O suono e cancel o suono e campan

Il carcere è un luogo di riflessione. La branda sulla quale riposo può essere terreno fertile dove seminare domande. Nella mia cella ho passato notti insonni. Sdraiato sulla mia branda ho rivisto il film della mia vita e mi sono accorto di avere iniziato a guardare il mio passato da una prospettiva diversa. Avevo cominciato a vendere droga ed avevo terminato commettendo un omicidio.

Non si può dire che nel vendere droga si produca un male molto diverso da quello provocato nel commettere un omicidio, perché in entrambi i casi si finisce col rubare la vita ad altre persone. La differenza sta nel fatto che un omicidio è un male diretto: se ne percepiscono gli effetti e se ne vedono immediatamente le conseguenze, come quando si dà uno schiaffo a un’altra persona. Nel vendere droga il male è indiretto: può sembrare invisibile. È molto più difficile percepire il male che nel tempo stai facendo ad altri, perché ha sfumature diverse. Non percepisci il male che stai facendo mentre vendi una dose a qualche povero sventurato. Talvolta cercavo di giustificarmi dicendo “non ho mai puntato la pistola alla tempia di nessuno: quello ha deciso di sua volontà di venire da me ad acquistare una dose“. C’è chi compera droga per colmare le proprie debolezze e fragilità, chi per puro divertimento, per cercare un momento di euforia.

Un gesto con conseguenze spesso fatali. L’acquisto di quella dose colpisce sia chi può permettersi di acquistarla, sia chi non può, e per acquistarla commette reati come furti o estorsioni, ruba in casa propria o vende i suoi beni, vende la catenina della prima comunione che avevano regalato alla sorella più piccola, commette violenze in famiglia per avere i soldi per acquistare quella dannata dose. Oppure diventa lui stesso spacciatore. Il tutto per quella illusione di pochi minuti di felicità. Tutte queste cose le ho viste con i miei occhi.

Nel mio caso proprio la droga e i suoi proventi sono stati la causa che mi hanno spinto sulla china che in seguito mi ha portato a commettere un omicidio. Nel mio contesto di provenienza, un quartiere di Napoli, il controllo dello spaccio e l’egemonia del territorio scatenano feroci faide. Per conservare questa egemonia non si esita a utilizzare anche in pubblico l’omicidio, con spargimenti di sangue nelle strade, dove un lenzuolo bianco copre quello che rimane delle vite spezzate.

Si tratta di una vera e propria guerra, non molto diversa dai tanti conflitti che insanguinano il Medio Oriente o le trincee dell’Ucraina. Anche tra i palazzoni di cemento di Scampia ci sono soldati che combattono senza bandiera, mercenari asserviti al dio denaro. La verità che non si vede, o che ci rifiutiamo di vedere, è che in questa guerra non ci sono e non ci saranno né vincitori né vinti, con una storia che può avere come esito soltanto una fine tragica.

Un detto napoletano dice: “O suono e cancello o suono e campan”, che significa o finisci in carcere, e allora ascolti il suono dei cancelli che si chiudono, oppure morto ammazzato con il suono delle campane al funerale. Non ci sono alternative, come dice un altro proverbio: “Chi per mare va, questi pesci prende

Ricordo una foto di quando ero ragazzino, che immortalava me insieme ad altri miei amici nel giardino della chiesa del rione dove abitavamo, dove si riuniva la nostra comitiva. È terribile pensare che di quel gruppo io sono l’unico superstite. I miei amici non ci sono più, chi morto in un incidente in moto, chi ammazzato per strada da una banda rivale. Posso ritenermi fortunato a essere ancora vivo, anche se quello che mi ha salvato è stato essere rinchiuso in carcere ad ascoltare il suono dei cancelli. La nostra è stata davvero una gioventù bruciata, dove a bruciare sono state le nostre vite ed il nostro futuro. Indietro non si può tornare e nessuno potrà restituirci quello che abbiamo perso, che consapevolmente o inconsapevolmente abbiamo negato alle nostre vite e a quelle dei nostri familiari.

Per questo sono arrivato alla conclusione che vendere una dose equivale allo sparare un proiettile: sono due modi diversi di giungere alla stessa conclusione: dare la morte.

Non è stato facile per me raccontare la mia storia e ripercorrere quelle drammatiche vicende. Gli errori commessi in passato non possono essere cancellati. Mi hanno detto che io non sono il mio passato. Ma è affrontando di nuovo il mio passato che ho sviluppato la consapevolezza di ciò che voglio essere nel futuro, cominciando dal presente.

Riprendere le fila del mio passato è stato difficile. Scrivere di quello che ho vissuto, rivivere il male che ho fatto, ha significato rinnovare la mia sofferenza. Il dolore che provo oggi mi ha aperto gli occhi. In questi anni mi sono convinto che per essere un uomo migliore non basta voltare pagina e andare avanti, perché questo significherebbe semplicemente lasciarsi alle spalle il passato e dimenticarlo. La memoria del passato è importante. Tenere vivi quei ricordi, non dimenticare, andare a fondo del dolore è il modo per ritrovare la strada per andare avanti.

