Un campo d’azione

Interdipendenza non somiglianza
Una prova di coraggio verso il cambiamento

Molti giovani adulti rinchiusi in carcere non hanno veramente avuto un’adolescenza. Per questa ragione, c’è bisogno di riunire il maggior numero di risorse possibili per il reparto “LA CHIAMATA”, che immagino come un campo d’azione e una prova di coraggio verso il cambiamento.

Gruppo operativo
Composto da persone capaci di stabilire un contatto con i giovani adulti, che tengano conto delle difficoltà presenti nella crescita umana, in funzione di una pratica educativa che prediliga la comprensione e la relazione, piuttosto che programmi e schemi rigidi.

Contesto
L’ambiente deve suggerire una nuova opportunità di relazione con il giovane. Secondo la teoria di Winnicott (1984), l’atto antisociale è una manifestazione di speranza, un tentativo di chiedere aiuto al mondo degli adulti. Per questo penso a un ambiente fisico e psichico che restituisca voce alla speranza attraverso un costante dialogo e una continua relazione con il giovane, per contenere l’emergere di sentimenti di sfiducia che lo possano indurre a disinvestire sul proprio futuro.

Reclutamento agenti
Credo sia importante reclutare agenti di polizia penitenziaria fortemente motivati a contribuire al cambiamento della persona detenuta e a tollerare e comprendere la fragilità umana. È importante avere nel reparto agenti con una specifica formazione sui fattori che contribuiscono alla costruzione di un’identità criminale e su come contrastare il risentimento, la rabbia e gli atteggiamenti oppositivi, che in luoghi come il carcere sorgono facilmente nel giovane adulto.

Presenza di Peer Support
In aggiunta al lavoro dell’agente motivato e formato, credo sia necessaria la presenza in reparto di detenuti o ex detenuti membri del Gruppo della Trasgressione con lunga esperienza di detenzione. Questo per mantenere un equilibrio tra rigore (agente di polizia) e solidarietà (detenuto o ex detenuto) e per contribuire alla salvaguardia della fiducia e della salute mentale del giovane (che, appena fermato, immagino spaventato e disorientato).

Collegamento con la famiglia e psicofarmaci
Se tra le figure familiari fosse presente un parente “portatore sano d’amore”, incoraggerei frequenti colloqui con il giovane adulto. Inoltre, questo accudimento potrebbe sostituire gli psicofarmaci, “Vorrei essere aiutato a vivere, non a dormire. Vorrei non non mi venisse consigliato di prendere una terapia”, (detenuto, San Vittore, 12.01.2023). “Se si partecipa a un progetto non c’è bisogno di dormire. Il controllo non si ottiene con lo psicofarmaco ma con ruoli che permettano l’esercizio della responsabilità”, (Aparo, San Vittore, 12.01.2023).

Guide credibili e Progetti
Il miglioramento psichico del giovane adulto è raggiunto se l’adulto di riferimento è credibile e capace di attrarlo, senza forzature o imposizioni, con progetti nei quali il giovane possa ricoprire un ruolo significativo (esempio: scrivere pensieri, riflessioni su un certo argomento proposto). L’approccio, saldamente collaudato dal nostro Gruppo, permetterebbe al giovane di prendere, in regime di totale volontarietà e libertà, consapevolezza del suo mondo interiore, dei propri sentimenti e dei propri conflitti.

Contaminazione col mondo esterno
Appuntamenti periodici frequenti per offrire uno stabile “nutrimento culturale” all’interno del reparto. Preparazione di spettacoli teatrali e altre forme d’arte, laboratori che offrano occasioni di apprendimento e di crescita personale. Inviterei docenti universitari, studenti delle scuole superiori, studenti universitari, artisti ma soprattutto gente comune, volontari disponibili al confronto e alla riflessione, persone portatrici di normalità.

Interventi del mondo imprenditoriale
Nella mia vita il lavoro è stato sempre importante, mi ha aiutato in molti momenti di difficoltà e per me ha sempre rappresentato un progetto in cui esercitare ruolo e responsabilità. Per questo sono convinta che il mondo dell’imprenditoria debba essere coinvolto nel progetto del reparto. L’imprenditore ha un ruolo economico e sociale ed è responsabile della crescita della persona. Per questi motivi potrebbe contribuire all’ideazione di progetti nei quali i suoi dipendenti formino le competenze della persona detenuta e la preparino a ricoprire una posizione lavorativa alla sua scarcerazione. Questo per me rappresenta il vero reinserimento nella Società: se lavoro sono nel mondo.

Comunicazione
Viviamo nella società dell’informazione. Dunque, sfruttiamo al meglio queste tecnologie per creare spazi sociali di discussione, di conversazione tra persone detenute e cittadini della società civile, in uno scambio continuo di contenuti e di emozioni, così da mantenere viva nei giovani adulti la fiducia d’investire nel proprio futuro.

In conclusione,
un insieme di forze eterogenee, tutte dedicate a stimolare la creatività delle persone detenute affinché possano svolgere delle attività nelle quali riconoscersi, creare condotte di responsabilità e occasioni di apprendimento. Un camminare insieme con lo scopo di accompagnare il giovane alla consapevolezza dell’offesa procurata, nel suo percorso di costruzione di un’identità nuova e nel suo reinserimento nella società. Soccorrere il giovane adulto e contemporaneamente proteggere gli altri.

