Tra l’ospedale e Delitto e Castigo

Dott Aparo, scrivo questa sorta di accompagnamento allo scritto non per giustificarmi ma per chiarire alcune cose. Ne approfitto anche per scusarmi di non essere sceso al gruppo ma ho dolori a tutte le ossa, in più la mia vena polemica è abbastanza amplificata rendendomi più antipatico del solito.

Allora, prima di andare in ospedale Nunzio Galeotta ha iniziato a stressarmi come al solito, dicendomi che avrei potuto sfruttare il tempo che avrei trascorso in ospedale per fare uno scritto.

“Stai là, tanto vale che impegni il tempo per fare uno scritto, magari per le scuole”. Gli ho risposto che non era cosa, dato che dal periodo di Natale vivo un forte conflitto con mio figlio, per cui non mi sentivo di scrivere ai ragazzi delle scuole. Allora lui mi fa: “va bene, allora scrivi qualcosa sul mito di Sisifo, oppure su Delitto e Castigo, tanto sono argomenti che tratteremo, per cui tornerà sempre utile”.

Non so perché,  ma ho una specie di repulsione verso il mito di Sisifo… non mi entra in testa in alcun modo. Dopo nemmeno 10 minuti il mio cervello in automatico cancella tutte le informazioni sul tema rendendomelo quindi antipatico!

Non restava quindi che trattare Delitto e Castigo. Ma in ospedale le cose non sono andate in modo tale da permettermi di avere la “serenità di scrivere”, oltre alla mia riluttanza proprio nell’atto pratico. Quando sono ritornato me lo sono pure dovuto sciroppare, in quanto Nunzio mi rimproverava del fatto che in 24 giorni non ero stato in grado di scrivere nemmeno degli appunti da poter usare più avanti.

E così, appena rientrato dall’ospedale, è tornato alla carica, dato anche che l’ultimo convegno era incentrato proprio su Delitto e Castigo.

Tutto questo è per dirvi: Caro Prof, è inutile che mi fate quelle guardate come a dire “ma che scendi a fare se non hai niente da dire?”. 

Ho già lui che mi stressa, non vi ci mettete pure voi.

Antonio Antonucci


Se dobbiamo fare una sorta di analisi del testo non possiamo non dire che è un MATTONE… è complesso non solo nei termini, ma anche nel farsi seguire come narrazione! Almeno per me!!

Anzi, se penso alla spiegazione del Dott. Cajani che ci accompagnava nel racconto, allora dico che è normale che oggi la gente preferisce ascoltare i libri anziché leggerli.

Ci sono diverse analogie con il personaggio di Raskol’nikov che si possono evidenziare; in più credo che un titolo e una storia così, abbiano motivato a  riflettere molti di noi del gruppo “interno”.

In primis è il DELITTO, la privazione della vita, il sentirsi letteralmente superiore all’altro, tanto da poterne decidere il destino, quindi certamente in linea con la maggior parte di noi, che abbiamo fatto parte di associazioni di stampo mafioso. Stavamo attenti a restare impuniti, proprio come Raskol’nikov con il suo delitto perfetto. Peccato però che poi non sia andata così!

Poi altre riflessioni più personali, per esempio il personaggio del giudice istruttore che mi ha fatto ripensare al mio P.M. ai tempi del “minorile”, il quale per aiutarmi mi faceva prendere il minimo della pena, addirittura facendo derubricare reati, diventando quasi difensore e non più accusatore. Il giudice istruttore capisce la colpa di Raskol’nikov, ma comunque non lo arresta subito, anzi cerca di fargli ammettere le proprie responsabilità. Questo avviene anche grazie al sentimento che nasce tra il protagonista e Sonia, una prostituta (costretta a farlo per sfamare la famiglia), che per amore lo costringe a guardarsi dentro.

Anche qui vedo un’analogia in quanto il primo accenno di cambiamento l’ho avuto quando la madre di mio figlio è entrata nella mia vita ricoprendo un ruolo importante, appunto come Sonia nel romanzo di Dostoevskij.

La figura dell’uomo “superiore” al quale tutto è lecito , tutto è permesso, ma anche la stessa convinzione di uscire dalla miseria; è vero, l’usuraia è una donna perfida che sfrutta la disperazione altrui, ma la sorella è stata uccisa, nonostante non avesse niente a che vedere con queste cose. Una “vittima collaterale”, come le tante che hanno prodotto una parte di noi che siamo seduti a questo tavolo.

Volevo dire qualcosa anche sugli oggetti portati dal Dott. Cajani, ma adesso non me ne viene in mente nemmeno uno.

Ultimamente ho problemi di memoria, oltre ad avere i “pensieri confusi, a guerr n’cap”, però l’ultima analogia la voglio scrivere, perché riguarda il Professor Aparo. Secondo me, può essere associato alla figura della prostituta… vi prego dall’astenervi nel fare sorrisini e battute fuori luogo. Può anche essere associato alla figura del giudice. Entrambi questi personaggi entrano in relazione con l’aspetto psicologico del protagonista, inducendolo, in modi diversi, al confronto con se stesso.

Antonio Antonucci

Delitto e Castigo

Marisa e Paolo in aula Dostoevskij

“In carcere?!”

E’ questa la reazione media delle persone alle quali racconto dell’esperienza alla quale ho avuto la fortuna di partecipare, tutte tra lo stranito e il preoccupato per il mio entusiasmo all’idea di mettere piede (e testa) in un luogo del genere.