Quello che ho commesso ha avuto conseguenze tragiche provocando dolore in tutti coloro che ho coinvolto con il mio gesto: un uomo a cui ho tolto la vita, la sua famiglia e la mia. Vorrei che questa consapevolezza servisse in qualche modo a evitare ad altri giovani di percorrere la mia stessa strada.

Per questo ho deciso di raccontare la mia storia.

Emanuele Baiano

Percorsi della devianza

La mia prima rapina

Alle medie frequentavo un gruppetto di amici più o meno della mia età. Il nostro ritrovo era un parchetto del mio paese e sedevamo su un muretto. Andavo ancora a scuola, ma ogni pomeriggio e sera quel parchetto e quella compagnia erano il mio appuntamento fisso, fatta eccezione di quando ogni tanto si andava all’oratorio a giocare a pallone.

Rompevamo la noia solo quando ne combinavamo una delle nostre e funzionava sempre alla stessa maniera: a uno di noi veniva in mente di fare un danno o di rubare qualcosa. Nessuno si tirava indietro e ogni volta era una prova di coraggio perché nessuno voleva passare per debole o fifone. Quando c’erano le giostre o le feste di paese, ogni occasione era buona per fare a botte con altre compagnie dei paesi vicini. Capitava di fare a botte anche la domenica pomeriggio in discoteca e quasi sempre avevamo la meglio. Lo ricordo bene come ci atteggiavamo: avevamo la fama di quelli che picchiavano duro, dei cattivi di cui bisognava avere paura e godevo di tutto ciò. Mi sentivo qualcuno!

Quel mio modo di passare le giornate però prese una piega molto più seria quando io e il mio amico Stefanino conoscemmo due ragazzi più grandi di noi: Felice e Massimo, il più cazzuto dei due. Loro avevano già la macchina, una 127 Fiat color carta da zucchero. Tra noi quattro si instaurò subito un’amicizia, anche perché io e Stefanino non volevamo più frequentare la vecchia compagnia. Giravamo in macchina con loro due e sedevamo allo stesso modo: Felice guidava, Massimo a lato e io e Stefanino dietro.

Dopo qualche settimana, mentre facevamo il solito giro in macchina, per la prima volta sentii parlare di una possibile rapina. Felice e Massimo ne parlavano come se fosse un’idea nuova ma a me era chiaro che invece ne avevano già fatte e volevano solamente vedere la nostra reazione.
Io e Stefanino accettammo. Ricordo che mi saliva l’adrenalina al solo pensiero di dover scegliere ai danni di chi fare il colpo e in seguito nel fare i sopralluoghi.

Ricordo che il giorno deciso fu un sabato e il negozio era un fiorista del nostro paese: tre vetrine fronte strada con una piccola scalinata all’ingresso. Dopo aver nascosto in una via vicino la macchina, la cui targa era stata alterata con un nastro isolante nero, ci calammo il passamontagna. Massimo e Felice impugnavano due pistole mentre io e Stefanino eravamo a mani nude.

Entrammo nel negozio, c’era qualche cliente e chi lavorava all’interno. Massimo puntò la pistola e iniziò a gridare di stare fermi. Io non guardavo in faccia nessuno e, come d’accordo, seguivo Felice verso la cassa. Mentre Felice puntava la pistola alla cassiera, persona di cui non riesco a ricordare il viso ancora oggi, afferrai i soldi e lasciai solo le monetine.

Una volta divisi i soldi continuammo a girare in macchina, fumando una sigaretta dietro l’altra, inventandoci particolari inesistenti della rapina. La sera andammo in una discoteca di un altro paese, era molto meglio di quella che avevo frequentato con la mia vecchia compagnia.

Questa fu solo la prima rapina e mi sentivo un grande, uno capace di far paura e questa sensazione mi faceva godere molto di più dei soldi che avevo e di quelli che mi misi in tasca altre volte. Mi sentivo grande all’idea che in giro per il paese si sapesse che ero dentro un gruppo di persone forti con cui c’era poco da scherzare. Questo fu solo l’inizio.

Sergio Sestito

Racconti al tavolo del gruppo

Schizzi d’autunno

In questo autunno 2025, al gruppo abbiamo in corso due iniziative:

  • una parte da Max Rigano, giornalista;
  • l’altra da Massimo Zanchin, componente del gruppo A. S. di Opera.

 

Max Rigano è già al lavoro con un giornalista radiofonico, Daniele Biacchessi, che conduce la trasmissione “Il Timone” e con il quale ha concordato di fare diverse interviste ai componenti del gruppo. Dopo la prima a me (andata in onda nei giorni scorsi), Max intende procedere con interviste ad alcuni degli altri componenti del gruppo (ex detenuti, comuni cittadini, familiari di vittime di reato, studenti tirocinanti e detenuti in carcere).

