Andare oltre

Quando ho concluso la laurea magistrale, l’idea di iscrivermi ad una scuola di specializzazione non mi sfiorava nemmeno. Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con lo studio: studiavo più per dovere che per piacere, e il fine ultimo era il dover dimostrare agli altri, e a me stessa, di essere intelligente. Ai tempi del liceo, credevo che l’intelligenza fosse determinata solo ed esclusivamente dalla capacità di studiare e, di conseguenza, i voti che ricevevo diventavano, per me, un giudizio oggettivo e inconfutabile sulla mia intelligenza. Durante l’università, il mio rapporto con lo studio è migliorato: probabilmente grazie agli argomenti, che riuscivano a stimolare di più la mia curiosità e voglia di imparare. Tuttavia, la connessione tra studio e intelligenza era sempre presente e vivevo ogni risultato di esame come un giudizio sulla mia persona. Di conseguenza, non appena ho finito di discutere la tesi ho tirato un sospiro di sollievo: finalmente era finita.

Cosa è cambiato in questi tre anni? Cosa mi ha spinto a decidere di mettermi in gioco nuovamente e intraprendere un percorso di altri quattro anni?

So che sembra assurdo, ma credo che la “colpa” sia del carcere. O meglio, del Gruppo della Trasgressione. Quando ho iniziato il tirocinio post lauream al Gruppo della Trasgressione, non credevo che sarei riuscita a terminare le ore necessarie per il tirocinio: lo psicologo psicoterapeuta fondatore del Gruppo, Angelo Aparo, era, ed è ancora, un professionista alquanto particolare. Io volevo semplicemente svolgere le mie ore di tirocinio il più velocemente possibile, passando per lo più inosservata ma non mi è stato permesso e oggi, di questo, gli sono grata.

Il dottor Aparo lavora da più di quarant’anni come consulente psicologo nelle carceri presenti nel territorio milanese e nel 1997 ha fondato il Gruppo della Trasgressione, che può essere definito come un tavolo di confronto che utilizza la devianza, in tutte le sue forme e sfaccettature, come punto di partenza da cui generare riflessioni sull’essere umano e a cui siedono studenti, detenuti e liberi cittadini.

Nel suo ruolo di coordinatore del Gruppo, il dottor Aparo pretende partecipazione da tutti i presenti al tavolo. Per me, questo, è stato difficilissimo: in primo luogo perché non mi sono mai sentita a mio agio a parlare di fronte alle persone. Ho sempre il timore di dire una cosa sbagliata o in modo poco chiaro. In secondo luogo perché sono partita con il piede sbagliato: in quanto tirocinante pensavo di dover imparare solamente dal dottor Aparo, ci ho messo un po’ di tempo a capire che in realtà, per poter sfruttare al massimo il mio tirocinio, dovevo aprirmi al Gruppo e alle sue dinamiche. Non è stato facile, ancora oggi ci sono dei momenti in cui faccio fatica e mi sembra di brancolare nel buio.

Il Gruppo è stata la mia prima esperienza di psicoterapia: gli argomenti trattati mi hanno permesso di scoprire e comprendere parti di me che non conoscevo, o che forse non volevo vedere. In particolar modo, al Gruppo ho imparato a confrontarmi con le mie emozioni e, soprattutto, a utilizzare il mio sentire come punto di partenza per elaborare un pensiero critico e costruttivo.

Ricordo ancora l’agitazione di quando sono entrata per la prima volta nella casa di reclusione di Opera. Ho impressi nella memoria gli sguardi, le sensazioni e i colori di quel giorno, ma non sono sicura di essere in grado di spiegarli. Avevo uno strano peso nello stomaco quando mi sono seduta al tavolo con diversi ergastolani. Pensavo di trovare sguardi freddi e calcolatori, mancanza di empatia e tentativi di manipolazione, invece ho trovato sguardi timidi e riservati, occhi emozionati, persone alla ricerca della presenza dell’altro. Ho impiegato un po’ di tempo ad abbassare le difese che mi ero costruita, basate principalmente su preconcetti e pregiudizi, e a concedermi di vedere l’altro.

Non so bene cosa mi riserverà il futuro ma l’idea di lavorare in carcere ormai è abbastanza radicata dentro di me. L’aspetto che trovo più interessante della psicoterapia è la costruzione di una relazione e credo che questo sia un aspetto fondamentale in un mondo come quello del carcere. L’articolo 27 della costituzione prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato; le case di reclusione investono quindi in progetti, formulati molto spesso da cooperative o associazioni esterne, che consentano ai detenuti di imparare un lavoro che possa permettere loro di ottenere una stabilità una volta conclusa la pena, con la speranza che questa stabilità li aiuti a non commettere più reati. Il lavoro viene quindi spesso considerato come punto cruciale nel successo della rieducazione, ma io credo che questa sia la strada più facile e meno dispendiosa in termini di energia mentale.