Mi sono resa conto sempre di più che il carcere è un mondo a porte chiuse, dall’esterno è pressoché impossibile comprendere lo slancio e la voglia, quasi l’urgente bisogno di chi cerca di rendersi utile in tale ambiente. Di chi cerca, in sostanza, di fare il proprio dovere di cittadino.

Tanto le persone non cambiano, non ne vale la pena.”
“Ma non hai paura a stare o a parlare con loro?”
“E’ un mondo così pesante, ma chi te lo fa fare?”

Penso che ciascuno di noi potrebbe molto contribuire all’elenco di luoghi comuni e pregiudizi che sente ogni giorno appena pronuncia la fatidica parola “carcere”. Tuttavia, proprio per questo motivo è importante parlarne. Ammetto di avere provato anche un po’ di soddisfazione nel vedere nelle facce di amici, parenti e addirittura un taxista tanti bei preconcetti un po’ messi in discussione al sentire cosa stavamo portando avanti a Opera.

Ci sono esperienze che segnano un prima e un dopo e, senza dubbio, “Delitto e castigo” è tra queste. L’impatto umano di questi incontri mi ha segnato profondamente.

Innanzitutto, sento di dover ringraziare gli ideatori di questo progetto, Cajani e Juri, perché ci hanno insegnato a crederci. E’ difficile pensare di poter cambiare il mondo, però si può certamente cambiare il pezzetto di terra che ci circonda. Basta “semplicemente” volerlo e attivarsi in tal senso, con onestà e dedizione, come ci è stato mostrato.

Il dott. Nobili è stata una presenza rassicurante, non solo per l’enorme esperienza da elargire, ma anche perché ha reso tangibile il fatto che sia possibile fidarsi delle istituzioni, anche se non di tutte. Sono “credibili, serie, rispettose e rispettabili” solo le istituzioni costituite da uomini e non da funzionari. Credo che per avere anche solo una vaga idea di chi sia il dott. Nobili bastino le parole di Emanuele, uno dei detenuti, che durante uno degli incontri ha reso noto allo stesso magistrato che all’interno del carcere egli viene definito “severo, serio e umano” dagli stessi detenuti.

Banalizzando e pensando allo schema di un gioco come ‘guardie e ladri’, credo non sia affatto scontato il riconoscere l’uomo dentro a chi, dal tuo punto punto di vista, ti dà la caccia: chi nella tua storia ha il ruolo del cattivo.

Sorge spontanea una domanda: cosa ho imparato?

Innanzitutto, ho imparato fin dove si può arrivare. L’ultimo incontro è stato scandito dalle parole di Juri che cercava in ogni modo di farci riflettere su quale fosse il bagaglio culturale e di esperienza che avremmo portato a casa a fine ciclo di incontri. A parer mio, il fulcro è che tutti possono cambiare, ma non tutti vogliono. Di conseguenza, il nostro compito è quello di far vedere ai detenuti che ci sono alternative, che c’è una seconda possibilità anche per loro, ma che dipenderà proprio da loro il coglierla o il continuare a vivere nell’irrimediabile antitesi tra la “società degli esclusi” e la “società di quelli che escludono”, cioè, a parer loro, noi.

Un carcere che funziona punisce perché deve, ma responsabilizza perché vuole. I detenuti, nella maggior parte dei casi, poi rientreranno in società, quindi è assolutamente necessario far capire loro che diritti e doveri vanno di pari passo e che, per partecipare a pieno titolo ad un determinato “gioco”, è fondamentale rispettarne le regole. Allo stesso modo, è necessario trovare chi queste regole sia disposto a insegnargliele, con pazienza e cercando di parlare “la loro lingua”, e poi trovare chi sia disposto a “giocare” con loro.

Fuor di metafora, è nostro compito tendere loro una mano, convincerci e far comprendere alla società civile che il carcere non è un posto dove parcheggiare gente scomoda, in attesa che ci si scordi di loro, perché tanto loro non saranno mai come noi. Il carcere è un male necessario, ma non sufficiente affinché i detenuti si ricordino di essere e si riconoscano uomini, con tutto ciò che questo comporta nei confronti di se stessi e degli altri.

Credo che la vera sfida arriverà quando dovremo essere noi a condurre i detenuti, sin dall’inizio, lungo questo tortuoso percorso, perché finora noi abbiamo visto se non percorsi conclusi, per lo meno percorsi iniziati.

Ho anche imparato che ho ancora tanto da imparare. Indipendentemente da quale sarà il mio specifico ruolo nel mondo del Diritto, per essere credibile, seria, rispettosa e rispettabile come persona credo di aver bisogno di confrontarmi ancora con chi ci è riuscito, che si tratti di magistrati che vivono il proprio ruolo e le proprie responsabilità in un certo modo o di familiari di vittime che non hanno demonizzato e anzi hanno teso una mano. Ci sono poi i detenuti, che stanno con fatica imparando a mettersi in discussione e a “osservarsi dall’esterno”, ora con gli occhi dei familiari delle vittime, ora con quelli dei magistrati, ora con quelli degli studenti, ora con quelli dei loro stessi familiari.

Questa molteplicità di punti di vista, che io ho avuto la fortuna (e in alcuni casi l’onore) di vivere in prima persona, dovrebbe essere la prassi e non l’iniziativa che fa scalpore a livello nazionale. E’ necessario che la società entri in carcere e che chi sta dentro al carcere esca fuori. E’ necessario ricordarsi che le mura del carcere hanno delle porte e che queste porte vanno usate.

“Chi sono io? Perché sono così? Che genitori ho avuto? Che incontri ho avuto? Cosa voglio farne di ciò che sono?