Le interviste riguardano cosa è il gruppo e cosa fa, qual è il ruolo di ciascuno all’interno, i nostri obiettivi, cosa ciascuno di noi ne ricava, ecc.  Le interviste sono individuali. Ognuno potrà concordare con Max dove vedersi o sentirsi e sarà lui a coordinare la comunicazione (la sede di Via Sant’Abbondio, se serve, è comunque utile allo scopo; volendo, lì si può procedere anche con due o tre interviste di seguito). L’intervista viene registrata durante l’incontro a due e poi diffusa nel corso della trasmissione radiofonica mattutina “Il Timone”.

Non posso escludere che, strada facendo, le interviste possano essere estese a direttori di carcere e magistrati. In fondo, è già successo qualcosa del genere con Byoblu, dove agli incontri sono stati presenti anche un magistrato e la direttrice del carcere di Monza.

Invito i componenti del gruppo che hanno piacere di prendere parte all’iniziativa a darmene segno, così che io possa metterli in comunicazione con Max Rigano. La prima intervista deve avvenire nei primi giorni della prossima settimana (29 o 30 settembre).

 

Nata su suggerimento di Massimo Zanchin, l’iniziativa prevede che un componente del gruppo racconti al tavolo un episodio della sua vita. Ognuno, detenuto o meno, sceglie di raccontare quello che gli pare, senza altro vincolo se non quello di stare dentro i 15 minuti.

Le persone sedute al tavolo, concluso il racconto, pongono domande al protagonista della giornata, fanno osservazioni, critiche, richieste di chiarimenti, portano ricordi personali evocati dal racconto. Ne vengono fuori riflessioni di ogni tipo, come di norma accade al tavolo del gruppo.

Infine, il coordinatore del gruppo propone una sua interpretazione del racconto e degli interventi che ne sono seguiti.

L’iniziativa prevede che per ogni racconto venga realizzato un podcast per la radio o per una puntata televisiva di circa 30/45 minuti. Per procedere alla registrazione occorre ovviamente l’autorizzazione della direzione delle diverse carceri.

Se Andrea Spinelli o una persona che sa disegnare vorrà corredare lo snodarsi del racconto e degli interventi con schizzi o bozzetti che riprendano alcuni dei passaggi, avremo delle puntate televisive più ricche.

Al momento, siamo già alla 7° puntata, di cui 5 nel carcere di Opera, una a San Vittore e l’altra a Bollate. Nel carcere di Opera il racconto ha luogo tutti i mercoledì: al mattino con il gruppo dell’Alta Sicurezza, al pomeriggio con quello della Media Sicurezza.

Non escludo che nel tempo si possano avere al gruppo giornate in cui il racconto verrà proposto da soci del Rotary o da ospiti esterni.

L’iniziativa sarà anche oggetto di studio per i tirocinanti universitari che frequentano il gruppo, ai quali viene richiesto di trascrivere il racconto, di riassumere i passaggi ritenuti significativi della giornata e di collegarli con le teorie e le griglie di lettura degli autori conosciuti attraverso i loro studi universitari.

Anche questi racconti, che si muovono tra errori, paure, fantasie, aspirazioni, sono uno strumento della nostra palestra.

Angelo Aparo

La nostra palestra

La Trsg.Band e il Gruppo della Trasgressione a Rho

Introduzione a Una storia sbagliata

La locandina del Concerto al Teatro Roberto Da Silva di Rho

È una storia sbagliata quella di chi spaccia, rapina. Lo è quella di chi prima uccide e poi si suicida, come è avvenuto nei giorni scorsi. La prima, comprensibile, reazione di molti cittadini è che non c’è ragione per dare spazio a persone che causano tanto dolore e danni così gravi alla collettività.

Per me, che lavoro da 45 anni in carcere e studio queste cose, è necessario che, allo smarrimento che io stesso provo di fronte a tanta follia, segua l’impegno per entrare nelle dinamiche psichiche e sociali che portano al disconoscimento del nostro simile e all’abuso sull’altro.

Lo faccio da ormai 27 anni con un’equipe che si chiama Gruppo della Trasgressione: una squadra nella quale i detenuti, nel tempo, diventano essi stessi co-protagonisti dell’indagine sui meccanismi che portano alla indifferenza verso il dolore dell’altro e, addirittura, ad un rancore e ad una voglia di vendetta generalizzata, che investe chiunque capiti davanti.

Negli eventi aperti al pubblico, come il concerto di stasera, offriamo qualche spicchio del nostro lavoro e dei nostri risultati.

Il gruppo della trasgressione è aperto e chi vuole può intervenire (di presenza o collegandosi on line via Zoom) agli incontri che abbiamo tutti i martedì nella nostra sede (Via Sant’Abbondio 53 A, Milano) o contribuire con domande e riflessioni personali ai tanti temi che trattiamo nei nostri incontri con studenti universitari e scolaresche su www.vocidalponte.it.

