Uccido dunque sono!

In questi ultimi giorni ho visto diversi film legati in qualche modo al tema del male nelle sue differenti manifestazioni. Sono film molto diversi tra di loro per tanti aspetti, legati anche alle diverse personalità e nazionalità dei registi e non solo. Ma se prescindiamo da ciò ed escludiamo, tra le altre cose, la diversità delle storie raccontate, i differenti contesti ambientali, culturali, politici, c’è un elemento centrale che è presente in tutti e che sottostà al tema del male e delle sue manifestazioni: l’Identità.

I film visti: L’odio, film francese di Mathieu Kassovitz – 1995; L’insulto, film libanese di Ziad Duoueri – 2018; Hannah Arendt, film tedesco di Margarethe von Trotta – 2014; Fa la cosa giusta di Spike Lee -1989, Elephant di Gus Van Sant – 2033, Bowling for Columbine documentario di Michael Moore – 2002, tutti e tre film americani.

In tutti questi film il problema identitario si pone sempre come centrale, è la molla che fa scattare l’odio, la violenza, il male. Anche quando non è esplicitamente evidenziato nel film, l’agire dei protagonisti ha come sottostante la questione identitaria.

Nel film L’odio, la questione identitaria si pone nella continua disperata lotta che i tre ragazzi delle banlieu parigine, portano avanti con chi sta dall’altra parte, poliziotti e Parigi dei benestanti, che li condanna alla marginalità, all’invisibilità, all’indifferenza. Si comportano come fossero dei soldati armati dall’odio, in bilico tra la voglia di rispetto e di riconoscimento e la rassegnazione alla propria condizione. Tutto il film sembra il racconto di una inesorabile caduta, dove l’odio è uno degli impulsi che spinge a precipitare nel vuoto del male, che è il vuoto di ogni cosa annientata di senso in questo precipitare. Proprio come quel tizio che cade dal 50° piano in cui il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. E l’atterraggio finale è drammatico, devastante.

Nel film libanese L’insulto, il forte sentimento identitario di appartenenza ad un popolo, è il motivo di fondo del conflitto tra i due protagonisti che, scatenato da un banale insulto, si estenderà poi come un incendio, alle opposte fazioni appartenenti a due popoli, segnati entrambi da violenze e atrocità, tanto subite, quanto inferte: i palestinesi da una parte, i libanesi dall’altra.

In Hannah Arendt, la questione identitaria si pone in due momenti diversi. Nel conflitto che vede la Arendt stessa accusata di essere una traditrice dell’identità del popolo ebraico, a causa delle sue conclusioni sul processo, pubblicate sulla rivista ‘New Yorker’. Poi nel processo che si svolge all’interno del film, dove la Arendt fa emergere la controversa teoria per cui esseri spesso banali (non persone) si trasformino in autentici agenti del male. Il gerarca nazista Eichmann, si dichiara semplice esecutore di ordini odiosi, non è altro che un ingranaggio della macchina del male nazista, deresponsabilizzato e non colpevole dei crimini a cui ha partecipato. In questa prospettiva egli ci mostra l’aspetto di banalità che può avere il male quando si manifesta nella sconcertante mediocrità dell’agire quotidiano del semplice funzionario. Ma certo è che sul piano della sua piena adesione e identificazione con il nazismo egli è sicuramente colpevole. Eichmann tutto può negare tranne che la sua identità era tutt’uno con il nazismo.

Il problema identitario si pone fortemente anche nel film di Spike Lee Fa la cosa giusta. In una comunità multietnica del quartiere di Brookling convivono afroamericani, italiani, messicani, coreani. Apparentemente sembrano andare d’accordo, in realtà una vera integrazione non c’è, anzi. Ognuno rimane chiuso nel proprio senso di appartenenza identitaria che provoca continui conflitti che esploderanno in una devastante violenza in cui sono tutti colpevoli, anche le forze dell’ordine.

Elephant e Bowling for Columbine, trattano entrambi della strage compiuta il 20 aprile 1999 da due studenti nel liceo di Columbine negli Usa dove la morte per strage di 12 studenti, un insegnante e 24 feriti, si tinge di banale quotidianità.