Questi interrogativi di Cajani durante uno degli incontri mi colpirono profondamente, facendo anche riaffiorare qualche reminiscenza liceale sul contrasto tra Nomos e Physis.

Un discorso è chiedersi chi sei, altro è chiedersi cosa tu decidi di fare con ciò che sei. Credo non sia affatto indifferente o scontata la presa di responsabilità e consapevolezza che implica e consegue all’accettare che abbiamo non solo la possibilità, ma anche il dovere e la responsabilità di scegliere. Fare i conti con cos’hai fatto e con cos’hai fatto di te stesso ritengo sia il fulcro del percorso rieducativo dei detenuti.

L’ultimo elemento sul quale mi soffermerò è un aspetto sul quale non avevo mai realmente riflettuto prima di questi incontri: il mondo della Giustizia è profondamente, quasi intrinsecamente, permeato di dolore. Dolore di chi subisce. Dolore di chi commette, perché significa che c’è una sottostante situazione di disagio più o meno consapevole. Dolore di chi condanna, perché non si priva qualcuno della libertà a cuor leggero. Dolore di coloro che stanno accanto a tutte queste persone.

Probabilmente anche per questo motivo, maggiore è il livello di consapevolezza che si prende di tali dinamiche ed equilibri (o forse squilibri), più quell’illusione di poter fare del bene diventa un’urgenza, un bisogno quasi spasmodico di toccare personalmente con mano ciò che non funziona e provare ad aggiustarlo.

Tra tutti, sono sicuramente quelli con Marisa e Paolo i due incontri che più mi hanno segnato. A seguito di un reato, mentre il pubblico è concentrato sul reo (rischiando di alimentare le sue manie di protagonismo), la vittima spesso priva di nome passa subito in secondo piano, priva di una qualsiasi caratterizzazione o attenzione. Il reo è una persona, la vittima è un’ombra. Figurarsi i familiari di quest’ultima.

Marisa e Paolo hanno invece dimostrato con il loro vissuto che probabilmente è proprio loro il ruolo principale nel percorso rieducativo dei detenuti. L’impegno profuso in iniziative come questa, il coraggio di ascoltare e instaurare una reale comunicazione con chi alle parole ha sempre preferito altri mezzi, la forza di tendere loro la mano e il profondo e sincero rispetto con cui li ho sempre visti trattare i detenuti sono qualcosa di incredibile.

Vedere Marisa abbracciare i detenuti, vedere questi ultimi provare nei suoi confronti quello che potrei definire sincero affetto e sentire lei stessa interrogarsi su come fosse possibile per lei essere diventata in un certo senso amica di alcuni di loro: serve tempo per metabolizzare a pieno tutto ciò, per comprenderne fino in fondo il peso e il valore.

Quest’esperienza più che risposte, perché infatti me ne ha date ben poche, mi ha piuttosto regalato domande e uno sprone a pormene altre ancora. E’ bene interrogarsi su tutto ciò che ci circonda e, soprattutto, su chi ci circonda. Lo stesso dott. Nobili ha sottolineato quanto sia importante vivere nella cultura del dubbio.

E tra tutti gli interrogativi che dopo quest’esperienza continueranno ad accompagnarmi per un bel po’, ce n’è uno in particolare per il quale, mio malgrado, non riesco a trovare neanche un principio di risposta: dove si trova il coraggio di non lasciarsi incattivire dal dolore?

Elena Tribulato

Delitto e Castigo

 

L’abuso come ascensore di casta

La complessa opera di Delitto e Castigo fornisce molti spunti di riflessione su cui è possibile confrontarsi. Primariamente il protagonista del romanzo, a seguito di un conflitto interiore, decide di uccidere una vecchia usuraia.

Questo fatto centrale, già di per sé, avvicina i detenuti all’opera, in quanto alcuni di essi hanno commesso la stessa azione e, in generale, il protagonista si discosta dalla via del lecito compiendo un atto di trasgressione in cui i carcerati si possono riconoscere.

Nel corso degli incontri ci si è chiesti se potesse essere utile per i detenuti affrontare un’iniziativa su quest’opera. Il protagonista del romanzo, infatti, vive la decisione dell’omicidio in modo diverso rispetto a quanto accaduto per molti di loro.

Nonostante ciò, i detenuti che frequentano il Gruppo della Trasgressione, hanno imparato ad affrontare quello stesso conflitto, soltanto che sono stati in grado di viverlo a seguito dei loro reati.

Inoltre, a mio avviso, l’iniziativa è utile in quanto Dostoevskij è in grado di rivelare la complessità del mondo interiore dei protagonisti e questa caratteristica avvicina e apre la prospettiva di tutti i lettori. Portare questo romanzo in carcere, inoltre, dimostra a tutti noi quanto si possa ricavare dalla lettura: la bellezza di immergersi in un mondo, di ritrovarsi in certe azioni, caratteristiche e stati d’animo.

Personalmente non ho potuto vivere l’esperienza dei cinque incontri all’interno del carcere di Opera, ma ho “soltanto” ascoltato e condiviso le riflessioni che sono state svolte durante gli incontri con gli esterni. Eppure, nonostante questi incontri fissi non fossero obbligatoriamente centrati su Delitto e Castigo, ho notato come diversi detenuti abbiano messo il romanzo al centro delle riflessioni che condividevano, intrecciando le loro impressioni riguardo all’opera con ciò che hanno vissuto durante la loro vita, soprattutto relativamente alle esperienze vissute prima della detenzione.

In tali riflessioni alcuni di essi si ritrovavano nel personaggio di Raskol’nikov, in quanto vedevano loro stessi come dei pidocchi che hanno tentato di entrare  nella categoria degli eletti commettendo degli abusi, proprio come ha fatto il protagonista del romanzo.

