare a vivere non coincide con l’essere ricchi economicamente; rincorrere il denaro è un pericolosissimo fine che, alle volte, conduce il singolo a ricorrere a mezzi scorretti e sleali. Il messaggio aveva il fine di invitare ciascuno a mettere in discussione i propri obiettivi: uscire dal carcere con il “sogno” di diventare ricco lealmente, oltre che improbabile e difficile, è anche molto pericoloso, in quanto quasi mai si realizza ed è possibile cedere nuovamente a quel vortice di cui, nelle riunioni precedenti, è stato più volte citato dai detenuti stessi, costruendo una sorta di anticamera all’illegalità.

Successivamente è stato affrontato un altro argomento più di carattere organizzativo, che ha visto la partecipazione attiva di tutti i detenuti e non. Giorno 29 Ottobre, il gruppo parteciperà a un evento al parco di Rho in occasione del suo compleanno. L’obiettivo della partecipazione all’evento ha l’obiettivo di far conoscere ai cittadini l’operato della Cooperativa Trasgressione.net e, contemporaneamente, pubblicizzare il lavoro dei detenuti. Durante la riunione è emersa la forte complicità di tutti i partecipanti nei confronti della Cooperativa ma, soprattutto, la forte volontà di ciascun detenuto a essere promotore di se stesso e parte attiva al progetto. Come in un brain storming, inizialmente si è discusso della parte maggiormente creativa, proponendo ciascuno la propria idea rispetto alle attività pratiche da presentare all’evento; successivamente ci si è focalizzati sulla parte organizzativa, dunque sul come mettere in pratica queste idee, quali strumenti utilizzare per renderle quanto più realizzabili e particolari, così da poter catturare l’attenzione dei vari visitatori. L’attività pare aver coinvolto ed eccitato la maggior parte dei presenti, ma il tempo era insufficiente per organizzare il tutto di cui si discuterà alla prossima riunione.

Torna all’indice della sezione

Secchio Bucato, 9-05-2016

Verbale dal Gruppo del Secchio Bucato
Sarah Coco

Iniziamo l’incontro riprendendo il concetto di “visione totalizzante” del tossicodipendente. Il dott. Aparo ricostruisce che il tossicodipendente attua una riduzione della complessità a poche variabili che siano compatibili con il suo panorama emotivo attuale: “…la persona tossicodipendente riduce la gamma delle sfumature della propria esperienza, ponendo al centro di ciò che accade la propria emotività contingente. Ovviamente, questo non vale solo per il tossicodipendente, pur se nel suo caso il fenomeno è accentuato dalla centralità del rapporto con la sostanza, dal fenomeno dell’astinenza e dalla progressiva riduzione di spazio, di relazioni e della gamma di emozioni che la tossicodipendenza causa: un circolo vizioso per cui il tossicodipendente rimane sempre più isolato dai propri sentimenti e dagli altri”.

Il secondo tema riguarda il rapporto operatore-utente:

  • Qual è il pensiero dell’operatore rispetto alla dipendenza da sostanze?
  • Quanto incide il suo stato d’animo nella relazione?
  • Quali sono le aspettative dell’operatore nei confronti dell’utente?
  • Come mai sembra che a volte non ci sia interesse ad avviare una relazione che aiuti la persona con una dipendenza a crescere e a instaurare un rapporto di fiducia reciproca?

Secondo il dott. Sanò, avendo il detenuto tossicodipendente diritto di usufruire delle misure alternative, è legittimo il suo interesse nel cercare di sfruttare ogni possibilità a proprio favore. L’importante è che le intenzioni siano chiare e che non ci sia una presa in giro e una manipolazione sul proprio stato di salute.

Alcuni detenuti mettono in luce che manca il tempo per stabilire un rapporto di fiducia con gli operatori e a volte percepiscono da parte di questi ultimi disinteresse nell’approfondire i loro reali problemi. Le stesse persone si chiedono se l’operatore abbia l’intento di curare oppure no e sostengono che gli operatori dovrebbero indurre il tossicodipendente a riconoscere il proprio problema nonostante le sue resistenze.

