Aprire le porte

Il reparto “La chiamata” per me è speranza: è qualcosa di presente perché dobbiamo attuarlo adesso; è qualcosa di futuro perché deve espandersi nel tempo e nella nostra realtà.

Molte persone non credono nella reintegrazione dei detenuti, si chiedono “ma davvero chi ha commesso dei reati può cambiare?”. E penso che a quest’ultimi e a questa società ci sia bisogno di dare una risposta anche nel concreto. E possiamo farlo con il nuovo reparto.

I detenuti possono cambiare e ritrovare la propria coscienza, ma questo avviene se c’è qualcuno che li guida. Questo progetto ha l’obiettivo di dare un ruolo a tutti i detenuti e agli ospiti in generale che ne faranno parte, dà la possibilità di essere riconosciuti come uomini e come cittadini. È importante sentirsi parte di qualcosa, trovare quegli obiettivi che prima mancavano, capire che non siamo destinati ad essere alienati dalla società.

I detenuti sono uomini che devono ritrovare la propria coscienza e a cui deve essere data la possibilità di esprimersi, di riflettere su sé stessi e sulla realtà che li circonda, devono essere stimolati da professori, studenti, volontari e attraverso attività culturali.

Come si può pensare che una persona possa reintegrarsi se non dispone degli strumenti giusti? Il reparto La chiamata è il punto di partenza che deve aprire la mente non solo alle persone detenute o alle guardie penitenziarie, ma anche a tutto il mondo esterno.

Da parte mia, sento in primo luogo il bisogno di impegnarmi nella diffusione di tutte le attività proposte dal gruppo, il bisogno di sentirmi utile per l’altro.

Tutti noi siamo diversi, ed è questa la bellezza dell’uomo, ognuno di noi ha qualcosa da dare e tanto da acquisire dagli altri. Unire le abilità dei vari membri e metterle a disposizione di tutti è una grandissima risorsa che deve essere sfruttata nel migliore dei modi. Dare qualcosa è fondamentale quanto l’apprendere qualcosa di nuovo. Il reparto ci offre questa possibilità e non possiamo tenerla nascosta. Si devono aprire le proprie porte al mondo nella speranza che esso sia pronto ad accoglierci, affinché cambi finalmente la visione del carcere e del detenuto stesso.

Chiara Palma

Reparto LA CHIAMATA

Diventare cittadini

Chiara Palma – Relazione finale di Tirocinio
Corso di studio: Scienze e Tecniche Psicologiche
Tipo di attività: Stage esterno

A fine settembre 2022 ho deciso di entrare a far parte del gruppo della trasgressione come tirocinante. Ho conosciuto il gruppo per la prima volta a un evento esterno al parco Ravizza di Milano. Le mie sensazioni sono state fin da subito positive, la lettura di alcune poesie dei detenuti e il modo in cui determinati argomenti sono stati affrontati mi hanno fatto capire che era proprio quello che stavo cercando, un’esperienza da vivere a 360 gradi.

Sono entrata per la prima volta ad Opera il 12 ottobre, giornata in cui è iniziato il progetto su Caravaggio e sul suo famoso dipinto “La vocazione di San Matteo”. Ognuno di noi durante questi incontri si è chiesto chi fosse il protagonista, quale emozione esprimesse il volto di Matteo o in che modo gli abiti indossati fossero rilevanti. Secondo il mio punto di vista il quadro, visto nell’insieme, era diviso in due parti: da un lato colui che è stato chiamato (Matteo) e dall’altro il chiamante (Cristo).

Nel dipinto chi è stato chiamato era circondato da altre figure, che potevano avere influenza o meno sulla sua persona. Nella vita spesso siamo chiamati verso qualcosa, ma siamo noi a scegliere che strada prendere, e queste decisioni in alcuni momenti sono condizionate da altri fattori, che possono essere persone, soldi o altri beni materiali. Delle volte, infatti, come è successo per i detenuti, si accetta quella ‘chiamata’ negativa (come la mafia, le rapine o lo spaccio) dove ci si comporta come se non si avesse una coscienza. Si perde il proprio “ruolo”, non facendo emergere le proprie qualità, ma ognuno deve ricercare il proprio posto nel mondo, imparare a riconoscere i propri talenti e “considerare la propria semenza”.

Tutto questo è stato possibile ed è possibile grazie al gruppo della trasgressione, il quale fa sì che i detenuti riescano a compiere un percorso lungo e critico su sé stessi, su quello che hanno commesso e su ciò che hanno provocato alle vittime, per poi raggiungere l’obiettivo principale di ritrovare la coscienza latente.