Trasgredire deriva dal latino e letteralmente significa “andare oltre”. Nel linguaggio comune, si utilizza per definire comportamenti o azioni che vanno oltre il limite consentito solitamente dalla legge, ma in alcuni casi anche della morale. Commettere un reato equivale a compiere una trasgressione, ma cosa spinge una persona a farlo?

L’opinione che mi sono formata io è che una persona commette un reato quando non è più in grado di riconoscere nell’altro un suo simile. L’altro diventa un oggetto e, in quanto tale, è possibile abusare di esso. Credo quindi che la “rieducazione” di un detenuto debba partire dalla costruzione di una relazione che possa permettergli di identificarsi nuovamente nell’altro. Il riconoscimento reciproco comporta un senso di appartenenza che è necessario per sentirsi parte della società e, di conseguenza, di sentirsi responsabile di essa.

La relazione, inoltre, gioca un ruolo fondamentale nella creazione di un progetto che permette alle persone di sentirsi credibili agli occhi degli altri e di avere un ruolo riconosciuto da altri, considerati pari. Sentirsi parte di una collettività ci aiuta a condividere il peso delle difficoltà o dei fallimenti, personali e non, e ci permette di sopportare meglio la fatica necessaria al rapportarsi con i conflitti che si generano in noi.

Uno degli aspetti con cui mi confronto spesso in carcere è la “facilità” con cui si precipita nella strada della devianza, le storie che sento sono molto simili: si inizia quasi per gioco, commettendo piccoli reati che altro non fanno che anestetizzare il cervello, facendo diventare l’abuso nei confronti dell’altro l’unico mezzo disponibile per ottenere un riconoscimento illusorio e una sensazione di potere. La devianza è una strada relativamente facile, in cui molto spesso si ottiene tutto e subito, e questo non basta mai. Perché forse, sotto sotto, si sente di non stare facendo alcuna fatica ed è necessario fare fatica per sentirsi appagati.

La costruzione di una relazione sana ci permette di sentirci accolti, accuditi e accompagnati nelle nostre fatiche e di riscoprirci consapevolmente responsabili di esse. La relazione è un contenitore sicuro, nel quale i conflitti possono essere un punto di partenza per una crescita consapevole.

Leggendo “Domanda e risposta” di Sergio Erba, mi sono trovata a riflettere sull’importanza di costruire una relazione tra terapeuta e paziente nella quale la responsabilità della relazione stessa sia distribuita equamente su entrambi. L’istituzione non attribuisce al detenuto nessuna responsabilità, se non quella del reato per cui è condannato, e in questo modo non gli permette di riconoscersi in qualcosa ma alimenta il suo isolamento ed estraniamento dalla società.

Gli anni al Gruppo della Trasgressione mi hanno insegnato che la costruzione di una relazione terapeutica è possibile anche all’interno di un carcere e, soprattutto, la conoscenza di sé è parte fondamentale del processo.

La volontà di approfondire alcuni aspetti di me stessa e riuscire a convivere in modo sereno con essi mi ha spinto ad intraprendere un percorso di analisi personale prima, e la decisione di iscrivermi ad una scuola di psicoterapia dopo.

Sono arrivata al Ruolo un po’ per caso, sentivo di avere il bisogno di iscrivermi ad una scuola perché gli strumenti che avevo non mi bastavano più e mi era, ed è, tornata la voglia di studiare, approfondire e incuriosirmi. Allo stesso tempo però avevo mille dubbi: sarei stata in grado di essere continuativa per quattro anni? E se avessi scelto un approccio non adatto a me? Come faccio a sapere che sarà la scelta giusta?

Credo che uno degli aspetti che mi ha portato a iscrivermi al Ruolo sia, per rimanere in tema, la responsabilità che mi è stata data nel momento della scelta. Questo mi ha consentito di poter essere sincera con me stessa e consapevole di aver scelto in prima persona, per un interesse mio e senza la possibilità di crearmi scuse.

Questo primo anno è stato intenso ed è coinciso con alcuni aspetti importanti della mia vita, tra cui, il compiere trent’anni, la decisione di sposarmi e la perdita di mio nonno. La scuola è stata per me fonte di conoscenza, confronto e ispirazione. Ha giocato anche un ruolo nella mia relazione terapeutica perché mi ha permesso di riscoprirmi paziente ed è stato molto faticoso: come si fa ad essere contemporaneamente paziente e apprendista terapueta? Chissà se il mio terapeuta mi porterà in supervisione? Che tipo di paziente sono io?

Mi sono divertita ad interrogarmi su queste domande e ad interrogare anche il mio terapueta e credo che questo sia stato utile alla nostra relazione.

In conclusione, considero l’inizio di questo percorso come l’inizio di una trasgressione: andare oltre i limiti che mi sono creata e permettermi di crescere sia come persona che come futura terapeuta. Credo che la trasgressione faccia parte dell’essere umano e, se compresa, riconosciuta e incanalata in modo costruttivo, possa essere una spinta potente nella costruzione di un equilibrio personale.