A questo riguardo, il dott. Aparo dice che “… in carcere è molto difficile realizzare le condizioni per instaurare col detenuto una comunicazione profonda; qui le persone tendono a negare gli aspetti di sé problematici. Nel contesto carcerario, d’altra parte, le norme legislative sulla tossicodipendenza coinvolgono inevitabilmente la relazione tra operatore e detenuto e la espongono a tentativi di strumentalizzazione da parte dell’utenza. Lo psicologo in tale ambito può sentirsi ora in colpa per la grande difficoltà di cercare una soluzione attendibile ai problemi del detenuto ora sconfortato per l’atteggiamento ostinatamente strumentale della maggior parte di loro“.

Per quanto riguarda la certificazione da parte del Sert, sembra che per ottenerla i detenuti tendano inizialmente ad accentuare le problematiche legate alla tossicodipendenza, mentre il problema sembra poi svanire quando non vi è più una utilità strumentale.

Ogni operatore sembra adottare un approccio personale a queste difficoltà, mentre i detenuti che si stanno impegnando sul tema sostengono che occorrerebbero momenti di condivisione con i detenuti. Secondo alcuni partecipanti, durante gli incontri del gruppo c’è la giusta atmosfera per intraprendere una seria riflessione su se stessi e per un dialogo proficuo con gli operatori (nonostante si parta da obiettivi diversi):

  • “Io credo che non sia una malattia, ma la conseguenza di una predisposizione”  Così la tossicodipendenza viene descritta da un membro del gruppo, che prosegue dicendo che è come se ci fosse “… un istinto di morte che ci spinge ad agire in un determinato modo. È necessario dunque ricostruire la mappa di sé e dei propri sentimenti, avviando una ricerca su di essi
  • I miei sentimenti di rabbia influenzavano la mia visione della realtà
  • C’è una mutilazione a livello emotivo, non possiamo accontentarci di dire che è una malattia perché non si risolve il problema prendendo una pastiglietta!”

Torna all’indice della sezione

Il muro e la prateria

Carcere di Opera, 20 Aprile 2016
Asya Tedeschi

Al gruppo del mattino, il dott. Aparo dice che la cooperativa Trasgressione.net, con le sue attività imprenditoriali e con la necessità di un’efficace collaborazione fra chi lavora, permette di osservare che la serietà e l’equilibrio che i detenuti praticano in carcere o durante i nostri incontri con le scuole spesso si riduce drasticamente quando si è fuori in una situazione di minore costrizione.

In seguito viene letto uno scritto di Pasquale Fraietta sul tema della “Seconda possibilità”, dove si parla delle possibilità sprecate e di quelle mai realmente avute perché inesistenti o perché senza strumenti per riconoscerle.

Aparo lo commenta dicendo: “Quando si è in carcere l’unico modo per rendersi liberi è condividere i propri obiettivi con chi ti può aiutare, con chi si può provare a costruire; quando si mette il naso fuori, spesso si pensa di potere raggiungere l’obiettivo da soli e gli altri, che erano stati alleati, vengono vissuti come ostacoli, residui fossili di limiti anacronistici e poco funzionali.

Viene chiesto come mai per molti il senso della responsabilità, che fuori non c’era, aumenti all’interno del carcere e poi diminuisca nuovamente una volta fuori.

Aparo: in carcere l’odore della libertà è legato al piacere della progettualità, addirittura all’esercizio della responsabilità. In carcere è così difficile sentirsi liberi che l’attenzione per l’altro e la responsabilità reciproca vengono usate come strumento per la libertà (che è poi quello che viene insegnato normalmente ai bambini e che, quando non sono troppo di cattivo umore, gli adulti riescono a praticare). Quando si torna fuori, molto facilmente riprende quota il delirio che la libertà possa essere vissuta galoppando senza freni in una prateria senza confini. In presenza di condizioni motivanti, il muro del carcere ti costringe e ti permette di guardare attorno a te, invece che pervicacemente avanti; se il muro cade, non è detto che gli occhi sappiano continuare a guardare con l’equilibrio necessario quello che ci sta vicino.