Chi ne ha piacere può partecipare, in uno dei tanti modi possibili, alla non facile impresa di mettere le mani dentro le contraddizioni e la complessità che contraddistinguono la nostra specie per esplorare e sperimentare nuovi equilibri.

Non è l’unico modo, ma esiste anche la possibilità di dare piccoli contributi economici ai nostri progetti. Di seguito il nostro IBAN e il nostro codice fiscale per chi volesse concederci il suo 5X1000.

Associazione Trasgressione.net
Via dei Crollalanza, 11 – 20143 Milano
Cod. Fiscale: 9763 0250 153
IBAN: IT 18D 05696 01600 0000 22932X73

Juri Aparo

  • Alessandro Radici, Paolo Tasca, Miky Montanaro, Beatrice Ajani, Juri Aparo, Issei Watabnabe, Andon Manushi, Eric Bersam, Andrea Bisceglie

Le foto dalla serata del 16 maggio 2025 al teatro Roberto Da Silva di Rho sono state realizzate da Federica Bentivegna e Paolo Colombo, entrambi fotografi ritrattisti e documentaristi emergenti, allievi del Fotografo Nicola Nesi, www.fotografiegentili.com – info@fotografiegentili.com – Instragram @fotografiegentili | @itsfederri0

Sisifo e i suoi archetipi

Nel cuore di Corinto, mentre la siccità piega la città, si svolge una vicenda che porta con sé temi familiari a ciascuno di noi. Al centro troviamo Sisifo, re di Corinto, impegnato in una disperata ricerca di salvezza per il suo popolo, mentre Asopo, dio delle acque, resta sordo a ogni supplica, rifiutandosi di porre fine al tormento della città, nonostante abbia il potere di farlo.

Nella sua indifferenza, Asopo incarna l’archetipo dell’autorità che ha smarrito la propria essenza: quella di nutrire, sostenere e promuovere la crescita. Mentre Corinto soffre la sete, egli si abbandona al piacere e alla sregolatezza, senza preoccuparsi di chi lo circonda.

Oltre che verso i mortali di Corinto, manifesta la medesima noncuranza verso la figlia: Egina; il loro legame è ridotto a un freddo scambio di doveri, e in questo deserto emotivo cresce la giovane, schiacciata da pretese paterne che non trovano riscontro né nell’affetto né nella guida.

La seduzione di Giove si manifesta ai suoi occhi come un miraggio di libertà senza vincoli, proposta irresistibile per chi, come lei, ha conosciuto solo il peso degli obblighi. Ed è proprio il comportamento sregolato all’insegna della ricerca di fuggevoli piaceri del padre a legittimare implicitamente la scelta di seguire Giove.

Ma la sua fuga con Giove rappresenta anche altro, non è solo un atto di ribellione: è la ricerca di riconoscimento e attenzione che il padre le ha sempre negato.

In questo intreccio di relazioni emerge Sisifo, acuto osservatore delle dinamiche in gioco. La sua astuzia trasforma l’informazione sulla seduzione di Egina in una potente arma di ricatto contro Asopo, ribaltando repentinamente gli equilibri di potere, portando il Dio in una posizione vulnerabile di fronte al mortale.

Ma proprio nel momento del trionfo Sisifo rivela la propria fragilità. Non pago di aver ottenuto l’acqua per la sua città, esige l’umiliazione di Asopo. Il desiderio di vedere una divinità in ginocchio tradisce un’esigenza di affermazione che oltrepassa la necessità pratica, sconfinando nell’arroganza e nella brama di onnipotenza, che sarà poi causa della sua eterna pena.

La forza del mito di Sisifo risiede nella sua capacità di rispecchiare l’esperienza umana attraverso i secoli. Ogni personaggio incarna aspetti della natura umana ancora oggi attuali. Sisifo ed Egina rappresentano gli adolescenti di ogni epoca, alle prese con un’autorità – Asopo – che incarna le possibili degenerazioni del potere.

La loro risposta alla freddezza emotiva si manifesta in modi antitetici: in Sisifo, la rabbia esplode in un crescendo di rivalsa e sopraffazione, replicando inconsapevolmente la violenza subita. In Egina, rabbia e dolore implodono in un’autodistruttiva ricerca di libertà, che nasconde però nuove catene.

Queste dinamiche riflettono alcune delle diverse strategie con cui gli adolescenti in particolare possono affrontare un’autorità percepita come oppressiva o situazioni di sofferenza, di mancato riconoscimento: alcuni attraverso aperta ribellione o violenza, altri attraverso comportamenti autodistruttivi. Entrambi i casi sono manifestazioni della rabbia e del dolore generati dal disconoscimento dei loro bisogni.

Il mito, nella rivisitazione che ne propone il gruppo, porta alla luce temi estremamente familiari, ed è difficile non riconoscersi o non riconoscere una passata versione di noi stessi, in almeno uno dei personaggi che lo costellano.

