Don Claudio Burgio e i giovani

Non sono pochi i ragazzi che all’interno del carcere minorile o in comunità ti nascondono la loro vera identità: un adolescente rom solo dopo quattro anni di vita comune mi rivelò il suo vero nome. Mi spiazzò, rimasi perplesso per qualche giorno; poi, capii. Non è solo la difficoltà a consegnare la propria storia personale e familiare; c’è anche la fatica del nascere a se stessi, dell’abitare il proprio nome. Ragazzi orfani di identità.

Sono la paura e la diffidenza a segnare la vicenda di molti adolescenti che incontro: paura di non essere accolti per come sono, paura di non valere agli occhi degli altri, di rimanere invisibili, paura di essere misconosciuti e traditi da un mondo adulto sempre più assente e insicuro, più incline a escludere che a includere.

Ragazzi trasgressivi che, abbandonati a se stessi, sconfinano in comportamenti antisociali e perdono il controllo della loro impulsività, fino a diventare pericolosamente violenti; minori che tentano di soffocare dentro il dolore che li accompagna da quando sono nati.

Li chiamano «ragazzi a rischio», «bulli», «delinquenti», «ragazzi di strada», «giovani devianti», «mostri»: per me sono ragazzi e basta. Li incontro nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano e nelle comunità di accoglienza Kayrós, li ascolto nei colloqui personali, per strada, nei dibattiti pubblici, negli oratori e nelle scuole. Con quella tremenda voglia di gridare al mondo il loro esserci, da un po’ di anni sono diventati i miei compagni di viaggio.

Sono cuori violenti spesso per disperazione. Più vado avanti, più mi convinco di una cosa: non esistono ragazzi cattivi. Mi capita più volte, in occasione di incontri pubblici e di colloqui privati con persone adulte, di avvertire intorno a me ammirazione mista a commiserazione, come se stessi svolgendo un compito ingrato, come se occuparsi di ragazzi difficili fosse impresa straordinaria per uomini fuori dal comune. C’è un po’ in giro questa sensazione, che l’educazione debba essere opera di persone particolarmente eroiche e necessariamente sante.

Non è così. L’educazione è compito di ogni adulto, è responsabilità a cui non ci si può sottrarre; chi come genitore, chi come insegnante, chi come politico, chi come operatore sociale, chi come uomo di sport e di fede… Ognuno deve avvertire l’urgenza e la gioia nel consegnare ai giovani il mestiere di vivere, permettendo loro di incontrare il senso del mondo e trasmettendo loro prospettive di valore e di impegno per cui valga la pena di vivere e, se necessario, di morire.

Improvvisamente questi ragazzi diventano scrittori poeti della vita. In queste pagine si nasconde la loro intimità e un’incredibile sapienza e come se il carcere ridesse a questi giovani la voglia di pensare e di tradurre per iscritto pensieri più veri.

I nostri ragazzi, urlano in modo violento il dolore che non riescono più a contenere dentro, cercano adulti interessati a raccogliere il grido d’aiuto, adulti capaci di governare il caos evolutivo che li stordisce. Il reato, più che scelta consapevole, è segnale di fragilità, sintomo doloroso di un disagio.

Il percorso della consapevolezza e della responsabilizzazione è ciò che permette all’adolescente di ritrovarsi. Troppi genitori, insegnanti, educatori, in nome di un malinteso concetto di educazione, evitano lo scontro per non esasperare il conflitto.

È difficile pensare a una ripresa evolutiva, se l’adolescente non viene chiamato per nome ad assumersi nuove responsabilità. Per lasciare la tomba delle paure alle spalle è indispensabile che egli si senta coinvolto in progetti importanti di vita, in avventure educative di ampio respiro dove possa sperimentarsi come soggetto attivo e possa vivere un protagonismo sano. Per far sì che questo avvenga occorre pensare a ripensare politiche giovanili nell’ambito pubblico e progettualità pastorali nell’ambito ecclesiale improntate sulla serietà.

I giovani non si lasciano affascinare da chiamate poco esigenti e prive di carica. Non c’è espiazione che tenga se non avviene prima questo recupero della coscienza, forse meglio ancora se non si incomincia a formare una coscienza. Non c’è alcuna possibilità di riprese evolutiva senza l’assunzione di responsabilità nei confronti di sé e degli altri. Solo così molte crisi adolescenziali trasformano in risorse un periodo doloroso e difficile di crescita.


Estratti da: ISBN eBook PDF 9788831560825,  Burgio Claudio. Non esistono ragazzi cattivi. Esperienze educative di un prete al Beccaria di Milano. Edizioni Paoline. Edizione del Kindle. Prima edizione digitale 2013.
https://www.kayros.it/don-claudio

No, non c’è tradimento!

