Il carcere è un luogo di riflessione. La branda sulla quale riposo può essere terreno fertile dove seminare domande. Nella mia cella ho passato notti insonni. Sdraiato sulla mia branda ho rivisto il film della mia vita e mi sono accorto di avere iniziato a guardare il mio passato da una prospettiva diversa. Avevo cominciato a vendere droga ed avevo terminato commettendo un omicidio.
Non si può dire che nel vendere droga si produca un male molto diverso da quello provocato nel commettere un omicidio, perché in entrambi i casi si finisce col rubare la vita ad altre persone. La differenza sta nel fatto che un omicidio è un male diretto: se ne percepiscono gli effetti e se ne vedono immediatamente le conseguenze, come quando si dà uno schiaffo a un’altra persona. Nel vendere droga il male è indiretto: può sembrare invisibile. È molto più difficile percepire il male che nel tempo stai facendo ad altri, perché ha sfumature diverse. Non percepisci il male che stai facendo mentre vendi una dose a qualche povero sventurato. Talvolta cercavo di giustificarmi dicendo “non ho mai puntato la pistola alla tempia di nessuno: quello ha deciso di sua volontà di venire da me ad acquistare una dose“. C’è chi compera droga per colmare le proprie debolezze e fragilità, chi per puro divertimento, per cercare un momento di euforia.
Un gesto con conseguenze spesso fatali. L’acquisto di quella dose colpisce sia chi può permettersi di acquistarla, sia chi non può, e per acquistarla commette reati come furti o estorsioni, ruba in casa propria o vende i suoi beni, vende la catenina della prima comunione che avevano regalato alla sorella più piccola, commette violenze in famiglia per avere i soldi per acquistare quella dannata dose. Oppure diventa lui stesso spacciatore. Il tutto per quella illusione di pochi minuti di felicità. Tutte queste cose le ho viste con i miei occhi.
Nel mio caso proprio la droga e i suoi proventi sono stati la causa che mi hanno spinto sulla china che in seguito mi ha portato a commettere un omicidio. Nel mio contesto di provenienza, un quartiere di Napoli, il controllo dello spaccio e l’egemonia del territorio scatenano feroci faide. Per conservare questa egemonia non si esita a utilizzare anche in pubblico l’omicidio, con spargimenti di sangue nelle strade, dove un lenzuolo bianco copre quello che rimane delle vite spezzate.
Si tratta di una vera e propria guerra, non molto diversa dai tanti conflitti che insanguinano il Medio Oriente o le trincee dell’Ucraina. Anche tra i palazzoni di cemento di Scampia ci sono soldati che combattono senza bandiera, mercenari asserviti al dio denaro. La verità che non si vede, o che ci rifiutiamo di vedere, è che in questa guerra non ci sono e non ci saranno né vincitori né vinti, con una storia che può avere come esito soltanto una fine tragica.
Un detto napoletano dice: “O suono e cancello o suono e campan”, che significa o finisci in carcere, e allora ascolti il suono dei cancelli che si chiudono, oppure morto ammazzato con il suono delle campane al funerale. Non ci sono alternative, come dice un altro proverbio: “Chi per mare va, questi pesci prende”
Ricordo una foto di quando ero ragazzino, che immortalava me insieme ad altri miei amici nel giardino della chiesa del rione dove abitavamo, dove si riuniva la nostra comitiva. È terribile pensare che di quel gruppo io sono l’unico superstite. I miei amici non ci sono più, chi morto in un incidente in moto, chi ammazzato per strada da una banda rivale. Posso ritenermi fortunato a essere ancora vivo, anche se quello che mi ha salvato è stato essere rinchiuso in carcere ad ascoltare il suono dei cancelli. La nostra è stata davvero una gioventù bruciata, dove a bruciare sono state le nostre vite ed il nostro futuro. Indietro non si può tornare e nessuno potrà restituirci quello che abbiamo perso, che consapevolmente o inconsapevolmente abbiamo negato alle nostre vite e a quelle dei nostri familiari.
Per questo sono arrivato alla conclusione che vendere una dose equivale allo sparare un proiettile: sono due modi diversi di giungere alla stessa conclusione: dare la morte.
Non è stato facile per me raccontare la mia storia e ripercorrere quelle drammatiche vicende. Gli errori commessi in passato non possono essere cancellati. Mi hanno detto che io non sono il mio passato. Ma è affrontando di nuovo il mio passato che ho sviluppato la consapevolezza di ciò che voglio essere nel futuro, cominciando dal presente.
Riprendere le fila del mio passato è stato difficile. Scrivere di quello che ho vissuto, rivivere il male che ho fatto, ha significato rinnovare la mia sofferenza. Il dolore che provo oggi mi ha aperto gli occhi. In questi anni mi sono convinto che per essere un uomo migliore non basta voltare pagina e andare avanti, perché questo significherebbe semplicemente lasciarsi alle spalle il passato e dimenticarlo. La memoria del passato è importante. Tenere vivi quei ricordi, non dimenticare, andare a fondo del dolore è il modo per ritrovare la strada per andare avanti.
Quello che ho commesso ha avuto conseguenze tragiche provocando dolore in tutti coloro che ho coinvolto con il mio gesto: un uomo a cui ho tolto la vita, la sua famiglia e la mia. Vorrei che questa consapevolezza servisse in qualche modo a evitare ad altri giovani di percorrere la mia stessa strada.
Per questo ho deciso di raccontare la mia storia.
Emanuele Baiano





















