Ma la teoria dei pidocchi e degli eletti, in fondo, non è applicabile anche alla quotidianità di tutti noi? Non è frequente ogni tanto sentirsi persone ordinarie, e altre, invece, qualcuno con qualcosa da dare al mondo?

E ancora, a volte non ci impegniamo a fondo nelle cose per dimostrare a noi stessi di valere, proprio come ha fatto Raskol’kov nel suo tentativo di sentirsi un eletto?

Elisa Parravicini

Delitto e Castigo

Diventare cittadini

Chiara Palma – Relazione finale di Tirocinio
Corso di studio: Scienze e Tecniche Psicologiche
Tipo di attività: Stage esterno

A fine settembre 2022 ho deciso di entrare a far parte del gruppo della trasgressione come tirocinante. Ho conosciuto il gruppo per la prima volta a un evento esterno al parco Ravizza di Milano. Le mie sensazioni sono state fin da subito positive, la lettura di alcune poesie dei detenuti e il modo in cui determinati argomenti sono stati affrontati mi hanno fatto capire che era proprio quello che stavo cercando, un’esperienza da vivere a 360 gradi.

Sono entrata per la prima volta ad Opera il 12 ottobre, giornata in cui è iniziato il progetto su Caravaggio e sul suo famoso dipinto “La vocazione di San Matteo”. Ognuno di noi durante questi incontri si è chiesto chi fosse il protagonista, quale emozione esprimesse il volto di Matteo o in che modo gli abiti indossati fossero rilevanti. Secondo il mio punto di vista il quadro, visto nell’insieme, era diviso in due parti: da un lato colui che è stato chiamato (Matteo) e dall’altro il chiamante (Cristo).

Nel dipinto chi è stato chiamato era circondato da altre figure, che potevano avere influenza o meno sulla sua persona. Nella vita spesso siamo chiamati verso qualcosa, ma siamo noi a scegliere che strada prendere, e queste decisioni in alcuni momenti sono condizionate da altri fattori, che possono essere persone, soldi o altri beni materiali. Delle volte, infatti, come è successo per i detenuti, si accetta quella ‘chiamata’ negativa (come la mafia, le rapine o lo spaccio) dove ci si comporta come se non si avesse una coscienza. Si perde il proprio “ruolo”, non facendo emergere le proprie qualità, ma ognuno deve ricercare il proprio posto nel mondo, imparare a riconoscere i propri talenti e “considerare la propria semenza”.

Tutto questo è stato possibile ed è possibile grazie al gruppo della trasgressione, il quale fa sì che i detenuti riescano a compiere un percorso lungo e critico su sé stessi, su quello che hanno commesso e su ciò che hanno provocato alle vittime, per poi raggiungere l’obiettivo principale di ritrovare la coscienza latente.

Sono stata spesso più osservatrice di quello che mi accadeva intorno, rispetto all’essere partecipante attivo, fino a quando il professore mi ha fatto la domanda “e tu cosa ci fai qui?”. Presa dall’emozione, da ciò che era stato raccontato in precedenza, e presa da quella che è la mia situazione personale, sono finita in una valle di lacrime. Nel momento in cui mi è stata fatta la domanda mi sono tornati in mente tantissimi momenti che io ho passato quando una persona a me cara è stata in carcere. Il momento in cui a 12/13 anni sono entrata nel carcere di Poggioreale e quello in cui finalmente quella persona è uscita di prigione. Un mix di emozioni che mi hanno fatto entrare in empatia con i detenuti e con quella che è tutta la sfera familiare che li circonda.

Ma tutto questo non era nei miei piani, non avrei voluto piangere e non avrei voluto mostrare questa mia fragilità, e mi chiedo perché. Perché ho paura di esprimere i miei sentimenti? Forse per paura di essere giudicata, di dire la cosa sbagliata, di non essere semplicemente all’altezza? Probabilmente mi pongo sempre il limite di osservare le situazioni, non riuscendo a mettere in gioco quelle che sono invece le mie abilità, ma mi rendo conto, incontro dopo incontro, che il gruppo sta smussando questo mio limite. Grazie al gruppo ho capito l’importanza della relazione, del dialogo, dell’ascolto. Il metodo utilizzato dal gruppo fa si che tutti possano scambiarsi idee e opinioni, e vorrei riuscire a partecipare di più, far emergere quella che sono, ma anche questo è un percorso personale e piano piano so che potrò farcela.

Sono stati motivo di riflessione anche gli incontri su “Delitto e Castigo”, in particolare quando ci siamo posti il quesito “Raskolnikov aveva una coscienza, ma i detenuti l’hanno sempre avuta oppure no?”. Le risposte ci hanno fatto constatare che la coscienza c’è sempre stata nella loro vita, ma ad un certo punto era diventata una minaccia, un ostacolo, qualcosa da zittire e annullare per concentrarsi su un altro obiettivo, tant’è che Ignazio ha parlato addirittura di “coscienza bugiarda e vigliacca”.

L’importante è però riuscire a fare riemergere questa coscienza, a modellarla e renderla il proprio “strumento di libertà”. Una frase che mi è rimasta molto impressa da questi incontri è stata quella di Paolo Setti Carraro: “Accettare l’amore degli altri è importante, quando si capisce di essere amati, si inizia ad amare l’altro”. L’amore ha un forte potere anche secondo me, abbiamo bisogno di sentirci compresi, di avere qualcuno su cui poter contare e un luogo di conforto dove potersi riparare, a cui a nostra volta diamo amore.