San Vittore 16/02/2023

Ascolto con attenzione i contributi dell’eterogeneo gruppo che si riunisce tutti i giovedì al nascente reparto LA CHIAMATA e constato che tutte le idee vengono scambiate, confrontate, criticate, tanto che io dubito spesso anche delle mie.

Tuttavia, quando il prof. Aparo ha aperto l’incontro di giovedì scorso a San Vittore, chiedendo ai presenti se chi s’interessa del benessere della persona condannata stia tradendo i famigliari della vittima o se occuparsi della sofferenza di chi ha commesso un omicidio equivalga a ignorare la disperazione della figlia e della moglie della vittima, ho sentito dentro di me una risposta certa: “No, non c’è alcun tradimento!

Anche se l’argomento è complesso e doloroso, non posso rinunciare a tentare di capire la relazione lega l’uomo al criminale, non posso credere che sto trascurando la vittima quando cerco di scoprire dov’è andata l’umanità di chi è stato carnefice.

Mi avvicino alla persona detenuta, sentendo la necessità di rintracciare quali siano i fattori che hanno contribuito a farlo scivolare verso l’assenza da se stesso. E mi preoccupa che siamo in pochi a volerlo fare, a voler capire cosa succede all’uomo. Sento nei racconti dei detenuti la mancanza di qualcosa di cui, invece, mi sembra che noi tutti abbiamo bisogno. E al gruppo si cerca di continuo cos’è: qualcosa che prima c’era? Che non c’è mai stato?

Pur considerando che la figura dei genitori ha un ruolo centrale nella costruzione della personalità dell’adolescente, mi chiedo come abbiano fatto molti giovani a sopravvivere a infanzie infelici con genitori disattenti o assenti e a contesti degradanti, senza per questo autorizzare se stessi all’abuso, senza ricorrere a “soluzioni” devianti.

Comprendere perché alcune persone soccombono e altre sopravvivono in ambienti in cui si vivono le stesse difficoltà, rappresenta un terreno di studio molto interessante per noi componenti del Gruppo della Trasgressione. La direzione che il degrado ambientale e le difficoltà familiari imprimono ai sentimenti e alle scelte dell’individuo non è automatica! Diversamente, come si spiegherebbe che nello stesso nucleo famigliare un figlio prende la strada della devianza e l’atro no?

Mi sembra quindi importante cercare di approfondire cosa sente il giovane deviante, osservare il modo in cui egli reagisce alla frustrazione, quale lettura egli dà degli eventi e delle relazioni che vive, quale impasto si produce nella sua affettività, tale da portarlo al reato.

Quanto più ragiono su questi aspetti, tanto più mi rendo conto degli effetti terapeutici del Gruppo della Trasgressione sulle persone che lo frequentano e del metodo con cui viene perseguito l’obiettivo del reinserimento sociale della persona detenuta. Per questo mi sembra indispensabile sgrovigliare i nodi che compongono i bisogni psicologici dell’autore di reato e ottenere informazioni utili a impostare progetti e operazioni d’intervento.

L’avvicinamento a chi ha operato l’offesa e la sua responsabilizzazione in progetti collettivi sono certamente gli strumenti migliori per contrastare il ripetersi dell’abuso: “Capire cosa induce alla condotta antisociale non è un tradimento nei confronti della vittima, è piuttosto una ricerca di quell’umanità che era stata progressivamente defenestrata lungo il complesso percorso che ha portato all’episodio criminoso” (Aparo, San Vittore, 16/02/2023).

Lara Giovanelli

Reparto LA CHIAMATAIncontri con i familiari delle vittime

Un campo d’azione

Interdipendenza non somiglianza
Una prova di coraggio verso il cambiamento

Molti giovani adulti rinchiusi in carcere non hanno veramente avuto un’adolescenza. Per questa ragione, c’è bisogno di riunire il maggior numero di risorse possibili per il reparto “LA CHIAMATA”, che immagino come un campo d’azione e una prova di coraggio verso il cambiamento.

Gruppo operativo
Composto da persone capaci di stabilire un contatto con i giovani adulti, che tengano conto delle difficoltà presenti nella crescita umana, in funzione di una pratica educativa che prediliga la comprensione e la relazione, piuttosto che programmi e schemi rigidi.

