Commenti alla prima giornata

Commenti alla giornata del 27/04/2020

Se dovessi sintetizzare questa esperienza direi che si tratta di un ciclo di incontri che prevedono di collegarsi ad un link tramite la piattaforma zoom, si può fare anche da cellulare. Oggi eravamo 41 persone.

Il Gruppo della Trasgressione include studenti di psicologia, filosofia e giurisprudenza, avvocati, magistrati, professori delle scuole medie e superiori, detenuti e vittime di reati.

Il tema di questo ciclo di incontri è “La banalità e complessità del male“. Oggi abbiamo iniziato dal significato della parola “banalità” partendo dallo spunto di una collega giornalista, laureata in filosofia, che ha citato il libro di Hannah Arendt sul processo ad Eichmann, per spiegare come la maggior parte delle volte il male si distribuisce su piccoli gesti apparentemente “banali” che non ci danno la sensazione di star facendo qualche cosa di male e che non ci fanno sentire proprietari di un’identità “deviante”, anche quando stiamo pericolosamente precipitando senza rendercene conto in quella direzione lì.

Il concetto di “complessità” ci invita invece a riflettere su come il male finisca con il tempo con il rispondere ad una funzione, ovvero quella di darci un’identità, tendenzialmente negativa, ma pur sempre un’identità riconoscibile e facilmente indossabile, che è molto meglio rispetto a non avere alcuna identità e molto più facile rispetto ad un’identità che ci chiede di crescere attraverso il lavoro e la fatica quotidiana.

Da qui diverse persone hanno fatto un collegamento al bullismo, perché chi più di un dodicenne che commette un reato è alla ricerca di un’identità?
E poi anche perché l’obiettivo è di portare gli scritti finali nelle scuole che nel tempo hanno creato un’alleanza con il Gruppo, per costruire interventi di crescita personale e di educazione alla legalità.

Collegandosi al bullismo si è parlato quindi di giovani che, più o meno consapevolmente, compiono dei reati. Spesso all’inizio di questo percorso verso il mondo dei reati succede che i ragazzi si giustifichino affermando “ero lì per caso” e i genitori a loro volta confermano questa versione “mio figlio si trovava lì per caso, non è cattivo, è un bravo ragazzo che ha trovato gli amici sbagliati”. Ed è vero, non sono ragazzi “cattivi”. Ma oggi abbiamo iniziato a riflettere su come il “caso” diventi spesso una scorciatoia che ci libera dalla responsabilità di dover fare bene.

Aggiungo che questo apre la strada a numerosissime domande, perché quasi sempre chi ci chiede di “fare bene” è un’Autorità (interna o esterna) con cui inevitabilmente sentiamo di avere un conflitto aperto.

Così gli amici sbagliati rispondono ad una domanda ben precisa, che è la domanda di chi non si sente riconosciuto e sta cercando di crescere sostituendo inconsapevolmente il diventare grande con il sentirsi “grande”.
Ma il fare senza l’essere è un castello di carte senza fondamenta.

Personalmente questo tema mi interessa particolarmente essendo stata coinvolta nel mio lavoro in ospedale in un progetto dal titolo “minori autori di reato“.

Quindi possiamo dire che vengono trattati temi difficili nel corso di questi incontri, ma l’esperienza di GRUPPO crea una sintonizzazione tra le persone e una sorta di stomaco condiviso che permette a tutti di “digerire” temi complessi, che ci chiedono lo sforzo di ascoltare con attenzione per contribuire anche noi all’incontro, per dare un senso alle nostre esperienze e ai nostri vissuti, che sono sempre al centro della discussione del gruppo.

L’incontro anche nella sua forma on-line costituisce qualcosa di creativo e galvanizzante che con il tempo incide sulle nostre vite dandoci la sensazione di aver utilizzato queste ore per fare qualche cosa di utile, perché “dare” significa mettersi in gioco attivando tutta una serie di funzioni di holding che inevitabilmente ci spingono ad assumere la responsabilità dell’altro e quindi a crescere come persone.

Nel carcere di Opera una volta un detenuto ha scritto una poesia: “Timbro il tempo per esserci, sapendo che ogni secondo sprecato è una parte di me che muore“. Abbiamo tutti bisogno di timbrare il nostro tempo per sentire di esserci.

Mi piacerebbe coinvolgere in questo percorso i genitori dei ragazzi che hanno commesso un reato perché penso che potrebbero arrivare a dare ai ragazzi delle scuole un importante contributo, rendendosi contemporaneamente conto che possono fare qualcosa anche per aiutare i loro figli a crescere. E forse alla fine di questo percorso potremmo cambiare il nome del progetto da “minori autori di reato” a “minori autori del proprio destino”.

Tiziana Pozzetti