Nella maggior parte dei casi, i detenuti non hanno questo supporto né l’amore che può dare un gruppo, come quello della trasgressione, e dunque vengono abbandonati a sé stessi. Prima di entrare in carcere come studentessa di psicologia non avevo mai sentito parlare di un gruppo che facesse ricercare l’uomo e la consapevolezza che si era persa. Non avevo mai sentito parlare di professori o psicologi che lavorassero così sulla rieducazione dei detenuti, ma non ne sono rimasta stupita, bensì mi ha fatto pensare “caspita menomale”. Menomale che c’è questo gruppo, che sia un punto di partenza per lo sviluppo di altri gruppi o un’unica organizzazione che si amplierà. Perché ci spero, spero che tutto quello che il gruppo della trasgressione ha fatto, e che fa, venga diffuso e che la società inizi a formulare un pensiero diverso nei confronti di chi è in carcere.

Quando mi capita di parlare con i miei colleghi, amici o conoscenti, della mia esperienza, tutti mi dicono “no, io non ce la farei”, come se stessi entrando in contatto con extraterrestri. Le persone non si rendono conto che anche i detenuti sono uomini, quando spiego cosa si fa al gruppo e tutte le testimonianze sulla presa di coscienza, loro sono sempre scettici, ma forse perché non sono in grado di esprimere a parole quello che questa esperienza riesce a dare?

Come dice il prof Aparo: “Tutti possono potenzialmente diventare cittadini utili, se si lavora per raggiungere il risultato”. Penso che per cambiare le cose e far sviluppare una maggior consapevolezza del percorso che queste persone compiono si debba vivere l’esperienza, cosa che auguro a chiunque, perché a me ha dato tanto, sia professionalmente che personalmente, e non posso fare altro che ringraziare detenuti, ex detenuti, professori, volontari e colleghi, per questa grande opportunità di crescita.

Chiara Palma

Delitto e CastigoCaravaggio in cittàTirocini

Conversando con Raskol’nikov

Domani, 30 novembre 2022, avremo nel carcere di Opera l’ultimo dei 5 incontri su Delitto e Castigo. Stanno partecipando all’iniziativa ex criminali, studenti, docenti, magistrati, persone ferite dalla criminalità organizzata.

Servizio di Maria Chiara Grandis

Nella giornata conclusiva di domani, Francesco Cajani e io porremo a noi stessi e a tutte le persone che hanno contribuito all’iniziativa le seguenti domande:

  • Quali erano gli obiettivi dell’iniziativa?
  • Cosa abbiamo messo in tasca in queste 5 giornate?
  • Che uso personale possiamo farne?
  • Se si ritiene che ne valga la pena, cosa, in quali ambiti e con quali modalità rilanciare il lavoro su  Delitto e Castigo?

Nel cammino della scienza, è buona norma dichiarare con quali domande si va dentro un laboratorio ed è ancora più importante rendere pubblici i risultati e le risposte che, a seguito della ricerca, si pensa di avere ottenuto.

Credo che lo studio della devianza e gli interventi per prevenirla e curarla debbano essere trattati come una scienza. Se considero la portata dei danni economici e affettivi che la criminalità causa nella nostra società, trovo più che ragionevole assumere nei confronti della materia l’atteggiamento che qualsiasi ricercatore ha nei confronti di ciò di cui si occupa: Materiali, Variabili, Procedure di una ricerca devono essere resi pubblici per permettere a chi non c’era di verificare, criticare, ottimizzare, proporre alternative; in sintesi, contribuire alla evoluzione della conoscenza del problema e dei mezzi per trattarlo.

Pertanto, cari studenti di giurisprudenza, cari componenti del gruppo della trasgressione e cari professori, a conclusione del nostro viaggio tra eletti e pidocchi (io ondeggio fra le due categorie da sempre e cerco ancora oggi la mia alternativa al delirio di Raskol’nikov), visto che siamo entrati tutti nel laboratorio, per favore, facciamo ciascuno il resoconto della nostra esperienza, come si addice alle persone che frequentano i laboratori.


Da LPT Studio

Delitto e Castigo

Il conflitto, tra dolore e privilegio

Questi incontri nell’ambito del progetto “Delitto e Castigo” all’interno del carcere di Opera costituiscono per me un’occasione di crescita professionale e personale. Sono all’ultimo anno di Giurisprudenza e sto giungendo al termine del mio percorso universitario. Ambisco a formarmi non solo come Giurista con una coscienza etica, ma vorrei poter anche agire come Operatore del diritto con radici in un’esperienza umana vissuta autenticamente.

Questi incontri mi permettono di fare un’esperienza reale mettendo in gioco e confrontando le mie competenze tecniche acquisite ad oggi: entrare in Carcere è stato come sperimentare una giostra di emozioni ed è stato, soprattutto, fonte di tante domande. Torno a casa con una serie di quesiti irrisolti, principalmente su come porsi nei confronti delle persone detenute, e credo che solo gli anni e l’esperienza riusciranno a darmi una corretta risposta.

Nel primo incontro, quando i detenuti hanno raccontato la loro esperienza giustificando, o meglio, cercando di contestualizzare le ragioni dei reati commessi, ho provato molto scetticismo e mi sono chiesta se la parola comprensione o simpatia fosse appropriata per le mie emozioni. Forse la comprensione nasce dalla competenza che si può sviluppare con una maturità professionale, che da studente non ho ancora.