Il Gruppo della Trasgressione, in conclusione degli incontri, è stato allietato dalla musica e dalla voce di Tonino Scala e dalla mirabile performance di Veronica.

Torna all’indice della sezione

Sulla pena – Bollate 07/04/2016

Incontro sulla pena con gli allievi dell’Istituto Verri di Busto Arsizio Patrizia Canavesi

Studente: E’ giusto che lo stato spenda soldi per recuperare persone che hanno causato disastri e dolore o addirittua morti?

Giampaolo: Innanzitutto è previsto dalla costituzione; in secondo luogo, rinchiudere e abbandonare a se stessi i detenuti rischia di incattivirli e predisporli a ulteriore violenza e rabbia nei confronti della società. A Bollate, dove si attivano percorsi e attività di recupero, la recidiva passa dal 67% al 17%. Chi esce dal carcere senza “aver pensato” è ancora più pericoloso.

Isaia: Sono soldi investiti nella prospettiva di un reinserimento. E’ una spesa che può essere considerata un “investimento sociale”

Alberto: La persona, come individuo, può anche non preoccuparsi di aiutare chi è in difficoltà o chi si è macchiato di un delitto; una società civile no, non può esimersi dal provare a recuperare chi ha rotto il patto sociale. La società civile deve costantemente tentare di realizzare modelli positivi dove sia possibile percorrere strade di costruzione della libertà.

Studente: Esistono modi che possano “garantire” l’emancipazione, l’evoluzione del detenuto? E, se esistono, quali sono e come riconoscerli?

Studente: Quali sono le condizioni che permettono alla persona di orientarsi nella direzione giusta, delle gratificazioni emancipative e non cadere nella trappola della seduzione?

 Alberto: Innanzitutto sono importanti il rapporto con la guida e la fiducia che si pone nella figura di riferimento. Cercare una guida e poi provare a sceglierla. Riconoscere la fragilità e provare a orientarla nella giusta direzione, valorizzando le spinte costruttive e non dare spazio a quelle regressive. Solo in presenza di una guida valida è possibile scovare e “fare i conti” con la propria fragilità.

Antonio: Io ero fragile, molto più dei miei fratelli. Mi vergognavo di scoprirmi debole e imperfetto, quindi diventavo prepotente e arrogante. Mi comportavo da arrogante per poter vedere la fragilità negli altri. Io mi sentivo nel giusto a essere prepotente, non ho mai avuto la sensazione di sbagliare. Ero convinto di fare la cosa giusta. La consapevolezza non è automatica.. deve essere “stanata

Maurizio: solo se hai una guida sicura che ti sostiene, la fragilità viene contenuta.. e sei meno attratto dalla seduzione della via più facile per risolvere la sofferenza… della vita.

Alberto: La fragilità è una risorsa.. permette di cercare alleanze e collaborazioni per una progettualità costruttiva. Riconoscere la propria fragilità, permette di cercare tra le persone che hai accanto alleati per poter costruire qualcosa insieme.. ti permette di non vedere nelle persone “deboli” delle vittime designate, da umiliare e schiacciare per esercitare il tuo falso potere. Schiacciare la fragilità dell’altro ti permette di sentirti forte, potente, anche se in verità sei solo pre_potente e arrogante… nella tua stessa fragilità e insicurezza.

Massimiliano: mi sento brutto, debole, incapace.. inconcludente… per non stare male, mi ribello, reagisco con violenza, abuso, droghe, senso di onnipotenza.. non è possibile stare male con se stessi e non fare niente per reagire. Riconoscere la propria Fragilità è necessario per poter riconoscere anche il bisogno degli altri. Negare la propria Fragilità è negare il bisogno dell’altro.

Diouf: avevamo molti dubbi sul carcere e sui detenuti… adesso ci sembra di capire che siete delle persone normali, che hanno sbagliato ma che ci stanno pensando su.

Isaia: avete visto dei delinquenti, che in realtà sono persone non poi tanto diverse da voi.. persone che hanno bisogni, desideri, emozioni.. il suggerimento è “non avere paura di accettare la vostra fragilità e imparare a viverla come una risorsa e non come un problema”, una spinta per cercare aiuto, alleanze e collaborazioni.