Questo processo di identificazione va oltre il semplice rispecchiamento: diventa un’occasione per validare le proprie esperienze emotive e comprendere che certi vissuti, spesso percepiti come profondamente personali e isolati, sono in realtà parte della comune esperienza umana.

Il linguaggio simbolico crea uno spazio interpretativo dove ognuno può trovare significati personali: le figure di Sisifo, Egina e Asopo diventano archetipi attraverso cui esplorare dinamiche universali nella relazione tra genitori e figli, insegnanti e studenti.

L’aver portato la rappresentazione e la discussione di alcuni aspetti del mito all’istituto della Fondazione Clerici assume una funzione particolarmente pregnante, dato il suo rivolgersi a una comunità educativa.

Per gli studenti, offre un modo per elaborare e dare voce alle proprie esperienze di conflitto con l’autorità (e non), dando espressione alla complessità delle loro emozioni e cercando di dare un significato alle loro reazioni. Attraverso le figure di Sisifo ed Egina, possono riconoscere la propria rabbia e sofferenza, i propri impulsi di ribellione e autodistruzione, comprendendone meglio le origini e le possibili conseguenze su di sé e sugli altri.

Ma anche per gli insegnanti, il mito presenta una potente riflessione sulla natura dell’autorità educativa. La figura di Asopo serve da monito sulle conseguenze di un potere esercitato attraverso la mera forza e l’indifferenza emotiva, e sottolinea come le gerarchie basate esclusivamente sul potere formale siano intrinsecamente fragili e destinate al fallimento.

Anna Bigotti

Il mito di Sisifo

Materiali per Denaro Falso

Abbiamo trovato 9 classi (di licei ma anche di istituti professionali) per dare forma – dentro le mura del carcere di Opera e Bollate – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni.

Dopo la nostra lettera di invito, ecco le candidature che sono state accettate:

II G liceo classico (Tito Livo, Milano)
III liceo delle scienze umane (B. Melzi, Legnano)
III liceo socio economico (B. Melzi, Legnano)
IV A liceo scientifico sportivo (Leone XIII, Milano)
IV A liceo delle scienze applicate (E. Torricelli, Milano)
IV C liceo delle scienze applicate (E. Torricelli, Milano)
IV B istituto tecnico informatico (E. Torricelli, Milano)
IV G liceo scientifico (Einstein, Milano)
V istituto professionale per la sanità e l’assistenza sociale (B. Melzi, Legnano)

Il 19 marzo è venuta a trovarci, al carcere di Opera, la giornalista Diletta Giuffrida di skytg24. Qui uno spezzone del suo raccontro:

L’incontro di restituzione pubblico dei risultati della nostra ricerca si è tenuto mercoledì 28 maggio 2025, dalle ore 16,30 alle ore 19.30, nell’ aula 211 della Università degli Studi di Milano, via Festa del Perdono – in collaborazione con il progetto carcere della Università Statale.

Ringraziamo RadioRadicale per aver garantito la copertura audio/video integrale dell’incontro, visibile qui.

Tale incontro è stato  preceduto da un laboratorio a numero chiuso per gli studenti universitari che si è tenuto presso l’Università degli Studi di Milano (aula 433 – 5 maggio 2025 dalle 17.00 alle 19.00).

A seguire i materiali della nostra ricerca (ulteriori informazioni anche sulla pagina Instagram de “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”):

Diari dell’esperienza al carcere di Opera

Il giro di boa

Denaro Falso col Leone XIII

Denaro falso e il peso delle scelte

Un’occasione per riflettere

In ogni azione il nostro futuro

Dove sta la ragione?

  • i 9 personaggi principali del racconto:

Fjòdor Michàjlovic Sonkòvinikov

Mitja

Màchin

Jevghènij Michàjlovic

Ivàn Mirònov

Stjepàn Pelaghèjuskin

Màrja Semjònovna

Il sarto del villaggio

Natàlja Ivànovna

INDICE GENERALE DI DENARO FALSO

Una bussola nuova in famiglia

Il rancore è quel sentimento che ci logora e ci mangia dentro, è il fuoco che brucia l’anima per qualcosa che abbiamo subito, può essere un torto, una mancanza, un abbandono volontario o involontario da parte di una persona che per noi può essere cara.

Il rancore in me si è acceso quando ero ancora  piccolo e avevo capito che mio padre mi aveva abbandonato e mia madre non mi dava né una carezza né un abbraccio.

L’unica persona che, con tutto il bene che mi voleva, dandomi valori, principi, da mangiare e tutto ciò che mi serviva per crescere, venne arrestato ed io ho provato l’abbandono più grande.

Quella persona è mio fratello, che oltre ad essere mio fratello è stato anche il padre che non ho avuto, dandomi amore e  protezione. Quando venne arrestato, dentro di me ho provato rabbia e rancore fortissimi verso le istituzioni: colui che davvero mi voleva bene mi era stato tolto.

