C’è una vecchietta seduta davanti a me. È molto minuta e sembra quasi scomparire dentro la sedia gialla delle metro milanesi. Osservandola attentamente, però, è facile notare come la sua fragilità sia solo un’apparenza: il piede della gamba destra continua a fare avanti e indietro, ad un ritmo regolare e veloce, che ad osservarlo a lungo si rimane quasi ipnotizzati, e dietro i piccoli occhiali viola, due grandi occhioni vispi e allegri osservano il mondo intorno.
Il suo sguardo interrogativo e vivace si posa su ogni persona e cosa e, a un certo punto, arriva anche il mio turno diventando così un altro oggetto della sua curiosità. A mia volta la osservo, di sottecchi però, con fare intimidito, cercando di non farmi notare, ma mi ci vuole poco per capire che, anche se la guardassi dritta negli occhi, lei non se ne accorgerebbe, tanto è l’interesse con cui analizza ogni centimetro della copertina del libro che sto leggendo.
Di lì a pochi istanti, mi rivelerà che non è stato tanto il titolo ad attirarla, “Di cuore e di coraggio”, quanto l’associazione insolita tra questo titolo, il quale le ricordava i romanzi rosa che amava leggere da ragazzina, con l’immagine di una stereotipata uniforme arancione da detenuto, tuttavia vuota, senza un corpo che la riempia, e dalla quale si libra uno stormo di uccelli bianchi che attraversano gli interstizi tra le sbarre di una prigione.
“No, non è un romanzo” le rispondo facendo viaggiare a cento all’ora la sua curiosità. “È il racconto di un direttore di carcere e della sua esperienza decennale all’interno di numerosi istituti di pena italiani”.
E via subito che inizia ad incalzarmi ed interrogarmi: perché una ragazza giovane come me dovrebbe interessarsi di argomenti così complessi e ispidi? Perché mai una studentessa ventitreenne dovrebbe aver voglia di frequentare degli uomini che sono reclusi da anni a causa di condanne e sentenze gravose, come ad esempio spaccio, rapina, associazione mafiosa e omicidio? Quale può essere il giovamento di una ragazza derivante dall’incontro con delle persone, in definita, tanto diverse da lei?
E io inizio a chiedermi: ma io e “loro” siamo davvero così tanto diversi?
Durante la mia preadolescenza sono stata protagonista di un evento molto doloroso, il quale mi ha catapultato, senza tanti preamboli, nel mondo dei grandi e mi ha costretta a confrontarmi faccia a faccia con la Giustizia. Sono rimasta segnata profondamente da questo episodio e, durante tutti gli anni successivi fino ad oggi, ho dovuto imparare a combattere contro il retro pensiero immobilizzante che fossi una persona cattiva, maligna, sbagliata e inadeguata.
Tuttavia, più che l’evento tragico in sé, sono state le conseguenze ad essere ancora più distruttive. Le prese in giro dei compagni, l’isolamento sociale perpetrato dagli altri come se fosse una punizione della comunità allargata per ciò che (non) avevo commesso, il continuo giudizio, i pettegolezzi di paese, le dispute tra gli avvocati e la sofferenza dei miei genitori (a nulla erano valsi i loro immensi sforzi per difendere la propria figlia), hanno reso il mio terreno sempre più fertile per la rabbia e l’odio.
Percepivo continuamente una spada di Damocle al di sopra della mia testa, pronta ad infliggermi una punizione da un momento all’altro, e la cosa peggiore era che, in fondo, sentivo di meritare il castigo che di lì a poco sarebbe sicuramente arrivato. Dopo due anni di costante pressione e sofferenza psicologica mi sono convinta che, per essere accettata e lasciata in pace, avrei dovuto incarnare l’immagine della cattiva ragazza che gli altri mi avevano cucito addosso. Ho cominciato così ad uscire con una compagnia di “amici” molto più grandi di me, che non frequentavano mai la scuola ed erano impegnati in attività al limite del lecito.
Oggi mi rendo conto che cercavo di soffocare il dolore di non essere creduta e accettata, anche se vi sommavo altro dolore imponendomi di essere chi non ero, auto-punendomi, come se spargessi il sale su ferite già aperte. Tuttavia, l’enorme sofferenza che provavo reclamava una via d’uscita, e quindi mi ferivo per punirmi e sostituire il dolore fisico al dolore psicologico.
Intorno ai 15 anni, la trama della mia vita ha subito una brusca inversione. Mi sono iscritta in un liceo, pur se a scuola non studiavo mai. Ho cominciato a coltivare nuove amicizie, pur se non mi fidavo di nessuno. Ho incontrato dei professori che mi hanno fatto capire l’importanza di avere una guida credibile e autorevole, pur se fino a quel momento avevo odiato e avevo avuto paura di tutto ciò che rappresentava l’autorità e le istituzioni.
Oggi sono passati un po’ di anni, mi sono laureata con il massimo dei voti, ho al mio fianco una persona fantastica e degli amici che considero la mia famiglia, non di sangue ma per scelta, i quali spesso mi hanno letteralmente salvata nei miei momenti bui.