Massimo: se la famiglia ti dà delle basi solide.. riesci a stare in piedi. Io non posso dire di non aver avuto una buona famiglia.. Mi ha sedotto la ricchezza, la bella vita, la vita facile..

Manar: mi sembra di capire che in fondo anche i detenuti sono delle brave persone..

Aparo: I detenuti sono brave persone? Forse. In ogni caso, anche le “brave persone” possono perdersi e danneggiare il prossimo. E’ necessario affinare strumenti per far emergere il lato positivo che c’è in ciascuno di noi, costruire relazioni positive e provare a realizzare progetti comuni. Per rieducare è necessario identificare e dare spazio a percorsi che siano riconoscibili, attendibili, verificabili.

Jin Lai: E’ più facile punire una persona che recuperarla! La consapevolezza di sè e del reato commesso, è una conquista, non si realizza automaticamente con la reclusione! La privazione della libertà non basta, non è sufficiente a innescare il cambiamento e la consapevolezza del proprio errore.

Torna all’indice della sezione

Conversando su autorità e limiti

Roberto Cannavò: La realtà della finitezza è la nostra realtà. C’è chi lo riconosce, e chi invece non lo riconosce e si ritrova con l’ergastolo. Se non mi avessero arrestato, io non avrei mai capito i miei limiti. Fuori dal carcere, non ho mai riconosciuto le mie finitezze.

Gemma Ristori: (riferendosi ai grandi personaggi citati che hanno fatto la storia dell’arte, della letteratura e della scienza) Lavoro e fatica hanno fatto sì che le loro scoperte rimanessero nel tempo e che noi oggi ce ne possiamo servire per il nostro benessere quotidiano, come la lampadina. Altre mire invece, aumentano solo il senso d’eccitazione, che se fine a se stessa, non è utile alle generazioni future, ma solo a se stessi.

Voler superare i limiti non è necessariamente qualcosa di negativo, ma solo se viene accompagnato dal lavoro e dalla dedizione. Il detenuto e lo studente vogliono arrivare lontano, ma lo studente lo fa lavorando duramente, il delinquente fa come Icaro: punta al sole direttamente. Vi è nel delinquente il desiderio di arrivare in fretta, dimenticandosi che l’unico modo per arrivare da qualche parte è studiare.

Roberto Cannavò:  Se avessi avuto un papà non avrei sconfinato i miei limiti, perché lui mi avrebbe indirizzato verso la scelta giusta. L’ignoranza mi ha portato a essere l’opposto della normalità per la gente comune. Ero spregiudicato in questo, superavo tutti i miei limiti. Da ragazzino non avevo nessun recinto e nessun limite. Oggi a pensare a ciò che sono stato, beh ho paura di quel ragazzino.

Massimiliano De Andreis: Da giovane non vedevo una continuità in quello che facevo; quindi arrivavo alla cresta e pensavo: che senso ha tornare indietro? Io ero arbitro della mia vita, le regole le mettevo io e proprio per questo le istituzioni erano escluse dalla mia vita.

Ivano Moccia: Il ruolo dei genitori è molto importante. La mia barca era carica di odio e alla fine ho ridotto a pezzi tutta la barca e sono affondato. I genitori ti consegnano la conoscenza che dovrai dare poi ai tuoi figli.

Mario Buda: Io non avevo nessuno che mi desse una carezza. La prima rapina che ho fatto è stata a 16 anni, avevamo paura. Ma dopo la prima rapina in banca ci abbiamo preso gusto e ho provato il delirio di onnipotenza. Mi sono bruciato la vita, mi sono costruito la mia gabbia. Voi ragazzi mi state aiutando tantissimo a crescere. La mia disperazione è che mio figlio faccia i miei stessi errori, e faccia delle scelte sbagliate.

Massimiliano Rambaldini: per me qualsiasi regola mi fosse imposta era un limite. Anche i segnali stradali. Tutto. E quindi bisognava combatterla.