Crescendo, ogni giorno che passava, davo da mangiare e facevo ingrassare quel rancore e, quasi senza rendermene conto, ho iniziato a percorrere la strada che mi ha portato a commettere reati e, allo stesso tempo, a sentirmi orgoglioso di emulare quel fratello che sulla stessa strada si era fatto un nome.

Il tempo passa, cresco e con me cresce anche la portata dei reati, arrivando così ai primi fermi di polizia. Il rancore è sempre li, fermo come una fiamma accesa di una candela che brucia ma non si spegne e con la quale più e più volte mi sono scottato.

Sono sicuro che anche altri come me hanno dovuto mediare con i conflitti che abbiamo dentro di noi, per evitare di trasformare il rancore in voglia di  vendetta. Non è un compito facile, fa male perché dentro di te senti che vorresti esplodere, spaccare tutto, ma è l’unico modo per poter andare avanti.

Oggi ho 35 anni, sono padre di un ragazzo di 14 e su quel rancore sto lavorando, cercando di vedere tutto da prospettive diverse. Oggi cerco di rompere gli schemi e la corazza che mi ero creato per non mostrare le mie debolezze, di accettare giudizi e critiche, di far tesoro dei consigli, aprendomi e tirando fuori ciò che ho dentro senza vergogna, cosa che mi è sempre stata difficile. Ora so che la vergogna è la vita che facevo prima e non quella che ho deciso di intraprendere oggi.

Lavorare su me stesso è l’unica speranza che ho per spegnere la rabbia e il rancore che ho dentro e non c’è, secondo me, cura migliore se non quella di buttare fuori tutto per ricominciare da zero. Voglio che mio figlio sia orgoglioso del padre sano e pulito che sono oggi e non di quel padre che ha passato anni in galera, senza stargli vicino.

Non posso e non voglio più essere io il Sisifo che spinge il macigno pesante per tutta la vita, vivendo in un mondo duro, fatto di falsità, sofferenza e menefreghismo. Voglio essere un vero uomo, sincero, prima di tutto con me stesso, poi con gli altri. So benissimo che non si può cancellare il passato di una persona, ma penso che con buona volontà, costanza e con l’aiuto di persone sane, vere, che credono nel riscatto, la scalata verso la rinascita può essere molto meno faticosa.

Mirko Manna

Percorsi della devianza
Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Simboli per il dramma di Corinto

Le immagini, ottenute con l’aiuto dell’AI, sono elaborazioni dei simboli ideati dagli studenti del Pesenti di Bergamo per rappresentare il conflitto tra gli dei dell’olimpo e i cittadini di Corinto, i potenziali sviluppi e, non da ultimo, alcune delle possibili soluzioni ideali per superare il conflitto tra insegnanti e studenti, tra autorità e cittadini e, più in generale, tra adolescenti e adulti.

La siccità che ha messo a dura prova tutta la città ha anche indotto Sisifo, re di Corinto, a sviluppare verso il dio dell’acqua Asopo, verso Giove, capo tra tutte le divinità dell’Olimpo e, in generale, verso tutte le “divinità/autorità dell’Olimpo”, un rancore che ne ha condizionato fortemente le scelte e che lo ha portato a sviluppare l’arroganza cui Giove risponderà con la famosa punizione/vendetta del masso.

 


Bergamo: Giornata conclusiva dell’iniziativa su “Approcci utili per i conflitti tra insegnanti e studenti“. Sul palco la preside dell’istituto, prof.ssa Veronica Migani, Angelo Aparo, Matteo Manna del Gruppo Trsg, e gli studenti del Pesenti Kushal Bagha, Gabriel Billeci e Adam Haqhaqi.

«Ragazzi, dopo il risultato ottenuto con la vostra rappresentazione del mito di Sisifo nel carcere di Opera, oggi vi propongo una cosa non facile. Cioè interrogarci su cosa può vivere un adolescente che non si sente aiutato o sostenuto nella sua crescita e nella ricerca del proprio futuro. È una sfida impegnativa. La mia proposta è quella di ideare un simbolo che rappresenti ciò di cui voi sentite di aver bisogno, quello che vi sembra necessario avere dal mondo degli adulti per fare la vostra strada.

Vorrei anche riuscire a concepire un simbolo che rappresenti l’idea di una comunità eterogenea, composta da persone provenienti da diverse parti del mondo (come siete già voi stessi), ma unite da un obiettivo comune: costruire il mondo di domani, cioè il mondo in cui vivrete da adulti. Come l’acqua che mancava a Corinto, questo simbolo deve indicare una risorsa essenziale, vitale. Abbiamo l’esigenza di costruire un mondo capace di tener conto della diversità e di un simbolo che rappresenti questo obiettivo. Vi invito a realizzarlo senza risparmiare mezzi, mettendo in campo tutta la vostra creatività e passione. Questo simbolo potrà diventare il segno distintivo della vostra scuola e una testimonianza concreta di ciò che siete in grado di fare»

Angelo Aparo

Mohamed Ounnas e Angelo Aparo lottano per avere il poco che resta dell’acqua a Corinto.