Questo infatti sembra essere il terreno su cui esplode la violenza del male. La banalità del quotidiano come perdita di significato di ogni cosa. E dove il significato si perde, non c’è sentire. Se l’identità è avere la certezza di sentire di esistere come soggetto che afferma se stesso nel mondo, in un contesto ambientale in cui ogni cosa del mondo appare come indifferentemente fruibile sugli scaffali del supermercato della vita, in cui tutto è appiattito nella vacuità valoriale di ciò che è stato ridotto a nient’altro che prodotto da consumare, la domanda identitaria di questi adolescenti dove mai potrà trovare risposta?

Allora si può forse concepire che al bisogno di qualcosa nel cui significato (non importa quale) possa trovare risposta la domanda identitaria, questa risposta, alla fine, può anche essere il far saltare tutto in aria. Se poi, in un contesto già così nientificante, la forma identitaria socialmente promossa risponde all’imperativo “se non sei qualcuno, non sei niente, non esisti”, se è questo l’unico modo per essere riconosciuti e sentire di esistere, allora, non importa come, la risposta per orribile che sia, può ben tradursi in un atto umanamente inammissibile. Basta prendere dallo scaffale del market, piuttosto che da internet ciò che è lì, disponibile come qualsiasi altra cosa, e trasformare la banale e piatta quotidianità dell’esistere in un divertente gioco al bersaglio.

“Ma soprattutto ci dobbiamo divertire”, è una delle frasi che nel film i due ragazzi dicono prima della strage. Si divertiranno ad uccidere, come in un videogioco. Uccidere per divertimento è il loro modo di sentire? Sentire di essere vivi? Parafrasando crudamente una nota formula filosofica che esprime la certezza indubitabile che l’uomo ha di se stesso come esistente, si potrebbe forse dire: “uccido dunque sono”.

I due ragazzi si dissero di essere sicuri che dall’attentato sarebbe stato tratto un film. Due giorni prima della strage girarono un ultimo video nel quale si scusavano con le famiglie e si vantavano di come sarebbero stati ricordati con infamia dopo la loro impresa. “Sarà un giorno che sarà ricordato per sempre”.

In conclusione
Il bisogno identitario sembra essere la radice di un conflitto profondo che può trovare nel male, nelle sue differenti manifestazioni, una risposta, una funzione identitaria. Questo conflitto sembra esistere in partenza, sin dal momento in cui l’individuo, qualsiasi individuo, si pone l’imperativo di essere qualcosa, di riconoscersi, di affermare una propria identità.

Il bisogno di affermazione dell’identità è un atto conflittuale e divisivo di per sé? L’identità come sentimento di appartenenza a qualcosa, ad un clan, ad un gruppo sociale, alla famiglia, ad un popolo, nazione, idea, religione; ma anche alle proprie ferite, paure, desideri, è un atto di separazione da ciò che è altro da me?

Io appartengo alle banlieu, sono un soldato armato d’odio per chi sta dall’altra parte, e questo fa parte di quello che sono; io sono nazista, tu ebreo e ti uccido perché questa è la legge in cui mi riconosco; io appartengo a questo popolo e tu ad un altro, siamo in conflitto, siamo nemici. L’appartenenza è tutt’uno con l’avere un nemico da cui sentirsi separato, diverso, anche da quella parte di sé che non è ciò che dovrebbe o vorrebbe essere. E se poi la domanda non trova risposta dentro i confini socialmente accettati, la risposta può diventare devastante e trovare nel male la funzione che assolve a questo bisogno identitario, anche nelle forme più orribili.

Banalità e complessità del male, probabilmente questi due attributi sono indivisibili. Il male si presenta sempre sotto queste due forme. Ma non è il male ad essere banale o complesso. Il male di per sé è un concetto astratto. La banalità non è del male, il male che si fa non può essere mai banale. La banalità o mediocrità del male si innesta nel terreno della nostra quotidianità, quella che può essere vissuta e sentita come banale, mediocre, insignificante o semplicemente abitudinaria. Lo stesso vale per la complessità, che non appartiene al male in sé, ma a noi stessi, alle ragioni sottostanti le scelte che possono spingere a precipitare nel vuoto adrenalinico di un colpo di pistola.