Ma se non avessi avuto la possibilità di andare in un’altra città a studiare in una scuola attenta al rispetto delle regole? E se non avessi incontrato professori capaci di non farmi più sentire sbagliata, malata, incapace di raggiungere qualsiasi obiettivo e se non mi avessero insegnato ad apprezzare valori importanti come la disciplina, il rispetto e la perseveranza? Se non avessi trovato un gruppo di amici capaci di farmi sentire parte di qualcosa, quando mi credevo non meritevole delle relazioni e del riconoscimento altrui?
Da piccola avevo una sorella gemella. Qualche mese prima che mia mamma portasse a termine la gravidanza, l’Altra Me non ce l’ha fatta e sono nata solo io. Spesso faccio questo gioco nella mia mente, in cui mi immagino che lei si trovi in un universo parallelo e che sia la me che non ha compiuto quella grande inversione a U a 15 anni. La immagino prima come un’adolescente allo sbando, lasciata a se stessa e provata dalla mancanza di guide che la riportino sulla strada giusta, e poi come una tossicodipendente fallita o una delinquente.
È un po’ come il film Sliding doors, non so se ce lo avete presente. È quello in cui, in base alla porta del treno su cui sale il protagonista, il corso della sua vita cambia completamente. Forse è proprio per questo che la voce della signora della sedia gialla ha continuato a domandarmi per giorni quale fosse la differenza tra me e “loro”. Forse si tratta solo di condizioni di vita diverse in cui si cresce, di possibilità fortunate di redimersi e di salvifici incontri con guide credibili che riconducano sulla strada giusta.
Quindi innanzitutto cancellerei la parola “loro”, riferita a questi fantomatici esseri mitologici senza cuore che sono approdati in carcere perché hanno solo saputo fare del potere, del denaro e dell’arroganza gli unici binari della propria vita. La differenza tra NOI esseri umani sta spesso nelle condizioni soggettive e oggettive, ambientali e contestuali, materiali ed emotive a cui siamo sottoposti, le quali influenzano fortemente il percorso di vita verso una direzione piuttosto che un’altra.
Ora che si è detto ciò, potremmo anche concludere che sembra quasi che si tratti, in buona parte, di una questione di fortuna, quella di nascere in condizioni favorevoli al proprio sviluppo. E se accettassimo tale conclusione, non verrebbe facile pensare che noi cittadini civili non possiamo fare niente per prevenire e combattere la devianza?
Tuttavia c’è qualcosa che possiamo fare. Dobbiamo prendere una decisione: o subiamo passivamente ciò che accade all’interno di una società che ci vuole spaventati da tutto ciò che non conosciamo per tenerci lontani e per percepire gli “altri” come diversi, oppure diventiamo partecipanti attivi della nostra società ed esercitiamo il potere di cambiare il mondo e rivoluzionare il pensiero. Badate bene a quale strada scegliete perché, nel caso optaste per la seconda opzione, allora dovrete cominciare ad impregnarvi oggi stesso, seduta stante, a rivoluzionare il vostro pensiero e, di conseguenza, la società stessa.
La cosa più semplice da fare sarebbe quella di impegnarsi affinché quanto più cittadini possibile inizino a portare la società civile all’interno del carcere, contaminandolo come un morbo benefico. È bene che sempre più persone entrino come volontari negli istituti di pena e ascoltino le storie di quei “loro” tenuti tanto lontani da noi da sembrare alieni.
Non abbiate paura del dolore altrui e del male perché soltanto conoscendo e studiando il male, lo si può affrontare con le armi giuste per poi riuscire addirittura a prevenirlo. Studiamo le condizioni che conducono alla devianza non usando come cavie gli ex criminali, ma servendoci del loro aiuto di neonati cittadini responsabili per salvare chi oggi ha bisogno di un salvagente per ritornare sulla terraferma.
Il tempo per diventare una società responsabile è arrivato, ed è oggi.
Complimenti Elisabetta.
Una profonda lezione di civiltà, in grado di suscitare riflessioni intense su ciò che si sta facendo della propria vita.
Uno scritto molto motivazionale.
Queste parole vorrei entrassero nel cuore di mia sorella più piccola in modo da alimentare nel suo animo la forza che le permetterebbe, come affermi anche tu, di trovare quel salvagente per ritornare sulla terraferma.
Elisabetta, grazie!
Grazie per il tuo scritto, un testo molto articolato! Ogni paragrafo è un “Raccontarsi”, che si intreccia con il “Raccontare”.
Nello slalom di riflessioni ed interrogativi della tua storia, di cui ci fai dono, si solleva la determinazione di capire e studiare meglio la presenza del male nella complessità della condizione umana, poiché non c’è alcuna distanza di sicurezza che valga la pena di inventarsi.
Così, la tua crescita umana ed il percorso professionale ti diano la possibilità di realizzare i progetti di cambiamento che esponi per il recupero di una Società civile e responsabile.
Buon lavoro proficuo a Te!