Ho sempre immaginato il diritto come applicazione scientifica della legge con riferimento a situazioni che, seppur peculiari, avrebbero potuto essere categorizzate e giudicate. Invece, attraverso questa esperienza mi rendo conto che c’è molto di più: ci sono delle persone, delle intenzioni, dei familiari, dei percorsi, dei ripensamenti, delle emozioni. E, dietro tutto ciò, degli esperti e diverse figure professionali: lo psicologo clinico, il Magistrato, il Direttore del carcere che combattono tutti i giorni per garantire la riuscita di un percorso trattamentale.

Sono molte le figure che operano in carcere con i detenuti e che forniscono degli strumenti di crescita e speranza a chiunque voglia coglierli, creando spazi dove il detenuto può ritrovare sé stesso per costruire da dentro il suo possibile fuori. La comprensione o la simpatia nei confronti dei detenuti, ad oggi, non fa ancora parte del mio pensiero, ma la consapevolezza che l’ascolto sia una perla preziosa dalla quale si può imparare molto, sì! Magari non per immedesimarsi, perché non ritengo che questo sia il mio compito, ma per cercare di capire con intelligenza e razionalità.

Nel secondo incontro, la chiave ad alcune mie domande è stata fornita dal dott. Aparo, con riferimento al concetto di conflitto nel delirio di Raskol’nikov e alla sua presenza o assenza prima della commissione di un reato. La possibile causa della devianza potrebbe risiedere nella mancanza o, addirittura, nella ricerca del conflitto stesso. Il conflitto è un privilegio o una dannazione? Credevo di non essere in grado di dare una risposta a questa domanda, ma credo di averlo capito nel momento in cui ho visto Nunzio commuoversi nel ricordo di sua madre e ho visto Marisa, madre di una vittima di un’associazione criminale, mettergli una mano sulla spalla e rincuorarlo.

Ho visto che quello che in passato era stato il senso di onnipotenza del reo era astato anche uno strumento per coprire un baratro di fragilità e di insicurezze. Questo mi ha portato a comprendere l’importanza del conflitto interiore in un uomo e a condannare l’onnipotenza incosciente che lo disumanizza e lo rende criminale. Il vantaggio di una intensificazione della coscienza lo capii in quel momento e il mio pregiudizio e giudizio nei confronti dei detenuti è stato superato.

Tutti nella vita ci troviamo a scegliere, seppur nel nostro piccolo, tra la strada più facile e quella più difficile. Per questo, è bello vedere in questi incontri un’umanità che si confronta, che si racconta seppur da vite, ruoli, famiglie, storie diverse. Ho ammirato il Magistrato Dott. Alberto Nobili, quando ha ringraziato il detenuto Pasquale per il percorso svolto, così facendomi comprendere l’immensità e la serietà della parola giustizia.

È questa la mia idea di Stato, un’Istituzione che sia consapevole del senso di umanità e che con umiltà ringrazia quando, anche grazie al detenuto, la giustizia e un senso superiore dello Stato riescono ad essere salvezza per la vita di molti.

Mi sento fortunata e onorata di avere l’opportunità di partecipare a questa esperienza e di provare ad essere ponte per una comunicazione con l’esterno. Cercherò, nel mio piccolo, di dare parola nel contesto quotidiano in cui vivo a chi ha meno o diversi strumenti per farlo dall’interno. Grazie.

Elisa Civolani

Delitto e Castigo

Un Adolescente tra Eletti e Pidocchi

Penso che uno degli aspetti degni di nota del personaggio di Raskol’nikov, prima ancora del delirio che lo spinge a commettere l’omicidio, sia la sua età. Un giovanissimo ragazzo che, per il timore di rientrare nella categoria dei cosìddetti ‘’pidocchi’’, cerca assiduamente di meritare quella degli ‘’eletti’’.

Il romanzo offre la possibilità di scorrere tra i pensieri del protagonista e, pagina dopo pagina, ho avuto l’impressione che l’apparente sicurezza che Raskol’nikov tenta di dimostrare, agli altri ma soprattutto a se stesso, non sia altro che il tentativo di distaccarsi dalla classe delle persone comuni, alla quale, in verità, sa di appartenere.

Nella sua mente è un continuo contraddirsi; Raskol’nikov si sforza di interpretare la parte di chi è consapevole delle proprie azioni, eppure non c’è un momento in cui egli si senta realmente certo della correttezza di esse.

Egli è, però, così intento a dare prova della sua intelligenza che, a tratti, arriva a convincersi di aver fatto la scelta giusta; il dubbio, tuttavia, non lo abbandona mai.

In tutto questo ho percepito l’insicurezza di un adolescente, che lui stesso ha tentato di mascherare con la presunzione di chi è superiore; io, personalmente, non gli ho creduto un istante.

Tutto ciò è indicatore di un incessante malessere; che sia attorniato da persone o che si trovi isolato, smarrito tra i suoi pensieri, Raskol’nikov è in un continuo stato di sofferenza; non è in grado di riconoscere chi gli sta intorno né, tanto meno, se stesso, e si nega la possibilità di sentirsi parte di ciò che lo circonda; si zittisce ogni volta che si accorge di provare sentimenti, forse perché teme che siano questi ultimi a impedirgli di superare chi ha di fronte.

Ciò è riconducibile alle storie dei detenuti che si raccontano al Gruppo; la polverizzazione della coscienza, oltre ad essere uno dei concetti protagonisti del progetto, è un passaggio necessario affinché si possa calpestare l’altro e, alle volte, se stessi.

Beatrice Ajani

Delitto e Castigo

A cosa serve il confitto?