Lara Giovanelli, Angelo Aparo

Reparto LA CHIAMATA

Un commento su “Un campo d’azione”

  1. Oggi siamo nella piena epoca della cosiddetta “infodemia” quell’enorme flusso di informazioni che non informa ma tende troppo spesso a deformare la realtà. In pratica il terreno dove poi trovano spazio e fertilità le fake news. Questo tipo di informazione alimenta un sistema distorto di aspettativa dell’opinione pubblica. Anche la questione carcere non rimane indenne, come le altre notizie subisce una sorta di stortura, con questo clima non è facile orientarsi, la popolazione non dispone di strumenti come il termometro che misura la temperatura e da un dato verosimilmente attendibile, per cui le opinioni trovano frequentemente le pluralità più disparate. Per quanto concerne la questione carcere bisogna necessariamente andare oltre la retorica giustizialista o quella garantista dei dibattiti, altrimenti c’è il rischio di rimanere impantanati. L’unica certezza rimane il cosiddetto tasso di recidiva fornito sia dall’amministrazione penitenziaria che da associazioni accreditate del terzo settore. Il tasso di recidiva nel nostro paese va ben oltre il settanta per cento, la rilevazione riporta il numero statistico di coloro che sono stati condannati con sentenza divenuta irreversibile e una volta usciti hanno commesso nuovi reati e sono stati di nuovo arrestati. Questo dato molto alto pare non interessare nessuno, è un numero fine a se stesso una cifra x che serve a rappresentare y. Invece dovrebbe caldamente interessare tutti, perché in prigione ci vanno anche gli innocenti per una serie di errori giudiziari, persone comuni a cui in fase processuale dopo essere stati sottoposti alla violenza della custodia cautelare viene riconosciuta la loro innocenza. Chiunque avesse dubbi può fugarli visitando errorigiudiziari.com. Ma dovrebbe inoltre interessare perché il carcere è legato a doppio filo alla sicurezza, la sicurezza sociale è un bene collettivo ed è un bene di cui tutti si dovrebbero occupare perché ci riguarda come società. Infine il carcere non interessa solo la popolazione detenuta, impatta sulle famiglie, sugli amici dei reclusi sulle persone che ci lavorano e indirettamente anche sui loro congiunti. Poi mi urge evidenziare un dato che non emerge mai nel dibattito ed è l’emorragia economica dei costi delle strutture penitenziarie, tre miliardi di euro che i contribuenti pagano ogni anno per un istituzione che adempie solo in minimissima parte al mandato Costituzionale di reinserire i detenuti a fine pena nella comunità. Obbiettivamente non ci vuole la palla di cristallo per capire che gli istituti di pena Italiani sono una metastasi sociale, un male endemico che ha effetti dannosi. D’avanti a tutto ciò non si può rimanere indifferenti, l’indifferenza come la definiva Cechov è (la paralisi dell’anima), una morte prematura, una pena nella pena. Al gruppo si sta dibattendo e producendo molto materiale sul reparto la CHIAMATA, a me piace immaginare che un giorno questo El Dorado prenda vita e si realizzi dove gli ori e le pietre preziose siano la coesistenza dei diritti e dei doveri, dove la dignità umana vada a braccetto con il rispetto delle regole condivise, un luogo dove giovani adulti vengano custoditi con cura, come persone cui è stata tolta la sola libertà causa la commissione di reati e nell’applicare la punizione vengano garantiti tutti gli altri diritti che fanno della vita umana degna di essere vissuta, un reparto dove attraverso l’adozione di pratiche riabilitative che si basino su percorsi multidisciplinari la persona reclusa finalmente riesca a prendere culturalmente consapevolezza del male commesso si depuri da esso rivedendo in modo critico il proprio passato così da poter avere una seconda chance per rimettersi in discussione e fare finalmente ritorno nella comunità emancipato come cittadino. Esiste una antica arte nipponica che ripara le ferite, il kintsugi, pratica che con l’uso di oro liquido come collante ripara i vasi rotti andati in frantumi. Paradossalmente i cocci del vaso con l’uso dell’oro riprendo vita impreziosendo i vasi. Questa arte è portatrice di un messaggio di rinascita, in un vaso rotto c’è l’opportunità di aumentare la bellezza e il valore, allo stesso modo in una persona che si rompe causa traumi del passato, infelicità, infanzia difficile, o per le proprie fragilità risiede l’opportunità di rinascere a nuova vita, aggiungendo oro su noi stessi attraverso l’amore la comprensione, accogliendo le nostre fragilità possiamo riparare le nostre ferite interiori sanando le fratture emotive, temprando una nuova personalità, una nuova coscienza e diventare più forti e sani di prima. Questo è ciò che mi aspetto che accada nel reparto la CHIAMATA. Il male non può essere sconfitto con alto male, l’unico e solo antidoto dei mali è il bene. Nel 700 Voltaire, nell’800 Dostoevskij,parafrasando chi prima di loro aveva affermato che la civiltà di un popolo si vede non dai propri palazzi, ma dallo stato delle proprie prigioni. Rocco Panetta.

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