Dopotutto, anche Galileo Galilei è stato un trasgressore, giusto?

Anta Saccani

Il Gruppo della Trasgressione

 

Rispondo dunque sono

Durante uno dei miei primi incontri del Gruppo della Trasgressione a Opera, il professor Aparo disse una frase che mi colpì e che, da un po’ di tempo a questa parte, utilizzo anche io per spiegare di cosa si parla al Gruppo: “A questo tavolo non si parla di carcere.” Ricordo che rimasi abbastanza stupita, ero dentro ad un carcere con una decina di detenuti: di cosa potevamo parlare se non di carcere?

In quel periodo però per parlare dovevo emettere fatture e non volendo pesare eccessivamente sull’associazione, decisi che avrei trovato da sola la risposta alla domanda semplicemente ascoltando. Da due anni a questa parte ho ascoltato storie di genitori e storie di figli, storie di terre del Sud e di povertà, storie di potere, di arroganza e di seduzione, storie di morte e di vittime. Ma anche storie di rivalsa e di cambiamento, storie di responsabilità, di conoscenza e di sensi di colpa, storie d’amore, di vita e di libertà.

Storie di libertà, in un carcere. Com’è possibile?

Sempre più spesso mi capitava di sentire i detenuti dire che il Gruppo permetteva di sentirsi liberi e non capivo: come può una persona sentirsi libera quando è in una condizione di restrizione? Quando deve seguire regole in ogni momento e ogni cosa che gli capita dipende da altri?

La parola libertà io me la sono tatuata sulla pelle a ventidue anni, quando ero in Erasmus a Vilnius. Lì mi sono sentita per la prima volta totalmente libera, lontana da tutto ciò che conoscevo e completamente indipendente. Le prime settimane la libertà per me era poter tornare alle cinque del mattino senza dover rendere conto a nessuno, mangiare patatine sul letto guardando un film senza dover pensare a mettere in ordine le mie cose e poter bere alcolici senza dovermi preoccupare di nasconderlo a mia madre. Con il passare del tempo però la libertà è diventata anche l’essere in grado di fare una lavatrice senza tingere tutto di rosso, l’imparare una nuova lingua da zero ed essere in grado di sostenere gli esami, riuscire ad arrivare a fine mese con un budget tirato e, soprattutto, provare piacere nel chiamare la mia famiglia e condividere con loro la mia crescita. La libertà aveva assunto per me un nuovo significato: ero responsabile di me stessa e quindi, ero libera.

Sono stati gli incontri al Gruppo ad aiutarmi a mettere a fuoco la relazione tra responsabilità e libertà. I diversi confronti permettono infatti una crescita della coscienza che, nella maggior parte dei casi, culmina nella consapevolezza della propria responsabilità, individuale e collettiva. Assumersi la responsabilità delle proprie azioni comporta il raggiungimento di una libertà che non è più la libertà fisica di muoversi e fare quello che più ci piace, diventa libertà di conoscere e accettare noi stessi, con i nostri limiti, pregi, difetti e responsabilità, e imparare a conviverci.

Assumersi le proprie responsabilità non coincide solamente con il confessare i propri reati e il male che è stato fatto: è più un viaggio in profondità, che va a zappare, zolla dopo zolla, sulle convinzioni e sull’identità di una persona. È difficile per me, quindi fatico a immaginare come possa essere per un detenuto scavare nella sua identità e lavorare con il conflitto che si crea inevitabilmente quando si rielabora il proprio passato.

Tuttavia, è proprio il conflitto che spinge le persone a farsi delle domande e permette al detenuto di comprende che, forse, la libertà non l’ha mai conosciuta perché, nella vita, è sempre stato schiavo. Schiavo del potere, dell’arroganza, della facilità e della violenza. Schiavo del brivido e dell’adrenalina che porta una rapina compiuta. Schiavo della Mafia, che gli ha impedito di vedere e riconoscersi nell’altro. Perché la Mafia, alla fine, rende tutti schiavi, che tu sia una vittima, un parente, un soldato o un boss. La consapevolezza della schiavitù instilla il dubbio: ma sono stati i reati che ho commesso a rendermi schiavo oppure è stata l’incapacità di riconoscere l’altro?

La difficoltà è proprio nel riconoscere di essere stati schiavi, perché a ognuno di noi piace pensare di avere il controllo della propria vita e di essere consapevoli delle nostre scelte, di essere indistruttibili. Ma per essere liberi bisogna conoscersi e scoprirsi, portando a galla fragilità che nessuno vuole vedere.

Mi piace pensare al Gruppo come a una squadra di palombari che ci aiuta a portare a galla i nostri pensieri più profondi e, attraverso il confronto, li sostiene fino a che non imparano a galleggiare da soli, permettendoci di riconoscerci in essi.

E adesso capisco perché al tavolo non si parla di carcere: il carcere ti permette di restare immobile e in silenzio per anni, per essere liberi bisogna imparare a crescere e a rispondere di sé.

Percorsi della devianzaReparto LA CHIAMATA