I conflitti sono presenti nella quotidianità di tutte le persone e non di rado accade che molti di noi cerchino di superarli inventando giustificazioni e classificazioni improbabili. A questo proposito, mi sembra interessante analizzare il conflitto che si presenta nel famoso romanzo “Delitto e Castigo” di Dostoevskij, per poi metterlo a confronto con le esperienze personali raccontate da alcuni componenti del gruppo della trasgressione del carcere di Opera.

Il protagonista del romanzo “Delitto e Castigo”, Raskòl’nikov, un giovane e indigente studente di Giurisprudenza di San Pietroburgo, uccide un’avida usuraia al fine di incamerarne le ricchezze e risolvere così i propri problemi economici. L’omicidio vero e proprio è qui preceduto da una sorta di tormentata preparazione psicologica del protagonista, nella quale egli fantastica più volte di uccidere la donna, mentre monta dentro di sé una perversa morale finalizzata a giustificare l’efferatezza del proprio atto.

Ed è qui che il giovane Raskòl’nikov cerca di superare il conflitto dividendo le persone in due categorie. La prima è quella degli esseri insignificanti, categoria di cui anche l’usuraia farebbe parte, composta da persone in grado di guardare solo al presente. Questi, essendo persone comuni e incapaci di realizzare grandi progetti, hanno l’obbligo di attenersi rigidamente alle regole della morale umana. La seconda categoria di persone, quella a cui Raskòl’nikov si ascrive, è quella degli uomini eccezionali, esseri superiori che guardano al futuro e che, per questo, risulterebbero abilitati a orientare il pianeta. Per questa categoria umana vale il principio del “versare il sangue con coscienza”, che autorizza i suoi appartenenti a derogare dagli obblighi morali e dalle leggi, se con tali deroghe si arriva a migliorare la condizione dell’umanità nel suo complesso.

Nel romanzo si susseguono i rimandi a persone realmente esistite considerate dal protagonista dei “superuomini”: se Newton o Keplero avessero dovuto uccidere centinaia di uomini per portare l’umanità a godere delle loro innovazioni ne sarebbe valsa la pena; il sangue versato da Napoleone sarebbe giustificato dal suo monumentale progetto per la conquista dell’Europa, ecc.

Raskòl’nikov, ritenendo di appartenere a questa categoria, si sente legittimato a liberare la società da un essere ritenuto parassitario, l’usuraia, per poi mettere a disposizione di tutta l’umanità il denaro da lei accumulato.

Tuttavia, i sensi di colpa, corollario del conflitto, accompagnati da una febbre cerebrale, demoliscono progressivamente la visione auto-giustificatrice di Raskòl’nikov, facendolo sprofondare in un abisso di tormenti, di angoscia, di sogni inquieti in cui il giovane ripercorre mentalmente il delitto senza però riuscire a commetterlo di nuovo. Lo studente di Giurisprudenza, grazie al contesto culturale in cui è stato educato, porta con sé, ab origine, una coscienza e una morale che lo portano a sviluppare un potente conflitto ancor prima di commettere l’atto.

Durante l’incontro su “Delitto e Castigo” del 09.11.2022 a Opera, il secondo dell’iniziativa, molti dei detenuti del gruppo hanno invece riferito che non provavano alcun conflitto né durante né subito dopo il compimento di un omicidio, di una violenza o di un qualsivoglia reato. La loro cecità rispetto al conflitto, come emerso numerose volte durante gli incontri passati, potrebbe essere spiegata dal fatto che, quando si è indotti sin da bambini a ridurre la gravità di un furto, una rapina, un’estorsione, un omicidio, il reato diviene pratica quotidiana, parte integrante dell’identità criminale, e la sua percezione si attenua nel tempo fino a diventare un sottofondo quasi impercettibile.

Il conflitto che avrebbero potuto e dovuto provare prima di passare all’atto criminale, dalle parole di chi oggi fa parte del gruppo da molti anni, è maturato durante la reclusione, una condizione che comporta una cesura netta tra la vita da “liberi”, vissuta nello stile deviante, e la vita “da condannato”, confinata dentro le mura del carcere, una condizione che, quando permette al detenuto di confrontarsi con stimoli appropriati, lo induce all’introspezione e all’allargamento della propria coscienza.

Direi pertanto che il  conflitto costituisce il terreno fertile per edificare e coltivare una nuova identità, con una immagine di sé che non sia quella conculcata da un ambiente degenerato, ma che sia il frutto di un processo introspettivo di responsabilizzazione, sia pure doloroso, ma percepito, a detta dei detenuti che lo vivono, anche utile e piacevole.

Le conseguenze di questo percorso sono chiare. Se in assenza di conflitto una persona è in grado di uccidere con disinvoltura, la percezione del conflitto, al contrario, sviluppa nell’uomo una coscienza morale e un’identità, che solo all’idea di commettere un crimine prova dolore.

A questo punto ci si può chiedere se il conflitto sia un ostacolo alla propria libertà di agire o possa essere considerato un attivatore dei processi decisionali e un facilitatore morale. A me sembra che il conflitto allarghi i margini di libertà del soggetto, in quanto permette, come una sorta di filtro, di scegliere in prima persona cosa fare e cosa no. Detto in altri termini, se prima il detenuto eseguiva inconsapevolmente gli ordini di altri, con l’acquisizione di una nuova identità egli diventa in grado di vivere e scegliere per se stesso.

Come ho sentito dire a Sergio, uno dei componenti del gruppo, “vivere il conflitto mi permette di chiedermi oggi se all’epoca dei miei reati ho fatto quello che volevo o se sono stato soltanto uno strumento di cui altri si servivano per ottenere quello che volevano loro“.

Infine, il conflitto, oltre alla dimensione individuale legata ai principi costituzionali di pieno sviluppo della persona umana, contempla anche una visione sociale, legata al “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” di cui all’art. 4 della Costituzione.