 

Adam Haqhaqi: Immagino un Giove sconfitto, che tenta invano di stringere tra le mani una bilancia simbolo del suo potere. Attorno a lui, un gruppo di adolescenti, provenienti da ogni angolo del mondo, unisce le forze per sfidare e abbattere un’autorità ormai priva di credibilità.

 

Marwan Toukami: Immagino una marionetta, strettamente controllata dall’autorità e dal potere, che si dimena con tutte le sue forze per spezzare i fili e liberarsi dal giogo del controllo.

 

Ranbir Singh: Vedo degli adolescenti, provenienti da culture e origini diverse, lavorano insieme per ridurre il peso del masso. Rappresentano il potere della diversità, dell’inclusione e della collaborazione. Simboleggiano l’importanza della comunità e del supporto reciproco. La loro unione dimostra che, affrontando le difficoltà insieme, il peso del masso diventa più gestibile.

 

Carlo Caroli: Immagino una bandiera italiana, simbolo di accoglienza e unità, su cui sono cucite le bandiere dei paesi d’origine degli adolescenti che studiano nella nostra scuola. Un mosaico di colori e identità che racconta storie di integrazione, diversità e speranza.

 

Massimo Rinaldi: Vedo una bilancia sollevata da molte mani, simbolo di unione e forza collettiva. Su uno dei piatti c’è il masso di Sisifo che, mano a mano, diventa leggero come iuna piuma, perché la coscienza condivisa e la forza del gruppo ne riduce il peso.

 

Omar Fouah: Un’aquila maestosa si lancia in picchiata dalla montagna, incarnando potenza e determinazione, mentre un masso, simbolo di oppressione e peso interiore, si trasforma lentamente in una piuma. È la rappresentazione di una coscienza che si alleggerisce, liberandosi dal fardello.

 

Mouhamed Khouma Seydina: Vedo molti studenti di diverse etnie unire le loro forze per spingere insieme un masso verso la cima della montagna. Ogni spinta rappresenta la condivisione della fatica e del sacrificio, uniti dalla determinazione di raggiungere l’obiettivo comune: trasformare quel masso in coscienza, un simbolo di crescita, consapevolezza e collaborazione.

 

Gabriel Billeci: Giovani adolescenti, provenienti da paesi e culture diverse, sostengono insieme un mondo. Sopra di esso si trova un anziano, simbolo di un’autorità credibile, con orecchie enormi, a rappresentare la sua capacità e competenza nell’ascoltare i giovani.

 

Massimo Zanchin, componente del gruppo del carcere di Opera: la moneta di Corinto è la sintesi di due dei tanti possibili percorsi ed esiti del rapporto tra adolescente e adulto, studente e insegnante, cittadino e autorità pubbliche, detenuto e figure istituzionali.

Il mito di Sisifo

Causa ed effetto

Non mi serve indossare uno scafandro per immergermi a scandagliare gli abissi della mia coscienza alla ricerca degli abusi da me commessi, mi è sufficiente guardarmi allo specchio perché riaffiorino i danni creati, le delusioni e i dispiaceri arrecati ai miei famigliari, il tradimento degli ideali nei quali credevo e ancora credo.

La mia vita delinquenziale è iniziata dopo i 24 anni quando, per una serie di motivi che non sto a raccontare, mi sono trovato in difficoltà economiche dalle quali non sapevo come uscire; insomma da impiegato di una grossa multinazionale, con possibilità di carriera, sono diventato ricettatore di merce rubata.

Sono cambiate le mie frequentazioni, il mio modo di vivere e il significato che davo alla vita. Ho comincio a fare uso di cocaina e abusare con gli alcolici per crearmi un mondo “virtuale” che non mi facesse pensare a ciò che avevo ripudiato.

Dopo la prima carcerazione nulla è cambiato, ho ricominciato da dove avevo lasciato. Chiaramente è arrivata una seconda carcerazione, un po’ più lunga rispetto alla prima, che quanto meno è servita a togliermi il vizio della cocaina.

Ho provato in più occasioni a cambiare la mia vita, cercando di riscattarmi perlomeno agli occhi dei miei cari, e visto che quando sei pregiudicato non è facile trovare un posto di lavoro, ho provato con delle attività in proprio con mille difficoltà.

Ad ogni prova finita male corrisponde un’altra “ricaduta” con un’altra carcerazione, ma non importa, io continuo a riprovarci anche se, data l’età, non credo mi rimangano molte occasioni.

Anche se io non accampo giustificazioni per i danni che ho fatto, penso che spesso capita che chi abusa, a sua volta, sia stato abusato da ciò che lo circonda: povertà, ignoranza, ghettizzazione ecc. ecc.

Quindi non credo ci si debba stupire se chi commette un certo tipo di reati non si rende conto di buttare al cesso la propria vita facendo avanti e indietro dalla galera, dove si imparano repressione e violenza, quantomeno psicologica.