Massimiliano De Andreis: Io superavo i limiti per raggiungere i miei obbiettivi, ma non ne ho raggiunto nemmeno uno. Mio padre si faceva di cocaina, picchiava mia madre, spacciava.. potevo scegliere se seguire la strada di mio padre o non farlo. Ho scelto di seguire la sua stessa strada perché il mio obiettivo era essere riconosciuto in famiglia; ma non ci sono riuscito. Oggi i limiti mi fanno crescere. L’autorità però deve essere credibile, per me oggi l’autorità credibile è importante.

Torna all’indice della sezione

Trasgressioni e conquiste

Trasgressioni e conquiste, Buccinasco 02-02-2016, Gemma Ristori

L’incontro di martedì 1° Marzo nella scuola media di Buccinasco ha un antefatto. Ore 8:40, casa del dott. Aparo, tre ragazze ancora assonnate, subito dopo il buongiorno, vengono colte di sorpresa da domande del tipo:
Prof: quando è stata scoperta l’America?
Noi: 1492
Prof: e.. quando è stato scritto l’infinito?
Noi: Ah, boh!
Prof: Beh, cercatelo!

E così, passando dal salotto di casa Aparo al viaggio in macchina, cominciamo a prendere appunti su alcuni passi cruciali della storia dell’uomo. Arrivati a scuola, ci viene svelato il piano: lo scopo della giornata è effettuare una ricerca sul rapporto con il limite di studenti e detenuti. Come per ogni ricerca che si rispetti vengono dichiarate le fasi e le modalità che la caratterizzano:

  1. Esposizione di alcuni passaggi significativi nella storia dell’uomo;
  2. Collaborazione attiva fra studenti della scuola che ci ospita e detenuti e studenti universitari del gruppo;
  3. Esplorazione dei sentimenti verso la trasgressione, la conquista, lo sconfinamento nella mitologia e nella letteratura;
  4. Confronto fra le emozioni più comuni fra studenti e detenuti;
  5. Eventuali correlazioni tra atteggiamenti verso il limite e stile del rapporto con l’autorità.

Inizia l’incontro e il dott. Aparo fa accomodare sul palco studenti e detenuti del Gruppo della Trasgressione insieme ad alcuni studenti della scuola. Siamo nella prima fase e la domanda che apre le danze è: “Cosa vi viene in mente in relazione al superamento del limite nella storia o nella mitologia?”, poi richiama, a mo’ di esempio, la mela di Adamo ed Eva e chiede cosa suggerisce.

A questa sollecitazione risponde Matteo, un metro e 50 di curiosità e dolcezza condita da un pizzico di timidezza; il suo intervento è integrato da quello di Roberto Cannavò, che sottolinea come Adamo ed Eva caddero in tentazione perché ottenebrati dal desiderio di diventare come Dio.

Il dott. Aparo si rivolge nuovamente ai piccoli e ai meno piccoli presenti sul palco, chiedendo altri esempi di superamento del limite. E’ ancora Matteo a intervenire citando il viaggio di Ulisse oltre le colonne di Ercole, limite estremo del mondo conosciuto. Il prof., dopo aver sottolineato la pertinenza dell’esempio, ricorda che anche Dante Alighieri nella Divina Commedia cita il viaggio di Ulisse in relazione al desiderio insaziabile di conoscenza, ma condanna l’eroe in relazione all’arroganza con cui amministra tale desiderio.

E così, la ricerca condotta da studenti e Gruppo della Trasgressione assume sempre più le forme di un viaggio spinto dal vento della curiosità, un itinerario che coinvolge mitologia, letteratura, arte, scienza e storia, la cui mappa viene tracciata grazie al contributo di persone con età e vissuti molto distanti tra loro.

Viene citato dal Dott. Aparo il mito di Prometeo, che rubò il fuoco (strumento di conoscenza ed emancipazione) a Zeus per permettere agli uomini di avere la luce; Manuela, un metro e trenta di tenerezza e curiosità, ricorda come tappa importante nel cammino dell’umanità i primi voli in aereo e illustra, su sollecitazione del Prof, il mito di Icaro. Alberto Marcheselli sottolinea come inizialmente Icaro usi le ali di cera per emanciparsi, per fuggire dal labirinto di Dedalo, ma poi, preso dall’ebbrezza del volo, si spinge sempre più vicino al sole (avvicinarsi a Dio), così che le ali si sciolgono e Icaro precipita.