Il conflitto, infatti, permette di riscattarsi dal male che si è commesso, restituendo qualcosa alla società. Quel qualcosa è appunto la preziosa esperienza che i detenuti del gruppo, e non solo, comunicano a beneficio degli studenti universitari, degli adolescenti nelle scuole e della società civile in generale.

Leonardo Esposti

Delitto e Castigo

Raskol’nikov

Spesso si parla della distinzione operata da Raskol’nikov fra eletti e pidocchi come se in questa categorizzazione e nel delirio di onnipotenza ad essa collegato potessero essere riconosciute le principali cause dell’omicidio dell’usuraia.

Mi sembra si trascuri che lo schema suddetto e lo stesso delirio di onnipotenza che l’accompagna costituiscono solo una maschera per coprire la sensazione di mediocrità che vive Raskol’nikov nell’afa e nella sporcizia soffocante di Pietroburgo, mentre si dibatte fra le sue fantasie, le paure, le incertezze, i conflitti, il malessere che lo pervade mentre si trascina per le strade.

Tra l’altro, mi sembra che il malessere del protagonista venga  descritto anche quando Dostoevskij entra nella miseria di Marmeladov o nella mediocrità di altri personaggi come Svidrigajlov o lo stesso Luzin, personaggi che credo possano corrispondere a frammenti sparsi del personaggio principale.

E cosa conosce il giudice della miseria che di certo costituisce il terreno di coltura dell’omicidio? Porfirij cerca di stanare l’assassino, ma non sembra essere interessato alla sua angoscia, alla paura di Raskol’nikov di entrare in contatto con il suo stesso dolore. Porfirij è interessato al delirio con cui Raskol’nikov autorizza se stesso all’omicidio, ma non al delirio in quanto strumento per porre argine al dilagare della sua colpevole impotenza.

È pur vero che questo non è compito del pubblico ministero (per usare termini utili alla nostra ricerca attuale)! E però, l’alleanza tra chi indaga e l’indagato (ammesso che sia possibile… e se oggi non lo è, nulla vieta di chiedersi quali altre figure possano risultare utili allo scopo), deve passare attraverso il riconoscimento dei meccanismi con i quali il reo cerca di difendersi dalla sensazione di mediocrità nella quale egli vive e dal dolore originario che egli cerca confusamente di coprire.

Questa è l’alleanza che Raskol’nikov svilupperà con Sonja e quella di cui ogni detenuto avrebbe bisogno per non rimanere imprigionato nell’artificiosa divisa dell’eletto.

Raskol’nikov               Il giudice, un padre mutilato

 Delitto e Castigo

Aula Dostoevskij

Vedo crescere il coinvolgimento e i contributi e vorrei tanto che questo tipo di iniziative avessero uno spazio stabile all’università e in carcere. Il gruppo della trasgressione è nato 25 anni fa proprio con questi obiettivi.

Anche se siamo ancora lontani dalla meta, l’intesa con Francesco Cajani ha prodotto i frutti che stiamo vedendo. Per me e per il gruppo della trasgressione leggere contributi come quelli di Angelica Falciglia o di Sebastiano Venturi è un vero piacere e un incentivo a continuare.

Certo, sarei molto più contento se vedessi partecipare in modo attivo ai nostri incontri le figure istituzionali che hanno facoltà di decidere e di finanziare le iniziative ritenute utili all’evoluzione della materia. Per il momento mi limito a rallegrarmi per il vivace confronto con cui scaldiamo la smart room dove si svolgono i nostri incontri.

Adesso aggiungo un paio di considerazioni legate a quanto ho ascoltato in “Aula Dostoevskij” mercoledì scorso:

  1. I detenuti con i quali vi confrontate non sono rappresentativi della popolazione carceraria e, tanto meno, dei delinquenti in attività. Il senso di equilibrio e di responsabilità che voi leggete nelle loro parole vengono fuori dopo anni di frequentazione del gruppo della trasgressione o di attività equiparabili. Per arrivare a questo livello di sensibilità il delinquente in attività deve prima essere arrestato e poi costretto a pensare e a sentire, guidato da qualcuno che sia credibile ai suoi occhi e che abbia le competenze per orientarne l’evoluzione.
  2. La civiltà, per quello che intendo io, non è garantita dalla presenza di norme ben codificate e di sanzioni ben commisurate alla violazione delle norme. La civiltà è l’attitudine a riconoscersi nell’altro e a voler costruire con gli altri. Ma chi nasce e cresce nella emarginazione, nella miseria economica e/o affettiva, ha grande difficoltà a concorrere agli obiettivi comuni.
    Non credo che la civiltà progredisca in proporzione alla garanzia che giudici e poliziotti vengano puniti con lo stesso rigore usato per rapinatori e spacciatori (pur se condivido il principio); credo invece che la civiltà progredisca ogni volta che ci si chiede cosa induce le persone (povere e ricche, guardie e ladri) a sentirsi distanti dall’altro tanto da poterlo ferire come se fosse un estraneo e ogni volta che vengono identificate le condizioni per ridurre tale distanza e per motivare le persone alla costruzione di uno spazio comune.

Mi sembra che nella smart room offertaci dal dott. Di Gregorio, direttore del carcere di Opera e alleato del progetto, stiamo facendo proprio questo, servendoci di Raskol’nikov, Fausto Malcovati, Alberto Nobili, Marisa Fiorani, Paolo Setti Carraro e i tanti studenti e detenuti che stanno attivamente partecipando all’iniziativa.

Delitto e Castigo