Le brioches e l’airbag
Veronica La Riccia
Cibo. Ancora cibo. Sempre cibo. Sto male. Dentro di me solo vuoto. Inesorabile vuoto. Nausea. Depressione. Lacrime scorrono sul mio viso, che non cambia espressione. Il sorriso perde all’improvviso il suo valore. Sento questo peso enorme, sulle mie spalle. Tutto troppo grande per me. Sensi di colpa sopraggiungono per ricordarmi quanto sia imperfetta. Triste. Vuota. Altre lacrime scorrono. Sembra che abbia un fiume dentro di me, che necessita spazio, un’uscita. Sento tanta stanchezza. Mi sento sola, lontana dal mondo che vivo ogni giorno, sbalzata in un universo parallelo, dove le emozioni mi travolgono lasciandomi… vuota. Mi guardo allo specchio, sono pallida, lo sguardo è spento, le occhiaie viola accentuano l’espressione malinconica. Tutto sembra senza speranza… Dov’è la via d’uscita? È tutto così buio intorno a me. La nausea aumenta. Il ribrezzo nei miei confronti anche. “Che fatica”, penso.
Questo è lo spaccato di emozioni che mi capita di vivere quando mi lascio controllare, dominare, muovere dal cibo. Arrivo a desiderare la morte piuttosto che sopportare quel dolore. Ma visto che il suicidio non è una scelta che reputo adeguata, mangio di nuovo e tutto torna ad essere più piacevole. Il mondo intorno si colora di sfumature diverse a seconda di quanti grammi di zuccheri abbia ingerito e, come il mondo, così le mie relazioni.
A volte realizzo quanto la solitudine sia la mia migliore amica: lei non mi dice “basta”, non mi chiude il pacchetto di biscotti, non mi fa notare quanto sia esagerata, non mi giudica. Sono così contenta quando arrivo a casa e sono da sola. Con lei posso riempire quel vuoto, me lo lascia fare. Anzi, con quella vocina subdola mi sussurra “mah si, mangia ancora! Che sarà mai! Da domani vedrai che sarà diverso, non lo farai più!”. Poi, all’improvviso, bum. Nero. La solitudine cambia forma, mi soffoca, mi trascina vorticosamente nell’abisso. “Non erano questi i patti!”, le dico. Ma lei stringe ancora di più, facendomi tornare al punto di partenza o addirittura più in basso. In quel momento il mio fidanzato, i miei genitori, i miei amici… li annullo. Li anniento. Io, io e ancora io. Nel bene e nel male.
Ma tutto questo, da dove ha origine?
Ci ho pensato ed è davvero difficile trovare il punto esatto in cui io abbia scelto di mettere in atto questa strategia. Ma alla mente è arrivata un’immagine: mia madre in ospedale, con l’ago nella vena che iniettava il farmaco chemioterapico. Io avevo 13 anni. Una ragazzina che fino a quel momento aveva vissuto sotto una campana di vetro, dove di pericoli non ce n’era nemmeno l’ombra. Però, quando a casa di mia nonna mia madre disse ciò che il medico aveva scoperto, andai in mille pezzi. Da quel momento mi trovai a fare i conti con la paura enorme di perdere mia mamma e con la necessità di crescere, in fretta. E allora, quì torna l’immagine dell’ospedale: lei distesa sul letto e io a mangiare brioches su brioches. I “Buondì” al cioccolato. Me lo ricordo come se fosse ieri.
A questo punto, la domanda del dott. Aparo arriva prepotente alla mente: il legame con l’oggetto-dipendenza impedisce la creazione di altri legami o protegge dal crearne?
Io credo che la risposta sia più vicina alla seconda ipotesi. Io considero questo problema come un rifugio, una base sicura, una strategia per non dipendere dagli altri. Una modalità disfunzionale per non permettere ad altri di farmi del male. Peccato che in questo modo me lo faccia da sola.
E’ come se dentro di me fossi costituita da tanti pezzettini di un puzzle che devo, in un qualche modo, tenere insieme, dargli un senso. E donare qualche pezzettino all’altro significherebbe lasciare dei buchi, perdendo così la mia identità, costruita con dolore, difficoltà e nemmeno tanto bene. E il cibo è proprio una delle colle che mi aiuta a tenere insieme questi pezzettini e trovare una colla più adatta, magari contemplando l’apertura verso l’altro, costa tanta fatica.
D’altra parte, l’esperienza vissuta a Bollate e l’aver raccolto le sensazioni che gli altri hanno avuto nei miei confronti, per un po’ mi ha fatto stare meglio. Credo che l’aver concesso a me stessa di prendere uno dei miei pezzettini e di metterlo sul tavolo abbia permesso agli altri di avvicinarsi e arricchire quel pezzettino che poi ho potuto rimettere dentro di me. Però questo discorso mi rendo conto che mi crea molta confusione, non riesco ad avere un quadro chiaro e nitido. Forse ho bisogno di qualcuno che mi guidi e che mi aiuti a districare la matassa.