Sono stata spesso più osservatrice di quello che mi accadeva intorno, rispetto all’essere partecipante attivo, fino a quando il professore mi ha fatto la domanda “e tu cosa ci fai qui?”. Presa dall’emozione, da ciò che era stato raccontato in precedenza, e presa da quella che è la mia situazione personale, sono finita in una valle di lacrime. Nel momento in cui mi è stata fatta la domanda mi sono tornati in mente tantissimi momenti che io ho passato quando una persona a me cara è stata in carcere. Il momento in cui a 12/13 anni sono entrata nel carcere di Poggioreale e quello in cui finalmente quella persona è uscita di prigione. Un mix di emozioni che mi hanno fatto entrare in empatia con i detenuti e con quella che è tutta la sfera familiare che li circonda.

Ma tutto questo non era nei miei piani, non avrei voluto piangere e non avrei voluto mostrare questa mia fragilità, e mi chiedo perché. Perché ho paura di esprimere i miei sentimenti? Forse per paura di essere giudicata, di dire la cosa sbagliata, di non essere semplicemente all’altezza? Probabilmente mi pongo sempre il limite di osservare le situazioni, non riuscendo a mettere in gioco quelle che sono invece le mie abilità, ma mi rendo conto, incontro dopo incontro, che il gruppo sta smussando questo mio limite. Grazie al gruppo ho capito l’importanza della relazione, del dialogo, dell’ascolto. Il metodo utilizzato dal gruppo fa si che tutti possano scambiarsi idee e opinioni, e vorrei riuscire a partecipare di più, far emergere quella che sono, ma anche questo è un percorso personale e piano piano so che potrò farcela.

Sono stati motivo di riflessione anche gli incontri su “Delitto e Castigo”, in particolare quando ci siamo posti il quesito “Raskolnikov aveva una coscienza, ma i detenuti l’hanno sempre avuta oppure no?”. Le risposte ci hanno fatto constatare che la coscienza c’è sempre stata nella loro vita, ma ad un certo punto era diventata una minaccia, un ostacolo, qualcosa da zittire e annullare per concentrarsi su un altro obiettivo, tant’è che Ignazio ha parlato addirittura di “coscienza bugiarda e vigliacca”.

L’importante è però riuscire a fare riemergere questa coscienza, a modellarla e renderla il proprio “strumento di libertà”. Una frase che mi è rimasta molto impressa da questi incontri è stata quella di Paolo Setti Carraro: “Accettare l’amore degli altri è importante, quando si capisce di essere amati, si inizia ad amare l’altro”. L’amore ha un forte potere anche secondo me, abbiamo bisogno di sentirci compresi, di avere qualcuno su cui poter contare e un luogo di conforto dove potersi riparare, a cui a nostra volta diamo amore.

Nella maggior parte dei casi, i detenuti non hanno questo supporto né l’amore che può dare un gruppo, come quello della trasgressione, e dunque vengono abbandonati a sé stessi. Prima di entrare in carcere come studentessa di psicologia non avevo mai sentito parlare di un gruppo che facesse ricercare l’uomo e la consapevolezza che si era persa. Non avevo mai sentito parlare di professori o psicologi che lavorassero così sulla rieducazione dei detenuti, ma non ne sono rimasta stupita, bensì mi ha fatto pensare “caspita menomale”. Menomale che c’è questo gruppo, che sia un punto di partenza per lo sviluppo di altri gruppi o un’unica organizzazione che si amplierà. Perché ci spero, spero che tutto quello che il gruppo della trasgressione ha fatto, e che fa, venga diffuso e che la società inizi a formulare un pensiero diverso nei confronti di chi è in carcere.

Quando mi capita di parlare con i miei colleghi, amici o conoscenti, della mia esperienza, tutti mi dicono “no, io non ce la farei”, come se stessi entrando in contatto con extraterrestri. Le persone non si rendono conto che anche i detenuti sono uomini, quando spiego cosa si fa al gruppo e tutte le testimonianze sulla presa di coscienza, loro sono sempre scettici, ma forse perché non sono in grado di esprimere a parole quello che questa esperienza riesce a dare?

Come dice il prof Aparo: “Tutti possono potenzialmente diventare cittadini utili, se si lavora per raggiungere il risultato”. Penso che per cambiare le cose e far sviluppare una maggior consapevolezza del percorso che queste persone compiono si debba vivere l’esperienza, cosa che auguro a chiunque, perché a me ha dato tanto, sia professionalmente che personalmente, e non posso fare altro che ringraziare detenuti, ex detenuti, professori, volontari e colleghi, per questa grande opportunità di crescita.

Chiara Palma

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