La cosa che mi dà più fastidio è che mi abbiano tolto la possibilità di votare, anche se probabilmente, vista l’offerta politica scadente, la mia sarebbe una scheda nulla o con il partito dell’astensione.

Il fastidio quindi, nasce dall’ipocrisia di tutti i discorsi fatti sulla rieducazione e il reinserimento quando mi si nega la possibilità di esprimermi sul tipo di stato che vorrei e da cui, quindi, sono già escluso.

Una delle principali leggi della fisica recita che ad ogni causa corrisponde un effetto; visto che lo stato siete voi scegliete bene la causa perché noi siamo l’effetto.

Enrico Oriani

Nota: la conclusione non coincide con la mia né con l’orientamento del gruppo della trasgressione, ma è un ottimo esempio di quello che passa per la mente di chi commette reati a ripetizione e delle posizioni personali che al tavolo del gruppo diventano oggetto di dibattito. Angelo Aparo

Percorsi della devianza

I miei compagni di vita

Per circa trenta anni il rancore e la cocaina sono stati i miei compagni di vita, non mi hanno mai abbandonato, erano l’unica cosa sempre presente in una vita fatta di eccessi e abusi verso il prossimo e me stesso.

Lui, il rancore, è stato mio padre, mi ha educato a essere un uomo prepotente, sprezzante delle regole, dei valori civili, mi ha dato la forza e il coraggio di commettere cose di cui oggi mi vergogno e ne porto il peso sulla coscienza, quella stessa che, grazie al gruppo e all’incontro con Marisa Fiorani, ho ritrovato.

Questa coscienza oggi mi fa male, ma allo stesso tempo bene, perché è la mia bussola e, se mi trovo in situazioni di sofferenza e frustrazione, mi permette di non prendere la strada oltre il confine delle regole, mi indica come un navigatore dove camminare per non ricadere là nell’abisso della dipendenza, dove la cocaina mi è stata mamma coccolandomi quando ero triste. Bastava un tiro e tutto passava come quando ti fa male un dente e prendi un antidolorifico che ti anestetizza; lei bianca e pura, ma nera come la morte che ti provoca nell’anima, lei che ti può far essere esaltato o calmo, lei che può farti vedere e sentire ciò che vuoi tu perché te lo immagini dentro di te, lei che ti fa incontrare con i tuoi mostri interiori e i tuoi angeli, lei che puoi usare per socializzare, ma anche per isolarti.

Lei c’è sempre ogni volta che la cerchi, non ti abbandona mai e, se da piccolo sei stato abbandonato, è un ottimo modo per non sentirti più così, fa tutto ciò che vuoi tu nel tuo io profondo comandato dal tuo papà che di nome fa rancore.

Ma poi, se riscopri la coscienza, non puoi più cadere nella loro seduzione perché vedi e capisci il dolore che hai fatto, ti guardi allo specchio della verità e scopri che tu non sei quello che hai fatto e non lo vuoi essere, rivedi tutti i morti che ti sei lasciato dietro, gli anni che hai perso, il tempo che è passato cosi veloce che ti ritrovi ad avere i capelli bianchi e le rughe sul viso, solchi di espressioni sofferenti…

Guardi le cicatrici che porti sul corpo, i buchi delle pallottole e ti accorgi quanto è immenso il buco che hai creato tra te e la società e quanto lavoro ci vorrà per risanarlo, ma anche che in realtà sei fortunato ad essere ancora qui a raccontarlo…

Nelle giornate difficili ti viene una gran voglia di dire: “vaffanculo era più facile prima!” Allora guardi il telefono e dici a te stesso che basta chiamare un numero, ma è li che ti accorgi dove sta il più grande successo della vita, quando sputi su quel telefono, ascolti la tua coscienza e dopo aver fumato una sigaretta… il numero che chiami è quello della donna che ami per dirle quanto è difficile e quanto stai male e trovi lei che ti ascolta e ti accompagna con la sua voce alla pace e alla positività che nessuna droga può darti.

Ti fa vedere il mondo con gli occhi di chi ti ama e riesce a vedere un bicchiere mezzo pieno anche nella siccità più arida; adesso ciò che brilla ai tuoi occhi non sono i cristalli di cocaina ma, gli occhi profondi di chi ti ha fatto conoscere lo sballo più bello del mondo: essere innamorato! Ed esserlo per la prima volta a 43 anni vuol dire volare sopra le nuvole dove non ci sono limiti alla felicità, quella felicità che non hai mai vissuto e nessuno può toglierti perché è nel tuo cuore, nella tua coscienza e nell’anima, guerriere contro chi ti ha accompagnato verso l’abisso nero per una vita.

Oggi sono un uomo che ha incontrato una persona speciale, che non voglio mai smettere di amare; uso il cuore e la coscienza, sono ancora fragile ma onesto con gli altri e con me stesso.

Matteo Manna

Percorsi della devianza