Adriano Avanzini

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Commenti alla prima giornata

Commenti alla giornata del 27/04/2020

Se dovessi sintetizzare questa esperienza direi che si tratta di un ciclo di incontri che prevedono di collegarsi ad un link tramite la piattaforma zoom, si può fare anche da cellulare. Oggi eravamo 41 persone.

Il Gruppo della Trasgressione include studenti di psicologia, filosofia e giurisprudenza, avvocati, magistrati, professori delle scuole medie e superiori, detenuti e vittime di reati.

Il tema di questo ciclo di incontri è “La banalità e complessità del male“. Oggi abbiamo iniziato dal significato della parola “banalità” partendo dallo spunto di una collega giornalista, laureata in filosofia, che ha citato il libro di Hannah Arendt sul processo ad Eichmann, per spiegare come la maggior parte delle volte il male si distribuisce su piccoli gesti apparentemente “banali” che non ci danno la sensazione di star facendo qualche cosa di male e che non ci fanno sentire proprietari di un’identità “deviante”, anche quando stiamo pericolosamente precipitando senza rendercene conto in quella direzione lì.

Il concetto di “complessità” ci invita invece a riflettere su come il male finisca con il tempo con il rispondere ad una funzione, ovvero quella di darci un’identità, tendenzialmente negativa, ma pur sempre un’identità riconoscibile e facilmente indossabile, che è molto meglio rispetto a non avere alcuna identità e molto più facile rispetto ad un’identità che ci chiede di crescere attraverso il lavoro e la fatica quotidiana.

Da qui diverse persone hanno fatto un collegamento al bullismo, perché chi più di un dodicenne che commette un reato è alla ricerca di un’identità?
E poi anche perché l’obiettivo è di portare gli scritti finali nelle scuole che nel tempo hanno creato un’alleanza con il Gruppo, per costruire interventi di crescita personale e di educazione alla legalità.

Collegandosi al bullismo si è parlato quindi di giovani che, più o meno consapevolmente, compiono dei reati. Spesso all’inizio di questo percorso verso il mondo dei reati succede che i ragazzi si giustifichino affermando “ero lì per caso” e i genitori a loro volta confermano questa versione “mio figlio si trovava lì per caso, non è cattivo, è un bravo ragazzo che ha trovato gli amici sbagliati”. Ed è vero, non sono ragazzi “cattivi”. Ma oggi abbiamo iniziato a riflettere su come il “caso” diventi spesso una scorciatoia che ci libera dalla responsabilità di dover fare bene.

Aggiungo che questo apre la strada a numerosissime domande, perché quasi sempre chi ci chiede di “fare bene” è un’Autorità (interna o esterna) con cui inevitabilmente sentiamo di avere un conflitto aperto.

Così gli amici sbagliati rispondono ad una domanda ben precisa, che è la domanda di chi non si sente riconosciuto e sta cercando di crescere sostituendo inconsapevolmente il diventare grande con il sentirsi “grande”.
Ma il fare senza l’essere è un castello di carte senza fondamenta.

Personalmente questo tema mi interessa particolarmente essendo stata coinvolta nel mio lavoro in ospedale in un progetto dal titolo “minori autori di reato“.

Quindi possiamo dire che vengono trattati temi difficili nel corso di questi incontri, ma l’esperienza di GRUPPO crea una sintonizzazione tra le persone e una sorta di stomaco condiviso che permette a tutti di “digerire” temi complessi, che ci chiedono lo sforzo di ascoltare con attenzione per contribuire anche noi all’incontro, per dare un senso alle nostre esperienze e ai nostri vissuti, che sono sempre al centro della discussione del gruppo.

L’incontro anche nella sua forma on-line costituisce qualcosa di creativo e galvanizzante che con il tempo incide sulle nostre vite dandoci la sensazione di aver utilizzato queste ore per fare qualche cosa di utile, perché “dare” significa mettersi in gioco attivando tutta una serie di funzioni di holding che inevitabilmente ci spingono ad assumere la responsabilità dell’altro e quindi a crescere come persone.