Viene così raggiunta la prima meta del viaggio: ogni volta che l’uomo punta a superare un limite, coesistono in lui due spinte, una miscela fra: da una parte, il desiderio di emancipazione, di crescita, di autonomia; dall’altra, quello di sfidare l’autorità, con la conseguente vertigine data dall’illusione di superare colui che ha posto il limite o addirittura di ucciderlo.

Il tragitto continua… Mohamed cita il nostro mito di Sisifo e il suo disprezzo per le divinità dell’Olimpo; un ragazzino della scuola cita il Simposio di Platone e la divisione dell’uomo in due metà costrette a cercarsi per tentare di recuperare l’antica forza che era stata tolta all’androgino da Zeus per timore che potesse minacciare lo status degli dei; Alessandra cita il ritratto di Dorian Grey e il desiderio dell’eterna gioventù; Gemma parla di Edison e dell’invenzione della lampadina; Alberto parla del delirio del dott. Frankestein di Shelley.

Conclude la carrellata il Dott. Aparo che sottolinea come anche nel progresso scientifico e nello sport ci sia un confine labile tra il desiderio di crescere e migliorarsi e la vertigine di sentirsi in cima al mondo. E cita la voglia di conoscere di Marco Polo e Colombo; il Faust di Goethe che, in nome della conoscenza, stipula un patto col diavolo per riceverla tutta e subito; la tragica spedizione sull’Everest dove, a causa della voglia di esibire e consumare risultati ed emozioni, persero la vita 19 persone; infine ricorda il primo uomo sulla luna, con il senso di trionfo, ma anche con il lavoro e le allenze necessarie per arrivarci.

E siamo alla seconda tappa del nostro viaggio: il desiderio di superare il limite, la spinta verso l’infinito è una caratteristica insita nell’essere umano; ma solo se questa spinta è accompagnata dal progetto, dal lavoro, da alleanze appropriate potrà portare a traguardi costruttivi e duraturi. Edison, Franklin (l’inventore del parafulmine) e molte altre personalità che hanno scolpito la storia, hanno raggiunto traguardi e contribuito all’evoluzione dell’uomo e al nostro benessere odierno; ma cosa permette di raggiungere mete così straordinarie senza farsi vincere dalla vertigine del senso d’onnipotenza?

Il Dott. Aparo suggerisce, a questo proposito, un confronto fra due modi di procedere: uno puntato al miglioramento di sé e/o al perfezionamento dell’oggetto cui ci si dedica; l’altro basato sulla ricerca del potere e/o dell’eccitazione. Nel primo caso, ogni gradino è un’esperienza e un arricchimento; nell’altro, si punta a conquistare trofei, che spesso vengono consumati molto velocemente, senza saziarne la fame.

Questa differenza nel rapportarsi con i limiti non prescinde dall’immagine dell’autorità che ciascuno di noi ha interiorizzato. La relazione emotiva con il limite, infatti, cambia significativamente se il viaggio verso la meta viene effettuato all’insegna del rancore e dell’opposizione o se, invece, viene sostenuto da un’autorità accuditiva.

Come il mito, la letteratura e le storie di molti componenti del gruppo della trasgressione documentano, raggiungere la meta per chi sente dentro di sé che ogni conquista equivale a una battaglia vinta contro un genitore castrante porta con sé la fantasia di distruggere il genitore stesso (e questo induce a rimettere perennemente in scena atti di sopraffazione e di autodistruzione); procedere invece in sintonia con una guida che indichi la strada permette di orientarsi, di crescere e di nutrirsi di quanto si incontra nel cammino e dei propri risultati.

La conclusione del nostro itinerario, partito da Adamo ed Eva e giunto all’allunaggio, viene suggellata dagli interventi del piccolo Matteo e della piccola Manuela che ribadiscono l’importanza della guida per raggiungere mete appaganti.

Torna all’indice della sezione