Contesto
L’ambiente deve suggerire una nuova opportunità di relazione con il giovane. Secondo la teoria di Winnicott (1984), l’atto antisociale è una manifestazione di speranza, un tentativo di chiedere aiuto al mondo degli adulti. Per questo penso a un ambiente fisico e psichico che restituisca voce alla speranza attraverso un costante dialogo e una continua relazione con il giovane, per contenere l’emergere di sentimenti di sfiducia che lo possano indurre a disinvestire sul proprio futuro.

Reclutamento agenti
Credo sia importante reclutare agenti di polizia penitenziaria fortemente motivati a contribuire al cambiamento della persona detenuta e a tollerare e comprendere la fragilità umana. È importante avere nel reparto agenti con una specifica formazione sui fattori che contribuiscono alla costruzione di un’identità criminale e su come contrastare il risentimento, la rabbia e gli atteggiamenti oppositivi, che in luoghi come il carcere sorgono facilmente nel giovane adulto.

Presenza di Peer Support
In aggiunta al lavoro dell’agente motivato e formato, credo sia necessaria la presenza in reparto di detenuti o ex detenuti membri del Gruppo della Trasgressione con lunga esperienza di detenzione. Questo per mantenere un equilibrio tra rigore (agente di polizia) e solidarietà (detenuto o ex detenuto) e per contribuire alla salvaguardia della fiducia e della salute mentale del giovane (che, appena fermato, immagino spaventato e disorientato).

Collegamento con la famiglia e psicofarmaci
Se tra le figure familiari fosse presente un parente “portatore sano d’amore”, incoraggerei frequenti colloqui con il giovane adulto. Inoltre, questo accudimento potrebbe sostituire gli psicofarmaci, “Vorrei essere aiutato a vivere, non a dormire. Vorrei non non mi venisse consigliato di prendere una terapia”, (detenuto, San Vittore, 12.01.2023). “Se si partecipa a un progetto non c’è bisogno di dormire. Il controllo non si ottiene con lo psicofarmaco ma con ruoli che permettano l’esercizio della responsabilità”, (Aparo, San Vittore, 12.01.2023).

Guide credibili e Progetti
Il miglioramento psichico del giovane adulto è raggiunto se l’adulto di riferimento è credibile e capace di attrarlo, senza forzature o imposizioni, con progetti nei quali il giovane possa ricoprire un ruolo significativo (esempio: scrivere pensieri, riflessioni su un certo argomento proposto). L’approccio, saldamente collaudato dal nostro Gruppo, permetterebbe al giovane di prendere, in regime di totale volontarietà e libertà, consapevolezza del suo mondo interiore, dei propri sentimenti e dei propri conflitti.

Contaminazione col mondo esterno
Appuntamenti periodici frequenti per offrire uno stabile “nutrimento culturale” all’interno del reparto. Preparazione di spettacoli teatrali e altre forme d’arte, laboratori che offrano occasioni di apprendimento e di crescita personale. Inviterei docenti universitari, studenti delle scuole superiori, studenti universitari, artisti ma soprattutto gente comune, volontari disponibili al confronto e alla riflessione, persone portatrici di normalità.

Interventi del mondo imprenditoriale
Nella mia vita il lavoro è stato sempre importante, mi ha aiutato in molti momenti di difficoltà e per me ha sempre rappresentato un progetto in cui esercitare ruolo e responsabilità. Per questo sono convinta che il mondo dell’imprenditoria debba essere coinvolto nel progetto del reparto. L’imprenditore ha un ruolo economico e sociale ed è responsabile della crescita della persona. Per questi motivi potrebbe contribuire all’ideazione di progetti nei quali i suoi dipendenti formino le competenze della persona detenuta e la preparino a ricoprire una posizione lavorativa alla sua scarcerazione. Questo per me rappresenta il vero reinserimento nella Società: se lavoro sono nel mondo.

Comunicazione
Viviamo nella società dell’informazione. Dunque, sfruttiamo al meglio queste tecnologie per creare spazi sociali di discussione, di conversazione tra persone detenute e cittadini della società civile, in uno scambio continuo di contenuti e di emozioni, così da mantenere viva nei giovani adulti la fiducia d’investire nel proprio futuro.

In conclusione,
un insieme di forze eterogenee, tutte dedicate a stimolare la creatività delle persone detenute affinché possano svolgere delle attività nelle quali riconoscersi, creare condotte di responsabilità e occasioni di apprendimento. Un camminare insieme con lo scopo di accompagnare il giovane alla consapevolezza dell’offesa procurata, nel suo percorso di costruzione di un’identità nuova e nel suo reinserimento nella società. Soccorrere il giovane adulto e contemporaneamente proteggere gli altri.

Lara Giovanelli, Angelo Aparo

Reparto LA CHIAMATA