Nel carcere di Opera una volta un detenuto ha scritto una poesia: “Timbro il tempo per esserci, sapendo che ogni secondo sprecato è una parte di me che muore“. Abbiamo tutti bisogno di timbrare il nostro tempo per sentire di esserci.

Mi piacerebbe coinvolgere in questo percorso i genitori dei ragazzi che hanno commesso un reato perché penso che potrebbero arrivare a dare ai ragazzi delle scuole un importante contributo, rendendosi contemporaneamente conto che possono fare qualcosa anche per aiutare i loro figli a crescere. E forse alla fine di questo percorso potremmo cambiare il nome del progetto da “minori autori di reato” a “minori autori del proprio destino”.

Tiziana Pozzetti

Commenti alla prima giornata

Commenti alla giornata del 27/04/2020

Conosco il gruppo della Trasgressione da quando è nato, anzi da prima, dal giorno in cui è stato concepito direi, un tempo in cui si potevano fare le gite a Bologna (…e si potevano mangiare anche le fragole!), ma non avevo mai partecipato, se non ad alcuni dei convegni aperti al pubblico.

Il Corona Virus e la mia conseguente disoccupazione mi hanno regalato il tempo di farlo, voi mi avete concesso il piacere di esserci. Grazie è la prima cosa che vorrei dirvi.

La seconda è che ho apprezzato l’attenzione e l’impegno di tutti i partecipanti per più di 2 ore, anche quelli che non abbiamo parlato ma che eravamo presenti “per davvero” (il virgolettato è una citazione della Livia dei vecchi tempi); sarà che nel mio lavoro di moderatrice di focus group con “gente comune” sono abituata a faticare per ottenerli, ma constatare come nel giro di pochi minuti si instauri un clima idoneo nel vs gruppo mi ha fatto sentire in una gran bella compagnia 😊.  Lo strumento web che avete testato funziona alla grande secondo me (e, tra l’altro, apre a nuovi utenti che non possono venire in carcere, per non dire che ho potuto fumare una sigaretta senza danneggiare gli altri!).

Credo inoltre che, nonostante la precisa introduzione di Sofia sul concetto “Banalità del Male” della Arendt, ci siano stati dei fraintendimenti sul tema/titolo del dibattito, il che è più che comprensibile dal mio punto di vista poiché si tratta di un pensiero difficile e palesemente ostico: accostare le parole BANALITÀ e MALE è già di per sé disturbante, suscita reazioni emotive forti da cui viene spontaneo prendere le distanze prima ancora di cercare di capire… è un pensiero difficile da pensare e questo forse dobbiamo dircelo!

Con questa premessa di difficoltà in mente (che Eleonora ha esplicitato nel suo intervento -che tra l’altro mi è piaciuto molto anche per le altre cose che ha detto, in particolare quando ha parlato del “Male come ricerca di libertà di non scegliere”, un’intuizione che da sola ripaga dell’intera partecipazione all’evento per quanto mi riguarda!), possiamo forse provare ad addomesticare un po’ il concetto di Banalità del Male utilizzando un sinonimo di banalità, e cioè MEDIOCRITÀ.   Per la verità, ho trovato la spiegazione di Juri su cosa si intende per “banalità” molto chiara ed esaustiva (ordinario come opposto a straordinario, scontato come opposto a eccezionale, parcellizzazione delle responsabilità -che non vuol dire che non ci siano responsabilità o che il fenomeno diventi meno grave!), ma forse ricordare che “banale” vuole anche dire MEDIOCRE ci aiuta ad accettare/avvicinarci al concetto di “banalità del male” che si vuole lavorare anche nei futuri incontri.

E aggiungo che il titolo del vs webinar è “banalità E complessità del male”, E congiunzione che collega le due parole, non O congiunzione disgiuntiva che introduce un’alternativa tra i due concetti, tipo che uno esclude l’altro… almeno a me sembra così. Quindi potremmo rinunciare allo sforzo di decidere se il Male sia banale ocomplesso per provare piuttosto ad accettare che possa essere entrambe le cose e indagare se nella ns esperienza ci sono tracce di tutto questo. Personalmente, ho senz’altro esperienza di vivere in una “realtà conflittuale e multifattoriale” (cito l’intervento di Juri questa volta), ma non ho la più pallida idea di come (e se) io agisco il Male con la M maiuscola, e non certo perché io sia buona, non saprei cosa dire nemmeno su come (e se) io agisco il Bene! Chissà, forse non ne ho sufficiente esperienza diretta e anche per questo sono molto interessata alle testimonianze di chi sente di aver toccato “il Male” in passato, prima di essere rinchiuso in carcere. E qui mi interrogo solo sul Male (e non sul Bene) perché questo è il titolo degli incontri e non mi piace andare fuori tema. Sono pedante, lo so! Magari della Banalità e Complessità del Bene ne parliamo in un altro convegno, ma in questo a me piacerebbe ci focalizzassimo tutti sul tema che avete deciso.

Ho notato che le “vecchie guardie” del gruppo (Delia, Marta, Sofia, Roberto, etc.), diventate ormai illustri avvocate, psicologhe, prof di filosofia, spacciatori di Frutta&Cultura, etc., sono bravissime/i a stare sul pezzo, cogliere gli input di Juri e provare a rispondere alle sue domande da 100milioni di dollari come le chiamo io (“Esiste una funzione del male per la persona che la compie?” alla faccia! Perché non chiederci direttamente Chi siamo, Da dove veniamo e soprattutto dove andiamo?!)

Sarò felice di conoscere meglio anche le “nuove guardie” del gruppo dal fronte studenti, dal fronte detenuti, dal fronte cittadini liberi.
“Liberi” si fa per dire.

E chissà se proprio il concetto di libertà di ognuno di noi -lo spazio che ci concediamo per recepire gli stimoli che provengono dal ns mondo interno e dall’ambiente esterno- centri qualcosa con la banalità/mediocrità con cui organizziamo le nostre risposte a questi stessi stimoli…

Mi sembra che, molto spesso, noi banalmente REAGIAMO agli stimoli anziché RISPONDERE agli stimoli; per poter rispondere occorre prima accoglierli, accettarli, lavorarli, pensarli, insomma fare tutta quella faticaccia da uomini! Gli animali sono avvantaggiati. In questo periodo sto diventando quasi amica di un merlo che ha fatto il nido sul ns terrazzo (ne ho parlato con cari amici come Adriano e Vittorina, e anche l’Adriano nostro della coop a cui ho mandato anche le foto!) …beh, più lo osservo mangiare le briciole che gli lascio ogni pomeriggio e più lo invidio, anzi invidio soprattutto i suoi piccoli per i quali ha costruito un nido duro e protettivo all’esterno e morbido all’interno. Impulsi regressivi a manetta in questo periodo di quarantena. Voglia di volare in questo periodo di quarantena. Ma a noi tocca crescere, @azz@!  D’altro canto, o cresciamo o siamo infelici, quindi siano benedetti i pensieri difficili e le domande ostiche dei filosofi!

Concludo dicendo che mi spiace che Roberto fosse visibilmente arrabbiato alla fine del gruppo, non so con chi ce l’avesse (forse qualcuno lo ha criticato in separata sede per il suo primo intervento? Ma se era così sul pezzo! Soprattutto quando ha parlato della mediocrità e della eccellenza degli uomini, io seguivo bene il suo discorso… boh!), ma credo e spero che gli sia già passata oggi. Credo anche che nel vs gruppo sia lecito esprimere le proprie emozioni, anzi addirittura incoraggiato come stile, ma mi sembra comunque utile rifarsi al principio del rispetto reciproco e, ancora una volta, all’aspirazione a rispondere anziché reagire agli stimoli. Per essere più esplicita, caro Roberto, non mi piace che qualcuno usi un momento comune per inviare messaggi in codice a qualcuno, ma forse non ho capito niente… e non sarebbe la prima volta! 😊

Fine del mio commento non richiesto al primo webinar gratuito del Gruppo della Trasgressione.

Saluti e baci a tutti,
Manuela Re

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